"Italia ieri, oggi e domani": Concorso letterario de l'AntiDiplomatico

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 Cari lettori de L'AntiDiplomatico,
 

questo che pubblichiamo oggi non è un articolo o un saggio e nemmeno un reportage. Ma un breve racconto. L'idea è provare a guardare al tempo che viviamo da una prosepettiva diversa, meno analitica. Ma non per questo meno seria.

Perché la fase storica che stiamo vivendo è così diversa da tutto quanto vissuto fino ad oggi che, per raccontarla adeguatamente, si rende necessario approcciarsi ad essa nei modi più disparati.

L'ordine delle cose che ci è appartenuto (per quanto perfettibile e controverso fosse), tutto quello che sembrava acquisito, anche la soporifera quotidianità, è stato stravolto di colpo e (forse) per sempre. Una condizione, il nostro presente, che non si verifica certo per la prima volta nella storia ma che, come nei casi precedenti, coincide con cambiamenti radicali e molto repentini e mutamenti profondissimi negli assetti della società, spesso non immediatamente percepiti dalla maggioranza. Uno scenario tipico dei tempi rivoluzionari. E se è vero che ci troviamo in tempi rivoluzionari (non ce ne vogliano i puristi della locuzione) allora è doveroso raccontarli. E chi meglio degli scrittori può farlo?

E allora abbiamo pensato di narrare l’Italia contemporanea, nella bufera di questi tempi estremi, guardando non solo al passato ma immaginado presenti alternativi e fantasticando scenari futuri. Tentando di descrivere l'oggi abbozzando figure retoriche e disegnando nuove mappe che, questo almeno crediamo noi, possano risultare fondamentali per orientarsi nell'ignoto che ci si para davanti.

Lo spunto per questo tentativo ce lo da il breve ma molto efficace racconto del giornalista e scrittore Edoardo Laudisi (pubblicato in calce), che non vogliamo resti un esperimento isolato. Al suo vorremmo aggiungerne altri, racconti biografici, storici, distopici, ucronici, gialli, horror, umoristici. Purché siano brevi, massimo otto cartelle, ma non saremo fiscali.

Mandateceli!

I migliori, quelli che a nostro giudizio colgono nel segno, che ci colpiscono, che ci piacciono di più, diventeranno un libro da pubblicare a breve. Una piccola raccolta di racconti in grado di decostruire la narrazione dominante e immaginare un futuro diverso. Possibilmente migliore.

 

L.A.D. Gruppo Editoriale

 

PS i racconti dovranno essere inviati a info@lantidiplomatico.it entro il termine ultimo del 15.01.2022

 
 
 
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Italia, ieri oggi, domani

di Edoardo Laudisi

 

“Scopa!” urlò Marcellino sbattendo la carta sul tavolo con tanta forza da farlo tremare.

“E con questo facciamo primiera, settebello e denari” disse poi appoggiandosi con soddisfazione allo schienale della sedia da dove lanciò un’occhiata trionfale a Primo, il suo compagno di gioco.

“Mannaggia, tutte a te capitano le carte buone” si lamentò Martino cercando in quel modo di sviare i sospetti di Italo riguardo alle sue capacità di gioco. Nell’ultima mano aveva fatto due errori di calcolo madornali che se li avesse visti la sua vecchia maestra di aritmetica lo avrebbe bacchettato come un somaro.

“E che c’entra la fortuna, qui sei tu che non sai giocare” lo sbeffeggiò Italo che ne aveva abbastanza di perdere per colpa di un ritardato che non sapeva fare di conto. Pungolato dall’accusa del compagno, Martino girò lentamente la testa verso Primo, che fino a quel momento era rimasto in silenzio ad osservare la disputa, e sibilò non senza una punta di cattiveria.

“Allora, ti sei iscritto al partito?”

Primo, colto di sorpresa dalla domanda fatta a bruciapelo, esitò a rispondere. Non che avesse qualcosa contro il partito, al contrario, aveva appoggiato i suoi sforzi di riportare l’ordine nel Paese e garantire la sicurezza, ed era anche convinto che senza l’intervento energico di Mussolini ci sarebbe stata sicuramente una guerra civile con migliaia di morti. Però la tessera del partito non l’aveva ancora presa. E non capiva perché Martino glielo domandasse. In fondo erano cose che non lo riguardavano.

“Beh, ecco, non ancora. Ma penso di farlo presto” rispose con il tono imbarazzato dello scolaretto interrogato a sorpresa dal maestro.

“E cosa aspetti? Qui l’abbiamo fatto tutti” lo incalzò Martino, contento di aver sviato l’attenzione dall’argomento partita.

“Sarai mica contro l’Italia?” intervenne Italo, ancora seccato per la sconfitta. Era la seconda sconfitta di seguito che subiva da quella coppia di ritardati e in qualche modo la cosa andava compensata.

