Conflitto Russia-Ucraina. Diritto internazionale: mito o realtà?

Conflitto Russia-Ucraina. Diritto internazionale: mito o realtà?

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di Alessandro Testa, redazione nazionale "Cumpanis"

 

 

Il conflitto tra Ucraina e Russia – dietro il quale si cela, neppure troppo velatamente, l’eterna contrapposizione tra l’imperialismo anglo-statunitense e gli interessi nazionali dell’orso russo – sta portando ancora una volta alla ribalta l’annoso argomento del “diritto internazionale”, con le sue mille sfaccettature e contraddizioni: consuetudini, trattati, convenzioni (tra le quali quella di Vienna), organizzazioni e tribunali internazionali, Stati aderenti o meno ai predetti trattati e convenzioni. Un vero ginepraio, non c’è che dire.

 

Per dipanare la matassa assai ingarbugliata di questa situazione – ovvero, in buona sostanza, per capire chi “ha ragione” e chi “ha torto” – sarà bene partire ab ovo, cioè da quel concetto fondamentale che potrebbe riassumersi nella semplice domanda: “Ma alla fine, cos’è davvero il diritto?”. Ovviamente, ci proponiamo qui di esaminare la vexata quaestio con gli strumenti che il pensiero marxista ci mette a disposizione, ovvero il materialismo dialettico e quello storico, giungendo a dimostrare che le leggi e il diritto non sono altro che la cristallizzazione formale dei rapporti di forza che si instaurano tra gruppi sociali aventi interessi specifici differenti e, spesso, contrastanti.

 

Il diritto come formalizzazione dei rapporti di forza

 

Sgombriamo subito il tavolo da qualunque fanfaluca di tipo idealistico-giusnaturalista: concetti astratti come bene, giustizia e diritto non sono altro che proiezioni simboliche della sostanziale esigenza dell’essere umano – esigenza del tutto concreta e materiale – di sopravvivere come individuo e come specie (Dawkins direbbe “sopravvivere come genoma”); già in questo dualismo si palesa uno scontro dialettico, quello tra individuo e società, la cui sintesi concreta non può avvenire se non attraverso l’uso della forza, sia essa mera ed egoistica violenza fisica o piuttosto negoziazione pattizia tra le parti in causa, negoziazione che comunque deve basarsi sulla possibilità di imporne i risultati con la forza.

 

Del resto, che nel diritto non esistano “valori assoluti”, validi dovunque e comunque, lo dimostra lo studio comparato – sull’asse cronologico e geografico – delle forme che norma e diritto hanno assunto e assumono in differenti realtà storiche e culturali: menzioneremo qui, a mero titolo d’esempio, la legge del taglione, l’ordalia, il diritto romano e la sharia, così diversi nei presupposti e nelle modalità applicative, seppur tutti tesi a comporre i conflitti d’interesse minimizzando per quanto possibile il ricorso all’arbitrio individuale e il conseguente spreco di vite umane.

 

Quindi, secondo questa visione, il diritto è un mero metodo, un “sistema” volto alla composizione dei conflitti interpersonali e inter-sociali, un metodo il cui scopo è semplicemente quello di evitare, o meglio minimizzare, quel sacrificio di vite umane – e quindi massimizzare il potenziale di sopravvivenza del pool genetico e con esso della specie – che il brutale “esercizio arbitrario delle proprie ragioni” comporterebbe. Chiaramente, l’essere umano, con la sua forma mentis profondamente incline al pensiero simbolico, non ha tardato ad ammantare questi semplici e concreti concetti di un velo misticheggiante, col suo corteo di dei, idee platoniche e nebulosi noumeni, finendo per autoconvincersi che, ad esempio, l’omicidio viene punito non perché è un inutile spreco di genoma, ma piuttosto in nome di un’idea trascendente di “giustizia” o addirittura perché “così vogliono gli dei”.

 

Torniamo però ai rapporti di forza: se nel passato chi era fisicamente più possente, più scaltro o più benestante imponeva direttamente il suo volere – la sua legge – sul debole e sul povero, l’evoluzione stessa si è incaricata di favorire la sopravvivenza di quei gruppi sociali che preservassero la varietà del pool genetico attraverso norme capaci di mediare questi rapporti di forza equilibrando lo strapotere dell’uno con la pluralità degli altri. Tutto bene, quindi – oppure no?

