Il futuro è nelle nostre mani la dignità delle persone viene prima di tutto
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di Michele Blanco
Nel mondo contemporaneo esiste un Paese tra i più ricchi, se guardiamo i dati economici come Il prodotto interno lordo (P.I.L.), dove anche se lavori e produci tantissima ricchezza, resti inesorabilmente povero. Dove ti ritengono utile finché produci, ma diventi invisibile quando chiedi il rispetto dei più elementari diritti, come istruzione, assistenza sanitaria.
Questo Paese è l’Italia del 2025, dove oltre sei milioni di persone, pur lavorando, non arrivano a guadagnare mille euro al mese. Dove undici milioni di lavoratori guadagnano meno di 25 mila euro lordi l’anno. È un’Italia che ha smesso di garantire i diritti umani fondamentali più elementari, come ad essere assistiti nel momento del bisogno, che ha reso il lavoro, non più una certezza tutelata, ma una scommessa quotidiana alla merce di qualsiasi cambiamento d'umore del datore di lavoro. E la perdita di certezze economiche e di diritti avviene sempre per la stessa parte, quella dei più deboli.
L’83,5% dei rapporti di lavoro totali cessati nel 2023 è durato meno di un anno, in molti casi poche settimane. Addirittura uno su due meno di novanta giorni. La precarietà assoluta non riguarda una piccola parte dei contratti di lavoro: è la regola costante. La precarietà lavorativa è costruita con metodo, alimentata da decine di tipologie di contratti, tutti a termine, part-time obbligati, qualifiche basse e continui ricatti salariali. È un’architettura sociale in cui il lavoro non libera, ma incatena a una nuova forma di servitù.
Incredibilmente questo modello neomediovale è stato venduto come modernità, purtroppo in comune accordo dai governi di centrosinistra e di centrodestra.
Ma si tratta solo un capitalismo neoliberista che si nutre di assoluta disuguaglianza, che scarica i rischi su chi lavora e protegge solo chi fa profitti.
E quando l’inflazione aumenta, come accaduto in questi anni, quando il carrello della spesa pesa come un affitto, ci si sente rispondere che serve “flessibilità”. Flessibilità, cioè disponibilità a rinunciare a tutto: dignità, libertà, tempo, stabilità, diritti e salute.
I referendum dell’8 e 9 giugno sono un’occasione unica, irripetibile e storica. Non per correggere qualche piccola stortura, ma per mettere in discussione l’intera impostazione di concepire il lavoro come assoluto sfruttamento come avviene in Italia.
Un' occasione unica per chi non ha voce nei talk show, mentre impervessano i responsabili, politici, opinionisti e rappresentanti degli industriali, di questa triste situazione. Per tutti quelli che si alzano all’alba e tornano, se non hanno incidenti sul lavoro, a casa quando i figli dormono. Per chi ha visto il futuro ridotto a un contratto di tre mesi. Dobbiamo dare un sì collettivo, assolutamente necessario, per provare a iniziare un cambiamento radicale. L'occasione dell' 8 e 9 rappresenta solo il primo passo per iniziare a combattere chi ha trasformato il lavoro in povertà e precarietà. Bisogna andare a votare perché smettere di votare è proprio quello che vogliono, perché per le elezioni politiche non c’è il quorum da raggiungere come per i referendum, in meno votano e meglio è per loro cosi possono governare anche con soli i loro voti.
Bisogna votare perché a furia di non scegliere, qualcun altro sceglie per noi tutti, al nostro posto, contro di noi e i nostri diritti.
I salari da fame, i licenziamenti facili piacciono a chi detiene il potere politico ed economico, per questo ci chiedono di non andare a votare l'8 e il 9 giugno, perché vogliono lavoratori senza diritti, ricattabili, sottopagati e, sempre più, sfruttati.
Aiutiamo Il mondo del lavoro, il futuro dei nostri figli, delle generazioni future, ad essere migliore, i referendum servono a questo, a restituire a tutti i lavoratori almeno un po' della dignità che è stata ingiustamente tolta.