Geopolitica del grano. Putin e il sud globale

Geopolitica del grano. Putin e il sud globale

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Un vertice tira l’altro, sempre all’ombra del conflitto in Ucraina e nell’intento di ridefinire i rapporti di forza internazionali, dentro o fuori dall’orbita Usa. Il 26 luglio, si è concluso a Roma, nella sede della FAO, il Secondo Vertice delle Nazioni Unite sui Sistemi Alimentari Sostenibili. Il 28, ha chiuso i battenti a Pietroburgo il secondo summit Russia-Africa. Entrambi hanno avuto in comune, ma con approcci geopolitici ovviamente diversi, le ripercussioni globali per la mancata proroga, da parte della Russia, dell’accordo che aveva consentito di riprendere le esportazioni di cereali dall’Ucraina.

L’accordo sul grano tra Mosca, Kiev, l’Onu e la Turchia aveva contribuito a calmierare i prezzi. Tuttavia, secondo un rapporto di Oxfam, organizzazione internazionale per la lotta alla povertà, che ha ripreso i dati del Joint Coordination Centre delle Nazioni Unite, “fino a oggi l’80% dell’export passato attraverso il Mar Nero se lo sono accaparrato i Paesi più ricchi, mentre agli Stati più poveri e a un passo dalla carestia come Somalia e sud Sudan è andato appena il 3%”.

I paesi occidentali accusano invece la Russia di essere la principale responsabile dell’aumento della fame nel mondo. Al vertice di Roma, la premier italiana, Giorgia Meloni (di estrema destra), ha addirittura parlato di “offesa all’umanità”. Accuse pretestuose, che mirano a compattare un fronte comune contro la Russia: per nascondere le responsabilità di un modello economico iniquo e devastante, mosso da intenti neocoloniali, messo in atto dalle politiche predatorie nordamericane e europee, mediante le organizzazioni finanziarie neoliberiste come l’FMI, e attraverso il cappio del debito. La mancata estensione dell’accordo sul grano – fa capire Oxfam -, se provoca un inasprimento dell’inflazione alimentare nei Paesi “ricchi”, non è certo la principale causa dell’aggravamento della fame nel mondo.

Il rapporto mette infatti in evidenza che “l’accordo che un anno fa aveva portato allo sblocco dell’export di grano dall’Ucraina al Mar Nero verso il resto del mondo si è rivelato del tutto inadeguato a fronteggiare l’aumento della fame globale, acutizzato dalla crescita esponenziale dei prezzi di cibo ed energia”. Quell’accordo, “che ha consentito di riprendere le esportazioni di cereali dall’Ucraina, ha certamente contribuito a contenere l’impennata dei prezzi alimentari (aumentati comunque del 14% a livello globale nel 2022), ma non ha rappresentato la soluzione alla fame globale che oggi colpisce almeno 122 milioni di persone in più rispetto al 2019”.

Centinaia di milioni di persone soffrivano la fame prima del conflitto in Ucraina e centinaia di milioni continuano a soffrire la fame oggi: 783 milioni in totale l’anno scorso, secondo i recentissimi dati FAO. Paesi come il Sud Sudan e la Somalia, a cui è andato appena lo 0,2% del grano ucraino dall’entrata in vigore dell’accordo, sono a un passo dalla carestia. Eppure, un terzo di tutto il cibo prodotto viene perso o sprecato.

In Africa, in primo luogo nel Sahel, una persona su cinque è afflitta dalla fame, ossia più del doppio della media globale. La carenza di cibo, dovuta anche alla distruzione dei territori provocata dal riscaldamento climatico (prodotto soprattutto dai paesi ricchi), è la principale causa della fuga dei migranti, che vengono a morire nel Mediterraneo. Metodi insostenibili di produzione, confezionamento e consumo di cibo stanno anche esacerbando la crisi climatica contribuendo a un terzo di tutte le emissioni di gas serra, utilizzando il 70% dell'acqua dolce del mondo e causando un'ampia perdita di biodiversità.

I sistemi agroalimentari – ha detto il Direttore Generale della FAO, QU Dongyu al vertice di Roma - devono essere trasformati in modo che possano soddisfare la crescente domanda di cibo riducendo la pressione sulle risorse naturali; ridurre le emissioni di gas serra e salvaguardare la biodiversità; aumentare la resilienza alla crisi climatica, ai conflitti e ad altre interruzioni delle catene di approvvigionamento; garantire un lavoro dignitoso; e garantire l'accesso a cibi sicuri e nutrienti e a diete sane per tutti.

Nelle intenzioni, il vertice doveva condividere e valutare i progressi compiuti dai singoli paesi da due anni a questa parte, e i contributi apportati all’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. L’ambizione dell’Agenda è quella di eliminare la povertà entro il 2030 e promuovere la prosperità economica, lo sviluppo sociale e la protezione dell’ambiente su scala globale, con la promessa che “nessuno verrà escluso”.

