"Venezuela e guerra in Siria sono fondamentali per individuare i pacifinti". Intervista a Massimo Zucchetti

"Venezuela e guerra in Siria sono fondamentali per individuare i pacifinti". Intervista a Massimo Zucchetti

Venezuela, Siria

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di Geraldina Colotti
 

Massimo Zucchetti è un ingegnere nucleare italiano che ha al suo attivo una impressionante quantità di pubblicazioni specialistiche, ma anche militanti. Infatti, quando firma i suoi articoli che coniugano la precisione dei dati con una visione radicale e controcorrente rispetto alla subalternità culturale che di solito abita il mondo accademico italiano, si definisce “scienziato, comunista, disordinatore delle narrazioni tossiche del potere”.


 

Che significa, Massimo, questa definizione? Qual è stato il tuo percorso professionale e come si è intrecciato con l’impegno politico?
 

Mi sono laureato in ingegneria nucleare magna cum laude nel 1986, ma, un mese dopo: ecco il disastro di Chernobyl! Un decennio prima, al liceo, divenni anarchico leggendo “In his own write” di John Lennon: niente Bakunin o Kropotkin, niente laurea in scienze politiche su Marcuse, purtroppo non tutti hanno nobili origini come i Grandi Padri Fondatori della Sinistra Intellettuale. L’abitudine alle discipline tecniche mi ha lasciato il colpo d’occhio e l’intuizione per capire quando dietro una bella narrazione si nasconda il nulla montato a neve, come d’uso nella sinistra, oppure si celino depositi ideali di liquami tossici e fecali, come di norma nel centro-destra-sinistra di governo. Questa specie di talento è un dono di natura e, sebbene io sia ateo, ritengo sarebbe un peccato non metterlo a frutto, un po’ come nella parabola dei talenti, appunto. Da qui discende il mio impegno come anarco-comunista, scienziato contro la guerra, ambientalista. Sono un professore universitario da ormai un trentennio, ma non sono democristiano.


 

Tu insegni anche in una prestigiosa università statunitense. Come valuti le due esperienze, come funziona negli USA?
 

Ho insegnato a UCLA, ora mantengo una posizione di ricerca al MIT. In venti anni di lavoro part-time in USA, non ho mai avuto il minimo fastidio, nemmeno la minima menzione direi, riguardo il mio impegno politico e di lotta. Che non è stato solo in Italia: ho partecipato ad esempio a Occupy LA nel 2012. Correttezza: al MIT, ad esempio, onorano Chomsky come una gemma preziosa, anche se probabilmente il 99% dei colleghi al MIT non condivide le sue idee. Qui in Italia, invece, fastidiucoli a iosa: stalker, pseudo-giornalisti, valvassori e feudatari d’Università si sono costantemente adoperati - massime in forma anonima - per danneggiare la mia “carriera accademica”. Peccato che il loro concetto di carriera accademica, tipicamente italiano, sia (con le dovute eccezioni) andare in cattedra con un concorso monocandidato, poi ambire a cariche elettive interne, indossando cimieri sempre più fallopiumati: cosa che a me non è mai interessata. Ho vinto un vero concorso da professore ordinario (intendo, c’era un numero di posti assai inferiore al numero di concorrenti bravi) molto presto, e conservando la lingua monda da residui fecali di baroni. Da sempre ho fatto ricerca un po’ ovunque all’estero, fino ad arrivare nel 2015 alla shortlist “final 5” del Nobel per la Fisica per alcune ricerche sulla fusione nucleare controllata “pulita”. Il management della ricerca in Italia, nonostante l’abbondanza di ricercatori di grande valore, risente ancora della piaga della mediocrazia. Se non proprio dell’onagrocrazia come in politica; ma si trovano spesso investite di responsabilità importanti persone decisamente mediocri.


 

In Italia, il divario digitale impedisce ulteriormente il diritto all’istruzione dei figli delle famiglie povere in tempo di pandemia. Come funziona negli Stati Uniti?
 

