Milei, Zelensky, Von der Leyen fino a Trump: alla Meloni non resta che urlare
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di Alessandro Volpi*
Urlare. L'imperativo categorico di Giorgia Meloni è alzare costantemente i decibel della sua voce. Urlando, la presidente ricostruisce una storia italiana che sembra scritta per un libro di testo decisamente nostalgico, improntato a Gioacchino Volpe, Giovanni Gentile, Salvator Gotta e Vittorio Emanuele Bravetta; urlando la presidente mette la politica estera italiana tra Trump, Milei, Zelensky, Von der Leyen e i paesi baltici senza alcuna coerenza che non sia appunto la ferocia del grido; urlando, la presidente celebra il paradosso di un paese dove aumenta il numero degli occupati per effetto della permanenza, obbligata, al lavoro di ultracinquantenni non in grado di ricevere una pensione decente.
Urlando, ancora, la presidente dimentica un Pil fermo allo 0,5%, mentre le banche fanno 100 miliardi di utili in due anni, senza ricevere alcun aggravio di tassazione. Sempre urlando, rivendica una spesa pubblica sanitaria che copre a mala pena gli stanziamenti dall'inflazione e che regredisce sensibilmente rispetto al Pil, perseverando nel giochino dei numeri assoluti.
Urlando, ignora una Legge di Bilancio che non contiene alcuna misura strutturale se non la corsa verso una flat tax a tutto vantaggio dei redditi e delle rendite più consistenti. Urlando, infine, mette in riga i suoi fragili "alleati" e aggredisce gli avversari, accusati nella sostanza di essere inutili perditempo, a cominciare dal sindacato.
Atreju è diventato un rito, dove la sacerdotessa estende le sue corde vocali per coprire in un'unica narrazione l'idea belluina di una terra promessa che quanto più si allontana tanto più deve essere evocata, appunto, urlando.
Atreju è diventato un rito, dove la sacerdotessa estende le sue corde vocali per coprire in un'unica narrazione l'idea belluina di una terra promessa che quanto più si allontana tanto più deve essere evocata, appunto, urlando.
*Post Facebook del 15 dicembre 2024