"Come estetizzare il lutto, cancellare la Palestina". Il post divenuto virale in rete sui 'sudari per Gaza'

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"Come estetizzare il lutto, cancellare la Palestina". Il post divenuto virale in rete sui 'sudari per Gaza'

 

Continuano sui social le polemiche sull'appello di Tomaso Montanari e Paola Caridi di esporre il 24 maggio lenzuola e teli bianchi nelle piazze, strade e finestre per simboleggiare i sudari in cui vengono avvolti i cadaveri dei palestinesi uccisi da Israele.
 
"Un sudario per Gaza" si intitola l'iniziativa, che propone di manifestare con "50.000 sudari" la vicinanza al Popolo Palestinese. 

L'iniziativa ha avuto abbastanza riscontro in tutta Italia, non sufficientemente per fare notizia, ma abbastanza per aprire un confronto tra chi la considera autoassolutoria e ipocrita e chi invece vede in qualsiasi iniziativa un modo per esprimere la propria impotenza.
 
Sta diventando virale in tutti i social network e nelle chat un commento che era stato inizialmente ed erroneamente attribuito alla scrittrice Igiaba Scego.

È stato riportato da Federica D'Alessio, perché il commento è stato scritto sotto un suo post Istagram.
 
Entrambe si sono dissociate dal commento critico, ma, nel farlo in modo insistente, hanno involontariamente ottenuto l'effetto opposto.
 
Il commento, attribuito a Cristina Brembilla, è diventato virale e viene costantemente condiviso.
 
Lo riportiamo integralmente.

(Agata Iacono)

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"Come estetizzare il lutto, cancellare la Palestina
 
La campagna del 24 maggio che invita a esporre 50.000 sudari bianchi per commemorare le vittime palestinesi di Gaza si inserisce in una lunga tradizione occidentale di estetizzazione del lutto, in cui il dolore viene rappresentato in forma rituale, simbolica, astratta — ma mai politicamente situata.
 
Iniziative come queste, pur animate da buone intenzioni, tendono a rimuovere attivamente il contesto coloniale, l’aggressore e la causa strutturale della violenza. I sudari diventano “gesti di pietas”, le morti un “tempo crudele”, la strage una “tragedia dell’umanità”. Ma come sottolinea il poeta e attivista palestinese Mohammed El-Kurd, “The world treats Palestinian suffering like a poetic exercise. Our deaths are metaphors. Our corpses, aesthetic.”
 
Nel testo diffuso dal comitato promotore, non compare mai la parola Israele. Non si nomina l’occupazione militare, non si fa riferimento all’apartheid, né si pronuncia mai la parola genocidio se non come suggestione astratta. Di fatto, si chiede alla popolazione italiana di aderire a un lutto muto, senza nominare il carnefice.
 
El-Kurd ha criticato più volte questo processo di depoliticizzazione della morte palestinese:
 
 “They want us to die in a way that fits their narrative — quietly, tragically, but never defiantly. We are not symbols. We are people. We are being killed.”
 
In questa campagna, il sudario — oggetto funerario — è chiamato a sostituire ogni forma di denuncia. Il gesto individuale (esporre un lenzuolo bianco) viene proposto come risposta sufficiente a un massacro politico, trasformando l’attivismo in una performance collettiva di compassione. Ma come ammonisce ancora El-Kurd:
 
 “They mourn us as long as we stay dead and voiceless. But the moment we resist, speak, fight, we become dangerous.”
 
Non si chiede di nominare l’aggressore. Non si chiede di interrompere le complicità europee (accordi commerciali, forniture di armi, sostegno diplomatico). Non si chiede di schierarsi con la resistenza palestinese.
Si chiede solo di piangere. In silenzio. Esteticamente.
 
È l’esatto contrario di ciò che El-Kurd reclama nel suo lavoro: una memoria politicamente radicata, una narrazione che restituisca dignità alla resistenza, non alla sola vittima.
 
 “Solidarity is not about feeling bad for Palestinians. It’s about action, about dismantling the systems that kill us.”
 
In sintesi, campagne come questa rischiano di trasformare la solidarietà in un atto di espiazione pubblica per coscienze occidentali, anziché in un processo di alleanza politica.
Non ci serve il bianco dei sudari.
Ci serve il rosso della responsabilità.
Il nero della complicità.
E il verde della liberazione, che ancora non nominiamo.
 
Anche l’immagine scelta per promuovere l’iniziativa — un corpo invisibile dietro un lenzuolo bianco, con il logo “L’Ultimo Giorno di Gaza” in sovraimpressione — merita una riflessione. Formalmente potente, essa veicola un messaggio ambiguo: una figura senza volto, senza identità, senza storia.
 
È l’illustrazione perfetta del meccanismo descritto da El-Kurd:
 
 “They erase our voices and then mourn our absence.”
 
Il corpo palestinese è letteralmente nascosto sotto un sudario simbolico, avvolto nel silenzio, trasformato in icona astratta. Ma Gaza non è un’assenza: è una presenza vivente, politica, resistente. E quel corpo — palestinese, colonizzato, combattente — non ha bisogno di essere coperto, ma riconosciuto e difeso.
 
La scelta visiva di non mostrare un volto, una ferita, un nome, è coerente con l’intero impianto narrativo dell’iniziativa: neutralizzare la morte, universalizzare la tragedia, occultare la responsabilità.
 
El-Kurd ci ricorda che l’immaginario occidentale tende a preferire il palestinese morto, inerte, muto, piuttosto che il palestinese vivo, cosciente, e in lotta:
 
 “The only Palestinian they will accept is the one they’ve already buried.”
 
In questo senso, la campagna rischia di fare proprio ciò che il potere coloniale desidera: trasformare la resistenza in lutto, la politica in pietà, la denuncia in messa in scena.
 
Ciò che rende particolarmente grave questa nuova proposta del 24 maggio è che non nasce nel vuoto, ma ripete una strategia comunicativa già ampiamente criticata dalla comunità palestinese solo poche settimane prima, in occasione della prima campagna simbolica del 9 maggio.
 
Attivisti, accademici e artisti palestinesi (così come molte voci della diaspora e collettivi decoloniali) hanno denunciato chiaramente i limiti dell’iniziativa precedente:

 • la rimozione totale dell’identità palestinese,
 • la mancata denuncia dell’aggressore,
 • l’invito al silenzio come forma di “rispetto”,
 • l’uso estetico del lutto come forma di distanziamento politico.
 
Riproporre oggi, con minime variazioni, la stessa formula simbolica, significa ignorare quella critica. Significa non ascoltare le persone per cui si dice di agire.
 
Come ha scritto Mohammed El-Kurd:
 
 “They say they care about us, but they never ask what we want. They organize vigils while we demand liberation.”
 
Questo non è solo un errore politico. È un gesto di appropriazione coloniale del dolore.

È parlare sopra le voci palestinesi, sostituirle con immagini, lenzuola e numeri.

È costruire una solidarietà che usa i corpi palestinesi morti come superficie di proiezione bianca, invece di riconoscerne l’umanità e l’autodeterminazione politica.
 
E quindi la domanda non è più solo: “quale narrazione?”

Ma: a chi serve questa narrazione? Chi la decide? E chi viene deliberatamente escluso dal processo?"

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