Continuo dalla risposta precedente. Nonostante tutto, non ho mai pensato di trasferirmi negli Stati Uniti: non avrei mai voluto che i miei figli crescessero e si educassero con il loro sistema. Anche se sarebbero stati figli di ricchi, e quindi assai favoriti rispetto agli altri, con un divario assai più pronunciato che in Italia in loro favore. Comunque, vivevamo a Boston con mio figlio Stefano molto piccolo, ed era chiaro che occorreva iscriverlo ad una costosa ed eccellente scuola materna, per poter poi ambire ad iscriverlo a costose ed eccellenti scuole primarie, secondarie, eccetera. Significava rovinare la spensieratezza dell’infanzia a un povero bambino ignaro, buttandolo in competizione già a tre-quattro anni di età.  

A Los Angeles, invece, sono entrato in contatto, durante Occupy LA, con le scuole inferiori e superiori dei quartieri poveri, e mi si stringeva il cuore di rabbia nel vedere l’ingiustizia di ragazzi con grandi potenzialità e insegnanti magnifici, travolti dal degrado, dalla marginalità, da un’atmosfera di sconfitta ineluttabile. Questa è la vera “violenza” nelle scuole statunitensi: il resto, comprese le sparatorie e le stragi, ne è solo una conseguenza.
 

Come analizzi quel che sta succedendo negli Stati Uniti in questo momento dopo l’omicidio di George Floyd?

Sappiamo che la storia si muove a strattoni e nei momenti più inattesi. La fine atroce di George Floyd ha dato un bello strattone, e in un momento adatto. Per certi aspetti, io amo il popolo statunitense, in alcune minoranze: sono pieni di peculiari e assurde convinzioni, sono patriottici, ascientifici come cinquestelle, non riescono a concepire qualcosa di diverso dal sistema capitalista che distrugge la vita loro e dei loro figli. Ma poi, eccoli riempire le strade e le piazze per i diritti civili. Con grande coraggio e perseveranza. Come si fa a non aver voglia di sfilare con loro, di applaudirli? Non è un movimento anticapitalista come “Occupy” nel 2012, ma forse proprio per questo ha più possibilità di essere inclusivo, di riportare tanti giovani e meno giovani ad uscire dalle loro stanzette ed aggregarsi. E poi, si vede in atto un piacevole effetto domino: non proprio il crollo del castello di carte che sempre speriamo, ma insomma, senti che bel rumore.
 

Lasceranno un segno queste proteste nella crisi post-pandemia o il pantano si richiuderà una volta ancora?

Al di là dei miglioramenti “basilari” e tecnici (violenza poliziesca perlomeno attenuata, più attenzione alla perdurante discriminazione razziale), credo sia più importante aver dimostrato, nonostante lustri di narrazioni rassicuranti dei media e della classe politica, e proprio dopo tre mesi di clausura, che la tensione sociale è altissima e in un attimo può scoppiare una ribellione. Che non è una rivoluzione, ma - in questo mare di niente - direi che ci dobbiamo accontentare. Trump assediato alla Casa Bianca: non era mai successo a nessuno dei suoi predecessori.
 

Come valuti le manifestazioni di solidarietà che si sono svolte anche in Italia?

Posso tacere sui parlamentari in ginocchio, dopo aver approvato i decreti Sicurezza e continuando a mantenere in vigore le “leggi eccezionali” di Kossiga dopo oltre 40 anni? Tuttavia è pur sempre una cosa positiva che in Italia se ne parli, purché non sia vista come una piaga “degli altri”: l’Italia è il primo importatore mondiale di ragazzine minorenni dal terzo mondo per farne prostitute, e gli italiani sono i maggiori responsabili di turismo sessuale con ultraminorenni nel sud-est asiatico. L’Italia, per ammissione ormai anche dei suoi ministri, basa la sua industria agricola ed edilizia sullo sfruttamento in condizioni inumane di immigrati. Ecco, direi che su questi tre aspetti, soltanto per farmi venire in mente i primi, possono scandalizzarsi e manifestare gli italiani, utilizzando Black Lives Matter come punto di partenza, per vincere l’inerzia e l’attrito al distacco, diciamo. Se quindi il progetto rivoluzionario sottostante è questo, ben vengano le manifestazioni in Italia.

