Afrotopia. Come i miti occidentali di "sviluppo" incatenano l'Africa ancora oggi

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Afrotopia. Come i miti occidentali di "sviluppo" incatenano l'Africa ancora oggi

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Dopo il 1960, all’alba delle indipendenze, l’Africa si scopre incapace di produrre metafore proprie con cui pensare il futuro. Manca una tele-nomia autonoma e endogena, risultato di una riflessione sul proprio destino e sulle proprie possibilità future.

Perché le metafore sono importanti?

A chiederselo è Felwine Sarr, già professore alla Gaston Berger (Senegal), in Afrotopia, un bel libro pubblicato dalle Edizioni dell’Asino.

Perché le metafore sono importanti? Perché le società, dice Sarr, costruiscono prima i loro immaginari. Le società si proiettano nel futuro producendo un capitale intellettuale e simbolico.

Nel corpo dell’Africa le società post-coloniali non trovano nient'altro che un essere simile a loro, nel quale affondano e spariscono, come in un seno materno. Quando alzano la testa e provano a tagliare il cordone e a immaginare un destino indipendente, l’ordine simbolico nel quale trascrivono il loro futuro è ancora quello concesso in comodato dell’Occidente EuroAmericano, le cui metafore sono «sviluppo», «emergenza economica», «crescita», «lotta contro la povertà». Si tratta di concetti che rivelano il sogno che l’Occidente ha esportato nel mondo dopo il XV secolo, a favore di un vantaggio tecnologico, portato avanti a colpi di randello o di cannone - quando è stato necessario.

È stato soprattutto formando (bildung) gli immaginari collettivi esportando il proprio Ordine del Discorso che, dice Sarr, l’Occidente ha vinto una battaglia decisiva. È da qui che bisognerà allontanarsi per darsi  altre possibilità.

Innanzitutto, dice Sarr, bisogna decostruire la metafora «sviluppo». «Sviluppo» è uno dei mitemi più potenti con cui l’Occidente ha esteso il suo ordine discorsivo al mondo, universalizzando un’impresa che trova in Occidente la sua origine e il suo grado di realizzazione più concreto.

Sul piano etimologico, dice Sarr, «sviluppare» si oppone ad «avviluppare», avvolgere. Bisogna far crescere, srotolare, dispiegare. Si sviluppa ciò che è già lì, latente, in potenza. Lo sviluppo dovrebbe infatti rivelare il passaggio dalla potentia all’actus. L’avvenire del frutto è iscritto nel seme. Il seme è il frutto in potenza, e il frutto è il seme in atto. La vita è un un’esperienza e uno sviluppo da un stadio embrionale e primitivo ad uno stadio finale e conclusivo – completo. Tutto ciò che si incontra per strada è un mezzo di questa teleologia.

Questa visione evoluzionista della dinamica sociale, dice Sarr, ha avuto così tanto successo che è stata adottata anche nelle nazioni recentemente decolonizzate. Si è trattato di usare le società occidentali come riferimento per squalificare tutti i percorsi e tutte le altre forme di organizzazione sociale. Così, per una specie di teleologia retroattiva, tutte le società diverse dalle società euroamericane sono diventate sottosviluppate. La conversione della maggior parte delle nazioni alla passione dello sviluppo dell’Occidente è stata un’operazione riuscita di negazione della differenza.

Nel secolo XVII, dice Sarr, è nata in Occidente l’idea di un progresso infinito. Il suo corollario è che esiste una storia naturale dell’umanità. Lo sviluppo delle società corrisponde a un principio naturale e auto-dinamico che fonda la possibilità nell'escatologia cristiana.

Questa trasposizione del mito occidentale dello Sviluppo (o del Progresso), dice Sarr, ha avuto come conseguenza una rimozione della personalità di base dei gruppi sociali africani, delle reti di solidarietà esistenti, del loro sistema di significazione, ma soprattutto una chiusura delle popolazioni in un sistema di valori che non era il loro.

L’Ordine Simbolico non è un elemento accessorio di una comunità. All’origine di ogni comunità, dice Sarr, c’è la “scelta” di un codice simbolico comune che permette ai suoi membri di pensare, dire e fare l’esperienza del reale in modo assolutamente univoco.

L’antropologia, dice, ha mostrato che le società si basano su un discorso fondatore, un mito che plasma una certa concezione del mondo e della sua organizzazione, che mette in piedi una gerarchia di valori particolari spesso concettualizzati da un codice sociale e linguistico interiorizzato dai suoi membri.

Le società moderne, più specificamente le società industriali occidentali, non sfuggono a questa struttura. Esse, dice, devono legittimare la loro evoluzione e la loro appropriazione dell’avvenire grazie a una mitologia che riflette le proprie cosmologie e le proprie ideologie sociali. In questa prospettiva, il discorso economico funziona come un ecomito e garantisce il mantenimento dell’ordine sociale industriale. Esso alimenta le rappresentazioni dell’universo e della società. Legittima le istituzioni, assicura la crescita, plasma i modi di vita e di pensare che permettono la programmazione e l’agenda della realtà secondo il messaggio dato dal discorso.

