Lavoro, (re)industrializzazione e uscita dall'euro: l'eredità di Lelio Basso

11 Gennaio 2023 08:00 Gilberto Trombetta

Insegnanti, medici, infermieri, ricercatori, ingegneri, operai, addetti ai servizi, tecnici informatici. In Italia mancano milioni di lavoratori. Di tutti i tipi. Qualificati e non. O meglio, non mancano i lavoratori. Abbiamo 16 milioni di persone tra disoccupati e inattivi.

Quindi manca il lavoro? Neanche.

L’Italia è un Paese sostanzialmente da ricostruire. A partire dalle infrastrutture fino all’industria di Stato. Mancano offerte di lavoro dignitose. Cioè stabili e con retribuzioni degne di questo nome.

In Italia abbiamo però le catene del vincolo esterno. In questo caso quelle rappresentate dai trattati europei (appartenenza all’Unione Europea e all’Eurozona). Come se ne esce?

L’Italia, nonostante tutto, è ancora la seconda potenza manifatturiera d’Europa, dopo la Germania.

In Italia abbiamo il risparmio privato più alto del mondo insieme al Giappone (circa 5.000 miliardi di euro di cui 1.500 di liquidità).

Abbiamo milioni di italiani in giro per il mondo (più di 3 milioni espatriati solo negli ultimi 20 anni). Prevalentemente giovani e laureati. Costretti a espatriare alla ricerca di un lavoro e di salari dignitosi. E che vanno a fare le fortune di Paesi stranieri con le loro capacità.

Per iniziare il necessario processo di reindustrializzazione e di piena occupazione non possiamo però contare sulla nostra Banca Centrale. È necessario quindi uscire dall’Unione Europea e dall’Eurozona. Come?

Per quanto riguarda l’uscita dalla UE, è prevista dai trattati. Nell’articolo 50 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea (TFUE).

E per quanto riguarda l’uscita dall’euro?

In realtà pur non essendo espressamente prevista dai trattati una clausola di uscita dalla moneta unica, esiste un strada prevista dai trattati che porterebbe sostanzialmente all’uscita dall’euro.
La sospensione (o segregazione) dal sistema Target 2 (che è quello che regola le transizioni bancarie tra i vari Paesi dell’Eurozona).

L’articolo 65 del TFUE¹ prevede che un Paese possa ricorrere al blocco della libera circolazione dei capitali. Sia in entrata che in uscita.

L'articolo 65 consente infatti «di prendere tutte le misure necessarie per impedire le violazioni della legislazione e delle regolamentazioni nazionali, in particolare nel settore fiscale e in quello della vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie, o di stabilire procedure per la dichiarazione dei movimenti di capitali a scopo di informazione amministrativa o statistica, o di adottare misure giustificate da motivi di ordine pubblico o di pubblica sicurezza».

Si tratterebbe di una segregazione (dal sistema Target 2) volontaria. In questo senso, l’articolo 65 è già stato utilizzato per Cipro e Grecia (ma in colpevole ritardo).
Potremmo, una volta tanto, usare i trattati europei a nostro vantaggio.

Utilizzare questa possibilità prevista dai trattati è il primo passo per il recupero della sovranità monetaria e fiscale. Con un nuovo patto sociale.

L’enorme risparmio privato degli italiani in un regime di blocco della libera circolazione dei capitali diventerebbe un’immensa risorsa per il finanziamento della spesa pubblica che gioverebbe in primis proprio ai cittadini.

I TdS tornerebbero a essere uno dei principali (il principale addirittura) bene rifugio per tutelare i propri risparmi. Come succede in Giappone, tanto per fare un esempio pertinente. Lo Stato di contro non sarebbe più nelle mani dei “mercati” e di una BCE che non è prestatrice di ultima istanza.
Ci sarebbero poi altri strumenti ovviamente utilizzabili nel periodo della segregazione (come il ricorso alla cessione dei crediti fiscali, cioè alla moneta fiscale).
l’Italia deve ricostruire quell’industria pubblica artefice del miracolo italiano che è stata svenduta per poter partecipare al progetto suicida dell’Unione Europea. Se non si ricostruisce prima l’industria pubblica, è ingenuo pensare di riuscire a fare rientrare le industrie private che hanno negli anni delocalizzato all’estero.

Vanno nazionalizzati i monopoli naturali o quelli a essi assimilabili (trasporti, autostrade, settore energetico, ecc.) e i settori strategici. Altri vanno creati ex novo, come i distretti portuali nel Sud Italia e le industrie per le tecnologia d’avanguardia (robotica, nanotecnologia, informatica quantistica, ecc).

Cosa ci aspetta alla fine del tunnel della segregazione? Nel contesto descritto una sola cosa: l’uscita dall’euro. Sarà una passeggiata? Ovviamente no.

Soprattutto perché a oggi ci mancano due componenti fondamentali. Una classe politica all’altezza del compito che ci aspetta. E un popolo consapevole e disposto a fare tutto il necessario per rompere il vincolo esterno. Cioè disposto a combattere per il proprio diritto all’autodeterminazione.
«Ogni popolo ha il diritto imprescrittibile e inalienabile all'autodeterminazione. Esso decide il proprio statuto politico in piena libertà e senza alcuna ingerenza esterna».
«Ogni popolo ha il diritto di liberarsi da qualsiasi dominazione coloniale o straniera diretta o indiretta».
«Ogni popolo ha diritto a che il proprio lavoro sia valutato giustamente e che gli scambi internazionali avvengano a condizioni paritarie ed eque».
«Ogni popolo ha il diritto di darsi il sistema economico e sociale da lui stesso scelto e di perseguire la propria via di sviluppo economico in piena libertà e senza ingerenze esterne».

Quello all’autodeterminazione di un popolo è un diritto fondamentale riconosciuto internazionalmente a partire dal 4 luglio 1976 con la nascita della Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, nota anche come Carta di Algeri², che vide la luce grazie a uno dei nostri padri costituenti, Lelio Basso.

È lui, ancora una volta, a indicarci la strada da seguire per liberarci dei vincoli esterni per riappropriarci del nostro diritto all’autodeterminazione. Per riappropriarci cioè della sovranità popolare.

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