Non è invidiabile, dopo oltre quarant’anni di delusione, la mia fiducia buonista nel Movimento in Italia?


 

Uno dei tuoi libri, “Pianificare l’oppressione”, documenta dall’interno del contesto accademico italiano i profondi collegamenti esistenti tra le università e il complesso militare-industriale, nello specifico il ruolo di Israele. A che punto stanno le cose considerando che l’industria bellica - quella del controllo sociale, e dell’industria privata della sicurezza - si profila come uno dei motori principali della ripresa post-pandemia?
 

Di quella raccolta di articoli scrissi con gran piacere l’introduzione, mettendo in evidenza un tumore endemico nella ricerca e nell’Università in Italia: l’assoluta e generalizzata (salvo rare eccezioni) indifferenza verso qualsiasi aspetto etico e di integrità morale nella ricerca. Che dovrebbe ripudiare qualunque utilizzo bellico del sapere, e dovrebbe coltivare in se stessa e nei giovani che educa la consapevolezza, il dubbio, l’impegno morale. Tutte materie che latitano, mentre abbondano il tecnicismo con il paraocchi nelle scienze dure e le “turris eburnee” nelle scienze morali e sociali. Fatto sta che a praticare il pur blando “boicottaggio accademico” contro Israele eravamo, nel mio Ateneo, conteggiabili con le dita di una sola mano. Purtroppo, in tempi di penuria post-pandemica, si confermerà nella ricerca che “pecunia martialis non olet”.

 

Gli Stati Uniti non firmano o disattendono tutti i trattati internazionali, da quello sul disarmo nucleare, a quello sulle armi biologiche, a quelli sui diritti umani. E adesso Trump sta picconando tutte le (claudicanti) organizzazioni multilaterali nate nel secolo scorso: a partire dall’ONU, alle quali cerca di sostituire quelle artificiali che gli USA hanno inventato o che controllano pienamente come l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA). In che modo il Nordamerica potrebbe imporre una nuova egemonia dopo questa crisi?
 

Credo che l’atteggiamento barbaro di Trump risolverà parte del problema. Qualunque piripicchio democratico gli succederà, pur confermando la politica imperialista degli USA in molti campi, cercherà di differenziarsi per quanto riguarda i trattati e i consessi internazionali, ritornando ad una politica simile a quella di Obama, cioè di parziale ragionevolezza. Che stupisce così tanto, in un presidente USA, da assegnargli sulla fiducia un premio Nobel per la pace. In ogni caso, ti porto la mia personale esperienza: negli anni passati ho contribuito in piccola parte ai negoziati fra Iran, IAEA, UE e USA sul nucleare; dopo anni di difficoltà, quando l’amministrazione Obama scelse per i negoziati il DOE (Dipartimento dell’Energia) invece che il DOD (quello della Difesa), tutti capimmo che ce l’avremmo fatta, che togliere la parola ai militari e lasciarla agli esperti del settore avrebbe portato all’accordo. Che infatti venne stipulato, e fu un consolante esempio in controtendenza su come queste controversie possano anche finir bene. L’amministrazione Trump ha cancellato tutto questo, e anni di lavoro di centinaia di diplomatici, esperti e negoziatori, con un tratto di penna. Shame on them.