Un programma basato sulle cinque “P” - Persone, Pianeta, Prosperità, Pace e Partnership –, che ne rappresentano i principi.  I 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile mirano ad affrontare gli “ostacoli sistemici allo sviluppo”, come le disuguaglianze, i sistemi di produzione e consumo non sostenibili, le infrastrutture inadeguate, la mancanza di lavoro dignitoso, i cambiamenti climatici e la perdita degli ecosistemi e della biodiversità: le conseguenze del modello capitalista, insomma. Peccato che a discuterne siano i principali responsabili delle politiche asimmetriche imposte ai paesi del sud e alle classi popolari dei paesi capitalisti.

Quale credibilità può avere, infatti, Meloni, quando recita che “nessuno sarà lasciato indietro”? Il suo governo neoliberista difende sfacciatamente gli interessi dei ricchi e degli evasori a scapito dei settori popolari, a cui ha tagliato persino il reddito di cittadinanza. In un paese nel quale aumentano i lavoratori poveri, e oltre un milione di famiglie non riesce a pagare il mutuo del proprio appartamento, il suo governo si oppone all’istituzione di un salario minimo, quando i salari in Italia sono i più bassi d’Europa. In compenso, aumentano le spese militari, nell’intreccio di interessi sempre più stretto fra i decisori politici e le industrie belliche, a cui si va subordinando l’economia italiana.

L’affannoso protagonismo di Meloni, mira a “sdoganarsi” a livello internazionale, e ad avere un ruolo di primo piano nel Mediterraneo per un’Italia che è sempre più una portaerei degli Usa. Per questo, la premier è volata a Washington ad ascoltare i desiderata di Biden circa la rottura degli accordi sulla Via della Seta, risibili sul piano economico e comunque mai sottoscritti. L’Italia ospita numerose Agenzie onusiane. Il Polo Agroalimentare di Roma è il terzo più importante snodo delle Nazioni Unite nel mondo dopo New York e Ginevra. L’Italia è il settimo contributore al bilancio dell’ONU ed è il paese occidentale che fornisce il maggior numero di Caschi Blu.

I soldi per i lavoratori, però, non ci sono. Secondo l’ultimo rapporto OCSE, i salari reali medi (cioè al netto dell’inflazione) sono diminuiti in tutto il mondo capitalistico sviluppato negli ultimi tre anni – di fatto il calo più ampio e più lungo da almeno 50 anni. Inoltre, il principale fattore che ha contribuito all’aumento dei prezzi di beni e servizi in questo periodo è stato l’aumento dei profitti per unità di prodotto, non l’aumento dei salari, soprattutto nell’Eurozona.

Anche l’idea di “cooperazione e partenariato” che il governo Meloni ha proposto, partecipando al vertice con i capi di Stato sulla gestione dei flussi migratori (altro vertice che si è concluso a Roma), è stato all’insegna dei respingimenti e della rapina di risorse ai paesi africani limitrofi. La stessa logica neo-coloniale che l’Unione europea cerca di imporre all’America Latina con la firma del trattato Ue-Mercosur, non a caso contestato apertamente da 4 piattaforme: Stop Mercosur, il Fronte Brasiliano contro l’Accordo, la coalizione francese “Solidarité Brésil” e la Rete brasiliana per l’integrazione dei popoli (RBRIP). 

Per quanto riguarda l’impatto sull’Europa – scrivono gli attivisti -, un tale trattato comporterà un aumento delle quote di importazione della carne con dazi doganali ridotti, il che implicherà “che gli agricoltori europei dovranno affrontare una maggiore concorrenza, che abbasserà i prezzi e, quindi, intensificherà il sistema agricolo europeo più concentrato”. E, sottolineano, anche nel Vecchio Continente i principali beneficiari saranno le multinazionali europee che cercheranno di aggiudicarsi nuovi appalti pubblici e/o esportare pesticidi oggi vietati in Europa e auto con tecnologia e tipologia di combustione già superate.

Le quattro piattaforme sostengono inoltre che se questo trattato sarà firmato, le asimmetrie economiche tra l’Ue e i Paesi del Mercosur si approfondiranno, secondo un modello neocoloniale di accaparramento delle risorse a scapito della diversità, autonomia e resilienza delle economie locali e regionali, e dell’integrazione tra i popoli. E denunciano: “Laddove le regole commerciali dovrebbero essere riviste e limitate in nome degli imperativi del XXI secolo, questo progetto di accordo promuove rigorosamente la logica opposta: le politiche climatiche, ad esempio, sono accettate a condizione che non contravvengano alle regole tese a aumentare il commercio internazionale di beni e servizi”.