 

Purtroppo, le cose non sono semplici come sembrerebbero: la storia dei rapporti sociali ci ha mostrato che nulla è inciso nella pietra e che ogni conflitto tra tesi ed antitesi, pur contemperato in una sintesi, non tarda a generare nuove diadi dialettiche in cui la sintesi, così faticosamente raggiunta, diviene nuova tesi cui si contrappone inevitabilmente una nuova antitesi. Quindi, i rapporti di forza soggiacenti continuano a produrre nuove forme di conflitto e contraddizione che la legge e il diritto non sanno, o non possono, normare; la legge e il diritto non sono altro, quindi, che mera sovrastruttura dei rapporti sociali sostanziali soggiacenti, che come tale cede costantemente il passo alla struttura – ai veri rapporti di forza – quando essa deve manifestarsi in un rapporto dialettico conflittuale sufficientemente intenso da non poter più essere mediato dal puro formalismo legale.

 

Lo abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni: il piccolo criminale viene punito severamente, ma il grande criminale, ben addentro ai meccanismi del potere e dello Stato, sfugge spesso alla punizione che la legge imporrebbe. No, la legge non è “uguale per tutti”, proprio perché, derivando direttamente dalla lotta dialettica tra rapporti di forza, è obbligata sottomettersi a questi rapporti quando il caso lo impone. Questo spiega il perché la legge non è mai semplice e inequivocabile, ma è quasi sempre avvolta in una nebbia di cavilli e trappole procedurali – come dice il famosissimo adagio, la legge per nemico si applica, per l’amico si interpreta. E sappiamo bene chi siano l’amico e il nemico del modo di produzione capitalistico.

 

E nei momenti di crisi, lo abbiamo appena constatato, anche le leggi più “sacre e fondamentali” – la Costituzione, ad esempio – divengono carta straccia quando contraddicono un potere troppo forte: davanti alla pandemia Covid e al potenziale danno economico da essa arrecato, il governo con un semplice atto amministrativo ha fatto carne di porco dell’articolo 13 della Costituzione, “condannando” tutti i cittadini alla detenzione domiciliare senza che un giudice l’avesse mai sentenziata, proibendogli addirittura di uscire dalle loro abitazioni tranne, ovviamente, che per ristrettissime esigenze di base (fare la spesa, andare in farmacia) e ovviamente per recarsi al lavoro – rectius, a farsi sfruttare dal padrone.

 

Last but not least, permetteteci una considerazione tanto ovvia quanto fondamentale: non esiste norma o legge che abbia il seppur minimo valore se non esiste un potere dotato della forza – spesso brutalmente fisica – capace di obbligare chiunque al suo rispetto, pena la punizione e l’esclusione dal consesso sociale. E qui vale domandarsi, ancora una volta, come sarà congegnata una legge, e come sarà gestita la sua implementazione, a seconda di quale sia la classe sociale che detiene il potere.

 

Il diritto internazionale

 

Diciamolo senza giri di parole: il diritto internazionale non è altro che il diritto del vincitore. Anche qui valgono le considerazioni già espresse, ovvero che lo jus cogens, le convenzioni e i trattati mirano a ridurre, per quanto possibile, lo spreco di vite umane – stavolta su scala macroscopica – e quindi a favorire la sopravvivenza della specie; ma dato che, come la storia ci ha insegnato, gli interessi strutturali di classe finiscono sempre per prevalere sul buonsenso, il diritto internazionale è paradossalmente chiaro e indiscutibile in tempo di pace, salvo divenire improvvisamente controverso e inapplicabile in tempo di guerra. Perché?

 

Perché la struttura concreta – interessi materiali contrapposti e rapporti di forza – lo importa sempre, inevitabilmente, sulle sovrastrutture simboliche. Primum vivere, deinde filosofare. E quando si tratta di conflitti su scala mondiale, che vedono contrapposti gli interessi globali tra classi, o quelli interni alla stessa classe, capiamo immediatamente come convenzioni e trattati divengano inevitabilmente, come si suol dire, carta straccia.