Un grottesco titolo dell’edizione spagnola del New Herald accusa Nicolas Maduro di essere l’istigatore delle proteste negli Usa. Una tesi che la stampa nordamericana e i network internazionali che la sostengono avevano già tirato fuori durante le proteste in Cile. È questa la nuova versione dell’anticomunismo negli Stati Uniti? E come si riflette negli ambienti intellettuali e scientifici che pure vedono con fastidio il primitivismo suprematista di Trump?
 

Il “pericolo rosso” è uno spauracchio che l’Occidente continua ad agitare da oramai un secolo. È così comodo, come in 1984 di Orwell, avere sempre un nemico esterno da indicare come responsabile dei disastri, insiti invece nel DNA della nostra società. E così il povero Maduro diventa un potentissimo sobillatore internazionale, ruolo che in passato era dei “terribili” cubani e degli agenti del KGB. Così come l’epidemia che mieterà in USA quasi 150.000 morti è causata da un “virus cinese”. La comunità scientifica ed intellettuale nordamericana vede le uscite di Trump generalmente con imbarazzo, ma non è che questo conti poi molto. Alle scorse elezioni, tutti gli artisti e intellettuali famosi appoggiavano Hillary, tranne Clint Eastwood: sappiamo come è finita. Ma in realtà, negli USA, il “communism” non fa più molta paura. Preoccupa invece il crescente “anti-Americanism” nel mondo, che viene attribuito appunto alla tracotanza di Trump. Che però, come sappiamo, è solo la goccia che può far traboccare un vaso che viene riempito a piene mani da molti decenni.


 

Cosa pensi di quel che accade in Venezuela nel contesto di un’aggressione crescente, anche militare, da parte degli USA e dei loro alleati e della posizione subalterna dell’Unione Europea?

Sai, la questione Venezuela è una delle mie migliori cartine di tornasole per capire il livello di decenza morale o di ipocrisia di un interlocutore o un collega. Ovvero: tutti - a parole - siamo per la Pace nel Mondo. Quasi tutti siamo per i diritti civili, antirazzisti, progressisti, contro le atrocità della guerra. Molti sono stati contro le guerre imperialiste nordamericane, in Vietnam o contro il povero Allende. Anche la questione Palestinese vede generale concordia nell’affermare i loro diritti, sebbene con incomprensibili sbandate sul “diritto all’esistenza di Israele” che non approfondiamo qui. Poi, però, vedi che alcuni già escono di carreggiata su Cuba; a un dibattito sentii proferire da un innominabile piddino il colmo: “Né con l’imperialismo USA, nè con il dittatore (sic) Fidel Castro!”. Non proseguo nel racconto di come reagii, fa già ridere così. Poi, ancora, abbiamo dovuto vedere intellettuali come Bobbio parlare di “guerra giusta” descrivendo l’aggressione alla Jugoslavia del 1999 da parte della NATO.

Non stupisce quindi che il marciume intellettuale e morale che ha proliferato nella “sinistra” in questi decenni, emerga facendo appoggiare ai sedicenti progressisti autoctoni un miserevole burattino eterodiretto come Guaidò. Contro il Venezuela bolivariano tutto è lecito: sanzioni economiche, ingerenze interne, autoproclamazioni, invasioni di mercenari. Credo che Maduro abbia dimostrato grande coraggio ad assumersi l’eredità pesantissima di un gigante come Chávez, in un momento in cui il “miracolo del petrolio” non poteva più funzionare. E a volte, dietro a quei baffi, si stupisca dell’accanimento contro il suo Paese - colpevole soltanto di continuare a eleggerlo - portato avanti in spregio alle più basilari regole di correttezza e rispetto fra nazioni sovrane. Ma, per me, il Venezuela - ripeto - è utilissimo: tutti i cacadubbi pseudodemocratici e pacifinti diventano facilmente individuabili, ancor più e ancor meglio che sulla guerra in Siria. Una volta individuati, nessun canto degli Intillimani o maglietta di Che Guevara potrà salvarli dal mio sberleffo: scritto, orale e anche sonoro.

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