Trump sfida la Cina. Auguri

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Premessa necessaria. Prevedere cosa farà Donald Trump una volta alla Casa Bianca, per il momento, è qualcosa di altamente complicato e, forse, compito più per i cartomanti che non per chi prova a cercare di capire qualcosa di geopolitica.

Donald Trump, 45° presidente degli Stati Uniti d’America (mi devo ancora abituare a scriverlo), ha più volte individuato in campagna elettorale nella “Cina” uno dei maggiori pericoli per gli
USA. Se è vero che l’argomento “Cina” viene tirato fuori puntualmente in ogni campagna elettorale (si sa, durante le elezioni negli USA conta più lo show e meno la sostanza), è altrettanto vero che per Donald Trump Pechino rappresenta una vera e propria ossessione [1].

Ma se su certe cose Trump (forse) non incontrerà troppe difficoltà, ad esempio la messa in soffitta del TPP (Trans-Pacific Partnership), azione questa che permetterebbe alla Cina di sviluppare ulteriormente le sue capacità di commercio con i paesi che si affacciano sulle coste del Pacifico, su altre la strada è in salita. È molto in salita e, probabilmente, lo è ben oltre le capacità di scalata in possesso di Donald Trump e degli Stati Uniti.

Due sono le questioni dove il 45° presidente degli Stati Uniti ha promesso lo scontro frontale con Pechino:

  • accusare la Cina quale paese manipolatore di valuta;
  • imporre dazi del 45% sui prodotti fabbricati in Cina.


La prima accusa si fermerà poco oltre la linea di partenza, soprattutto per il fatto che la Cina non è possibile condannarla quale Stato manipolatore di valuta. Le motivazioni sono molto semplici. Uno Stato per essere accusato dagli USA deve aver i seguenti requisiti [2]:

  • 1) un significativo surplus commerciale bilaterale con gli Stati Uniti;
  • 2) un effettivo surplus delle partite correnti (> 3% del PIL);
  • 3) persistente intervento unilaterale nel mercato valutario.


Sfortuna vuole (per Trump) che la Cina è “accusabile” solo nel primo requisito. Per gli altri due no. Per il terzo requisito, anzi, la Cina si sta muovendo proprio in senso inverso.
Attacco numero due: imporre dazi al 45% (attualmente sono al 4,2% [3]) ai prodotti fabbricati in Cina. Va però sottolineato che, al momento, la maggioranza dei repubblicani è ancora favorevole al libero commercio e, quindi, tale proposta difficilmente troverà applicazione.

Va considerata poi la legislazione statunitense. Attualmente “la legge, fino a quando il Congresso tutto repubblicano non la cambierà, gli permette di brandire al massimo il 15%: e per non più di 150 giorni [4]”.

Senza considerare le contromosse cinesi (dazi sui prodotti USA?), è sufficiente sapere che “il 60% delle importazioni di prodotti cinesi negli Stati Uniti sono fatte da imprese statunitensi [5]” e, come giustamente ricorda il Corriere della Sera, “il 35% delle esportazioni del Dragone sono “rimbalzi” da Giappone, Corea del Sud e Taiwan, cioè prodotti che la Cina assembla e poi riesporta. È pronto mister Trump a colpire anche i suoi alleati? [6]” .
Inoltre, l’imposizione di dazi su prodotti stranieri porterebbe l’intera Asia a guardare verso altri mercati(Cina?). Il colpire la Cina con i dazi vorrebbe dire portare il Giappone in recessione e condannare buona parte dei paesi del Sud-Est asiatico a:

  • diminuire il proprio export nel breve periodo;
  • rivolgere il proprio sguardo verso altri mercati rispetto a quello statunitense.


Sembra che Trump abbia armi spuntate.
In pratica, l’imposizione di dazi sui prodotti fabbricati in Cina, sarebbe un po’ come mettersi alla guida di una 500 e dirigersi a tutta velocità contro un treno (cinese?) in corsa. Probabilmente il treno si striscia, ma della 500 rimarrebbe forse la polvere.

Però intanto Donald Trump può cestinare il TPP. Sarebbe cosa buona e giusta. In fondo è sempre bene iniziare un passo alla volta…


Davide Busetto

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