I soldati russi ad Aleppo, salutati come liberatori. Fulvio Scaglione dalla Siria

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I soldati russi ad Aleppo, salutati come liberatori. Fulvio Scaglione dalla Siria



di Fulvio Scaglione - Gli Occhi della Guerra
 

Aleppo, 12 gennaio. Ad Aleppo, in questo periodo, si vede in giro un sacco di gente…strana. Nei quartieri Est, dove si è combattuto casa per casa, ci sono i posti di blocco dell’Ypg, le Unità di Protezione Popolare dei curdi del Rojava. Fuori, sulle strade, ecco le postazioni dei volontari sciiti arrivati dall’Afghanistan. In Aleppo Ovest, invece, si notano gli iraniani, in realtà super attenti a non esporsi troppo, e gruppetti di cinesi, che non sono militari e dicono di essere “businessmen”. Mah.

 

E poi, ovviamente, ci sono i russi. Anche se la cosa a molti non piace, i russi sono popolari in Medio Oriente. Ad Aleppo poi, presso la gran parte della popolazione, sono degli eroi, dei fratelloni fedeli arrivati nel momento del massimo bisogno. Io nel 1945 non c’ero ma mi sono fatto l’idea che gli aleppini vedano i soldati russi un po’ come gli italiani vedevano i soldati americani che avevano messo in fuga i nazisti.

 

E infatti. Guccini, nella Locomotiva, diceva che gli “gli eroi son tutti giovani e belli”. Così, per l’aleppino medio dei quartieri Ovest i russi sono tutti alti, biondi e con gli occhi azzurri. Dei veri muzhìk siberiani. Un mito. Ma non è proprio così. Umar, sergente che fa il giro con la sua pattuglia, è di Grozny, capoluogo della Cecenia. E spiega: “Qui siamo tutti ceceni. Due battaglioni, ci diamo il cambio un mese ciascuno”.


I ceceni sono tosti, combattenti dentro, ma non sono propriamente alti e biondi. Però sono in grandissima parte musulmani e questo deve aver contato nella scelta degli alti comandi russi di spedire proprio loro in Medio Oriente.


E com’è, stare qui?


“Be’, a casa si sta meglio. Ma alla fine non è male, la gente ci vuole bene, non è difficile intendersi anche se per lo più ci intendiamo a gesti. Certo, il lavoro da fare è enorme”.


Umar ruota il braccio tutt’intorno. Siamo ad Aleppo Est, ormai in periferia, e le distruzioni sono terrificanti. Jihadisti e ribelli si sono fatti scudo dei grandi condomini popolari e dei loro abitanti, russi e soldati lealisti li hanno inseguiti ovunque senza risparmio di colpi. Il risultato è stato, inevitabilmente, un’altra Gaza, un’altra Grozny, un’altra Fallujah.


Mentre parliamo ecco un’esplosione. Scuote l’aria mentre una nube nera si alza minacciosa dietro i monconi dei palazzi. Una delle tante che si sentono giorno e notte, ma più vicina e forte del solito. “Niente paura”, dice il sergente con una risata, “questi siamo noi”.


In che senso, noi? “I nostri sminatori. Quegli altri, mentre si ritiravano, hanno lasciato un sacco di brutta roba in giro. Nelle case, sotto le macerie, per le strade… Così, prima di ogni altra cosa, spesso anche prima di portare i soccorsi alla gente, bisogna pulire dappertutto. Mine, bombe ed esplosivi li raccogliamo e poi li facciamo saltare. Certo che ne avevano un bel po’, di ‘sta roba”.


È stata dura, la battaglia? “All’inizio sì. Erano asserragliati nella zona dei mercati, un vero labirinto. Inoltre erano lì da anni, avevano avuto il tempo di organizzare le difese, di darsi una struttura, accumulare rifornimenti. Il grosso della resistenza è stato lì. Poi, quando hanno cominciato a cedere terreno e a ripiegare, le cose sono accelerate ed è arrivata la fine. Però si sono ritirati con ordine, non si sono mai davvero sbandati, nonostante le perdite”.


E adesso? “Per me, casa. Il mio mese sta finendo, non vedo l’ora di tornare in famiglia e riposare. Per questa gente, invece, anche se il peggio è passato, non è finita. A pochi chilometri da qui ci sono ancora gruppi armati che tirano razzi sulla città. Speriamo che si possa cominciare presto a ricostruire Aleppo”.



 

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