Emiliano Brancaccio: «La guerra alla casta per rendere tollerabile l'austerità»

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di Emiliano Brancaccio - L'Espresso

Meno di un euro, nemmeno un caffè all’anno. E’ questo il risparmio che ogni cittadino italiano potrà attendersi dal taglio dei parlamentari che sarà oggetto di referendum confermativo il 20 e 21 settembre prossimi.

Iniziata una dozzina di anni fa come puritana ribellione verso un ceto politico ingordo di privilegi, la lotta alla casta giunge così al suo infimo epilogo. In origine la crociata poteva rivendicare risparmi un po’ più consistenti, come ad esempio la stretta di 700 milioni sulle famigerate auto blu. Oggi deve accontentarsi di un più magro bottino: dall’annunciato taglio dei parlamentari verranno meno di 60 milioni. Ma a ben guardare, nemmeno ai suoi esordi la guerra alla casta ha avuto la benché minima rilevanza macroeconomica. I tagli più rilevanti ai privilegi del ceto politico, effettuati sotto l’austerico governo Monti, non hanno mai raggiunto il millesimo della spesa pubblica nazionale. Una roboante propaganda su risibili voci di contabilità, insomma.

Si potrebbe obiettare che per soddisfare la brama popolare di vendetta contro un ceto politico reputato inetto e distante, la rilevanza macroeconomica dei tagli sia in fondo secondaria. Ma allora, perché questa risibile insistenza sul risparmio per le casse pubbliche? Il motivo è presto detto.

La verità è che le strette sulle poltrone, sui viaggi e sulle buvettes dell’odiata casta politica sono state un alibi ingegnoso per far passare ben altri tagli ai fondi pubblici, che hanno provocato danni incalcolabili alle infrastrutture, alla ricerca, all’istruzione e anche alla sanità pubblica, come ormai purtroppo sappiamo. Sapere dei tagli al ristorante di Montecitorio ha reso più tollerabile il clima generale di austerity, ridurre l’odiato parlamentare alla questua ha reso più accettabile la dura quaresima per tutti.

Le rivalse anti-casta vanno quindi valutate per quel che sono: un oppio del popolo per intorpidire le menti e giustificare il più reazionario ordine di politica economica che si sia imposto nella storia repubblicana. Oggi è il turno dei pentastellati, peraltro appoggiati da quasi tutto l’arco parlamentare. Ma dai democratici alle destre forcaiole, appoggiate dalla grande stampa tutte le forze di governo hanno abusato in questi anni del venefico oppiaceo. E gli effetti sono sotto i nostri occhi. I politici si ritroveranno pure con meno scranni e meno rimborsi, ma è solo un diversivo: quel che conta è che la politica generale di austerity ha allargato la forbice macroeconomica tra ricchi e poveri, in particolare tra percettori di profitti e rendite da un lato e lavoratori salariati dall’altro. Alla fine, la vendetta sociale ha operato in direzione esattamente contraria a quel che si crede.

Eppure a quanto pare non ci siamo ancora svegliati dal torpore. La drogante propaganda anti-casta continua a circolare e c’è il rischio che faccia i suoi danni anche al prossimo appuntamento referendario. Con un risvolto particolarmente ridicolo, questa volta. Andremo infatti a votare nel mezzo di una colossale crisi economica, che sta determinando la più rapida caduta della produzione e del reddito che si sia registrata nella storia del capitalismo. Per arginare la catastrofe i governi hanno dovuto per forza dare sfogo alla spesa pubblica e al deficit di bilancio. Nella sola Italia il disavanzo statale aumenterà di un centinaio di miliardi rispetto all’anno scorso. E non si immagini che le cose torneranno rapidamente al loro posto. Persino l’ex presidente della BCE ha ammesso che con l’esplosione dei debiti pubblici dovremo convivere e che per lungo tempo toccherà alle banche centrali governare i mercati per garantire la sostenibilità dei bilanci. In questo gigantesco rivolgimento della politica economica, la scena dei tagliatori di scranni parlamentari che si rallegrano per un risparmio di un euro scarso all’anno per ogni cittadino risulta semplicemente patetica.

Per giunta, se la riforma costituzionale sarà approvata, ci ritroveremo con un solo parlamentare ogni 151 mila cittadini, il più basso livello di rappresentanza politica in rapporto alla popolazione nell’Unione europea. Sappiamo bene che la crisi della rappresentanza si può risolvere solo con una espansione e un radicamento capillare della democrazia: un tempo si parlava di democrazia progressiva, di conquista delle casematte dello Stato. Invece a settembre ci toccherà votare sull’ennesima ipotesi di restringimento del perimetro democratico. Se al referendum vincerà il sì brinderanno solo le oligarchie finanziarie: meno deputati ci saranno, meno costerà fare lobbying.

Sostenuta dai potentati mediatici e finanziari, la propaganda anti-casta di questi anni è stata dunque solo una delle forme fenomeniche della reazione anti-statuale. In essa non c’è nessuna rivoluzione giacobina, nessun furore rosso. Se non si ferma questa bieca vandea liberista, al prossimo giro qualcuno magari proporrà di trasformare l’aula sorda e grigia in un bivacco di manipoli. E ci mostrerà fiero gli spicci risparmiati, mentre distrugge quel che resta dello stato sociale.

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