Il conflitto in Ucraina – ha detto al vertice Ue-America Latina il presidente brasiliano Lula da Silva – “ha aumentato le disuguaglianze e le spese militari, invece di eliminare la povertà e la fame. Si sono spesi più di due miliardi per finanziare una macchina di guerra che porta solo morte, distruzione e ancora più fame”.

L’ex presidenta Brasiliana, Dilma Rousseff, che oggi dirige la Banca di sviluppo dei Brics, era presente al Vertice Russia-Africa insieme ad altri rappresentanti di istituzioni multilaterali: Unione Africana (Ua), Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), Unione del Maghreb arabo presso l’Ua, oltre a tutti i rappresentanti delle principali organizzazioni economiche e regionali africane. Putin non andrà a Johannesburg, in Sudafrica, a fine agosto per il vertice dei Brics. A San Pietroburgo, il presidente russo ha però rafforzato i rapporti, economici e geopolitici, con i paesi africani nel corso di un fittissimo programma di dibattiti, tavole rotonde e mostre. Un dibattito che ha spaziato dalla sovranità alimentare africana, a quella delle risorse, alla sicurezza internazionale, alla formazione, all’informazione, e al rafforzamento del ruolo politico delle donne. In uno dei panel principali si è discusso di “Nuovo ordine mondiale: dall’eredità del colonialismo alla sovranità”.

Sulla questione del grano ucraino, Mosca è tornata a spiegare le cause della mancata proroga dell’accordo, omesse dalla propaganda occidentale, quando proprio i paesi dell’area Nato e la loro politica di “sanzioni” hanno portato alla decisione russa. L’accordo, concluso nel 2022 a Istanbul, era composto da due parti: la prima riguardava l’esportazione di grano ucraino attraverso il Mar Nero; la seconda – firmata dalle Nazioni Unite e dalla Russia – conteneva alcune condizioni poste da Mosca. Tra queste, la rimozione delle restrizioni alle esportazioni di prodotti agricoli e fertilizzanti russi; il ricollegamento della banca agricola russa – che gestisce i pagamenti per le esportazioni agricole – al sistema di pagamento SWIFT; il via libera all’esportazione di ammoniaca russa attraverso il gasdotto Togliatti-Odessa verso Russia, Ucraina e Turchia; la revoca delle restrizioni sulla fornitura di macchine agricole e pezzi di ricambio al Paese; il permesso alle navi russe di entrare nei porti stranieri, nonché lo sblocco della logistica dei trasporti e l’assicurazione sui trasporti e sui beni.

Alla fine di giugno 2023, però, durante le consultazioni, le Nazioni Unite hanno ammesso di non essere in grado di soddisfare le richieste russe. Il 13 luglio, 4 giorni prima della scadenza del contratto, il capo del Cremlino aveva così annunciato il ritiro della Russia dall’accordo, in caso di mancato rispetto delle clausole sottoscritte, e l’immediato rinnovo dell’intesa qualora alcune delle promesse fossero state mantenute. Inoltre – ha denunciato Putin - l’Ucraina stava usando il corridoio commerciale per ottenere armi.

Nella prima metà del 2023, le forniture di grano della Russia all’Africa sono triplicate, arrivando a 9 milioni di tonnellate, con un fatturato cresciuto del 60% (4,5 miliardi di dollari). La fornitura dei grani ucraini, nel continente africano, è invece limitata. Tuttavia, Putin ha riconosciuto l’impatto sui prezzi causato dal mancato rinnovo dell’accordo e si è detto disponibile a compiere ogni sforzo necessario per prevenire una crisi alimentare, fornendo fra 25 e 50.000 tonnellate di grano ai paesi più bisognosi nei prossimi 3-4 mesi.

Putin ha detto che la Russia ha condonato circa 23.000 milioni di dollari (circa 20.000 milioni di euro) di debito ai paesi africani, e ha annunciato l’intenzione di contribuire a ridurre il “peso” economico del continente africano con altri 80 milioni di euro in più. Ha inoltre espresso la propria disponibilità ad accogliere qualunque piano di pace che provenga dai paesi africani per risolvere il conflitto in Ucraina.

“I paesi africani – ha detto Putin– lottano per una vera indipendenza e libertà, e sono molto simili all’Unione sovietica e alla Russia nella loro lotta contro il nazismo”. Un’affermazione significativa ora che, dopo il colpo di stato militare del generale Tchiani, in Niger, un altro paese africano sembra volersi svincolare dalla tutela occidentale, rappresentata in primo luogo da Stati Uniti e Francia.

(Articolo scritto per la rivista Cuatro F)

Geraldina Colotti

Geraldina Colotti

Giornalista e scrittrice, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali. È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.

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