 

Del resto, il processo Norimberga ci insegna come la legge la facciano inevitabilmente i vincitori, applicandola anche retroattivamente a situazioni che nel loro svolgersi non erano di fatto normate o erano sottoposte a leggi e consuetudini differenti. Ovviamente, gli alleati si sono richiamati a principi superiori – più o meno condivisibili – di “giustizia” e “diritto naturale”, ma la verità è che hanno potuto condannare i gerarchi nazisti solo in base ai rapporti di forza vigenti alla fine della guerra; anzi, non dimentichiamoci che moltissimi nazisti e fascisti di una certa importanza non solo hanno scampato ogni punizione e condanna, ma sono stati persino integrati nelle strutture militari e di sicurezza dei Paesi vincitori – chissà perché.

 

Quindi, il diritto internazionale, pur essendo in buona sostanza il lodevole tentativo di limitare sofferenze e perdite dovute a guerre e conflitti di ogni genere, proprio per la sua dimensione sovrastrutturale e idealistica, unita alla mancanza di un potere superiore dotato della forza necessaria ad imporne il rispetto e a punirne la violazione, si risolve spesso in una mera petizione di principio, attinente più al campo dell’etica e della morale che a quello della capacità sostanziale di gestire la realtà concreta. Tranne che, ovviamente, alla fine del conflitto, quando i vincitori puniranno i perdenti non perché hanno trasgredito la norma – abbiamo visto che il vincitore può addirittura creare la legge dopo che il fatto è stato commesso – ma semplicemente perché possono e ne hanno interesse.

 

Il conflitto Russia Ucraina

 

Veniamo quindi ai giorni nostri: si fa un gran discutere su chi è l’aggressore e chi l’aggredito, sull’aggressore strategico e chi quello operativo, si compulsano i protocolli di Minsk e la Convenzione di Vienna, si giunge persino a discettare del valore – cogente o meno – delle dichiarazioni rese negli anni ‘90 in cui gli USA e i loro alleati promettevano senza ambiguità che “la NATO non si sarebbe espansa di un centimetro verso Est”. Tutto bello, tutto appassionante, tutto intellettualmente sfidante ma, tristemente, tutto inutile.

 

Tutto inutile perché, come abbiamo visto, non sono le sovrastrutture a dominare le strutture, ma piuttosto è l’opposto – pur se bisogna riconoscere che anche tra struttura e sovrastruttura si instaura spesso, se non sempre, un rapporto dialettico. Sono quindi gli interessi contrapposti e i rapporti di forza a contare, e ancor meglio potremmo dire che è la dialettica storica degli interessi contrapposti e dei rapporti di forza quella che determina gli inevitabili conflitti tra nazioni; a nulla vale cercare di attribuire colpe e patenti di innocenza a norma di diritto, quando invece bisognerebbe valutare attentamente i fini e gli scopi delle classi che in quelle nazioni detengono il potere, e le conseguenze che la vittoria dell’una o dell’altra parte avrebbe sul genere umano.

 

Andrebbe, quindi, attentamente studiato quel “Grande Gioco” iniziato nell’Ottocento e così ben descritto da Rudyard Kipling nel suo romanzo “Kim”, quell’eterno conflitto tra il proteiforme potere del capitalismo, britannico prima e statunitense poi, e una Russia prima autocratica, poi socialista e infine paleocapitalista ma unico baluardo, insieme alla Cina, che si frappone tra l’umanità e la “fine della storia” preconizzata da Francis Fukuyama, unico argine allo strapotere del capitalismo finanziario globale di cui gli USA e la NATO sono il braccio armato imperialista.

 

Andrebbero compresi a fondo gli interessi in gioco, il perché di un accerchiamento della Russia che procede ormai da più di due secoli, i rapporti profondi tra l’imperialismo militarista e la crisi profondissima in cui il capitalismo si dibatte nella fase storica corrente; andrebbe capito lo scenario che si prospetterebbe con il progressivo accerchiamento, la sconfitta e il totale annientamento della Russia, prologo alla recrudescenza della pressione su una Cina che sta brillantemente dimostrando la capacità del “socialismo con caratteristiche cinesi” di aumentare esponenzialmente il benessere nella madrepatria costruendo contemporaneamente con altri Paesi quei rapporti multilaterali basati sul rispetto e sul mutuo vantaggio che rappresentano una vera strategia di sviluppo win-win.

 

Questo, riteniamo, andrebbe studiato, e non l’ipocrita idealismo di quell’inganno per anime belle chiamato “Diritto Internazionale”.

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