«Benessere», «Progresso», «Crescita», «Eguaglianza», dice, sono i concetti della cosmologia occidentale che condizionano la lettura del reale che essa ha imposto agli altri popoli attraverso il mitema dello sviluppo.

Si ritrova in questo impianto di Sarr la traccia evidente dell’antropologia strutturale e della Psicoanalisi di Lacan. L’Africa può specchiarsi nel suo ombelico. Il mio simile è il mio altro. Un solo istante separa Narciso dall’eco, poi questa distanza si consuma, e il simile si perde nel simile. È la fase dello specchio, dalla quale un certo africanismo deve uscire. Una delle sfide di questa afro-contemporaneità, dice Sarr, sarà riuscire ad affermarsi come differenza feconda, senza cadere nell’estremo della chiusura comunitarista.

Bisogna abbandonare l’idea di un’origine piena, intatta, pura, unica, adamitica. Bisogna far poggiare la funzione sulla differenza (Lacan, La cosa). Non c’è da nessuna parte un’Africa da far tornare, da far primeggiare, da ristorare. L’Africa (se ce n’è) emerge in una struttura di rimandi. «Africa» è una metafora. Non c’è paradiso in terra, non c’è paese natio, lingua madre, condizione primitiva, eccetera. Il continente perduto (derubato, saccheggiato, etc.) è un effetto retroattivo di questa metafora. Il lascito del colonialismo, se c’è un lascito, è questo tropo, che non rimanda a un continente che un tempo era intatto, ma a un’altra figura.

Il continente integro è una «presenza» retrodatata. Non c’è Africa «alla lettera». Non c’è un’Africa attuale, o un’Africa virtuale in attesa di attualizzarsi. Non c’è nemmeno una storia pacifica dell’Africa, fissata per sempre. Nemmeno i morti sono al sicuro. Ciò che si realizza non è il passato, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire (Lacan).

La soluzione non verrà dalla nostalgia – dice Sarr. Ciò che è o è stato si incontra strada facendo.

Ogni presenza, l’africano «stesso», parla in quanto il simbolo lo ha fatto uomo (Lacan, Parola…).

Uscire dalla fase dello specchio significa guardare aldilà dell’Africa, ma l'aldilà dell’Africa è la modernità dell’Occidente. Di quell’Occidente che guarda all’Africa come al suo oggetto di desiderio.

Bisogna, dunque, far fuori il padre?

La difficoltà nell’abbattere il padre, dice Sarr, risiede nel fatto che si può farlo solo evocandolo. La presa di parola dell’Africa non si stacca dal luogo archeologico che l’ha vista nascere. Non solo perché il nome stesso del continente – la metafora delle metafore – è stato dato dai Romani (gli occidentali stessi! - se ce ne fossero), ma perché, più propriamente, è il concetto stesso di metafora che rimanda ad altro da sé. E tuttavia, la metafora è già essa stessa la messa a morte. Perciò, dice Sarr, in quanto metafora – la modernità in quanto metafora - può produrre attualizzazioni multiple.

Il sacrifico dell’Occidente (nei due sensi del genitivo), si realizza proprio attraverso una messa a morte simbolica. La produzione del simbolo rappresenta già la presa in carico della morte. Infatti sappiamo che la parola uccide la cosa e che questa morte è la condizione del simbolo.

Bisogna accelerare l’avvento di questa uccisione simbolica - dice Sarr. Bisogna affrettare la produzione di una struttura metaforica, la quale, mediante una tele-poiesi, strutturi un ordine del discorso (episteme) che faccia emergere un luogo sociale e culturale in cui l'Africa potrà, a partire da questo futuro possibile, edificare la sua storia – darsi un passato.

L’Afrotopia, dice Sarr, è un’utopia attiva che si dà come compito la produzione di un reale africano a partire da un futuro possibile. L’Afrotopos è quest’Africa simbolica.Attenzione, però, l’Afro non è il padre, né tanto meno la madre o il figlio di questo ordine simbolico (episteme), essendo il simbolico, per sua natura, inconscio. L’Afro è una catena significante di cui l’Africa e l’africano sono sintomi o effetti senza causa.

Leo Essen

Leo Essen

Ha studiato all’università di Bologna con Gianfranco Bonola e Manlio Iofrida. È autore di Come si ruba una tesi di laurea (K Inc, 1997) e Quattro racconti al dottor Cacciatutto (Emir, 2000). È tra i fondatori delle riviste Il Gigio e Da Panico. Scrive su Contropiano e L’Antidiplomatico.

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