“No, ma che dici. Solo che non ho avuto tempo, tutto qua” si giustificò Primo che iniziò a sudare sotto la camicia di lana grezza che gli ricopriva il busto come uno scafandro. In effetti Martino aveva ragione, tutti avevano fatto la tessera anche perché senza era diventato difficile vivere. Perfino all’ufficio postale dove lavorava da dieci anni gli avevano comunicato che se voleva ottenere lo scatto di anzianità era necessario averla. Ora, non è che non essersi iscritto al partito fosse da attribuire a una sua particolare posizione politica, al contrario, Primo non si interessava di politica; lavorava alle poste, faceva il suo dovere di capofamiglia al meglio delle sue possibilità e il gioco delle carte, spesso accompagnato da qualche bicchiere di rosso, era il suo unico vezzo. Quindi non capiva perché, da un po' di tempo a quella parte, i suoi compagni di gioco lo tormentassero con quella faccenda che in fondo apparteneva alla sua vita privata.

“Allora sei contro il fascismo, ce l’hai con Mussolini”, lo incalzò Marcellino.

“Ma no, no. Per carità” esclamò quasi indignato. Come potevano anche solo pensare che non fare la tessera volesse dire essere contro il duce. Mussolini stava lassù che manco la vedeva la gente come lui. Figurarsi se il duce aveva il tempo e la voglia di controllare se un poveraccio come lui aveva la tessera. Piuttosto gli pareva che fossero i suoi compagni a controllare. “È che a me non va di giocare a carte con uno che non è chiaro su queste cose” disse bruscamente Marcellino posando il mazzo sul tavolo. Tra i giocatori piombò un lungo silenzio. Non c’era dubbio che fosse successo qualcosa. L’aria era cambiata al bar, sempre più tesa e densa e Primo non riusciva a rilassarsi come una volta. La faccenda della tessera era diventata una vera ossessione e le partite a carte, che poi erano l’unico vero piacere della sua giornata, lo divertivano sempre meno. In quel preciso istante ebbe la sensazione che qualche cosa di brutto stesse per piombargli addosso.

“Senti un po' tu là. Imboscato.”

La voce del medico condotto Basacci rimbombò nel locale come il latrato di un cane rabbioso: “È da un po' che ti tengo d’occhio a te”.

Il sanitario si avvicinò lentamente al tavolo dei giocatori puntando direttamente su Primo. Da giovane Basacci aveva sofferto di una terribile alopecia che, oltre a scorticargli la pelle del cranio rendendolo completamente calvo, gli aveva negato le attenzioni del sesso femminile. Si rifaceva ora, a distanza di anni, da quando l’incarico di ufficiale sanitario, ricevuto direttamente dalle mani del podestà, gli aveva dato una certa popolarità. Tanto che sue interviste venivano pubblicate regolarmente sul giornale locale. Ora nella sala d’attesa dell’ufficiale sanitario c’erano sempre molte donne ansiose di farsi visitare.

“Non sarai mica uno di quegli antifascisti vigliacchi che tramano contro il paese eh?” ringhiò Basacci piantando i suoi occhi rabbiosi sul povero Primo che non aveva la minima idea di come rispondere all’accusa. Mentre gridava per farsi sentire da tutti, Basacci espelleva grumi di saliva densi come bava che indirizzava di proposito contro l’interlocutore. Dalla barba di due giorni scaturiva un fetore da cane bagnato che, a detta del medico condotto, aveva il potere di eccitare le donne.

“Io non tramo contro nessuno” si affrettò a dire Primo ma si accorse subito che quella frase pronunciata quasi balbettando avrebbe soltanto reso Basacci più aggressivo.

“È che io li riconosco dalla puzza che fanno, i codardi. Pensavamo di averli fatti fuori tutti dopo Caporetto questi infami. Tutti in fila e via, pum pum, pum, decimazione. Branco di cagasotto. Invece sono ancora qua. Altro che confino gli darei”, urlò Basacci che non aveva fatto un solo giorno della grande guerra perché si era imboscato subito. Appena scoppiato il conflitto, per ottenere l’esonero dal servizio militare, il giovane studente di medicina senza capelli si era infilato una gigantesca supposta di tabacco cubano compresso nel deretano ed era quasi finito all’altro mondo. Influenza altamente contagiosa di origine asiatica, virus probabilmente cinese, avevano diagnosticato i medici militari e Basacci era rimasto a casa mentre gli altri crepavano a migliaia sui reticolati.

“Perché non hai ancora la tessera?” gridò rivolgendosi nuovamente a Primo. “Non lo sai che l’ordine e la salute pubblica dipendono da questo? Per garantire la sicurezza della nazione tutti devono essere tesserati. Soltanto i vigliacchi e gli imboscati non lo sono ma peggio per loro. Da parte mia non li curerò dovessero entrare nel mio studio strisciando sul ventre, quei vermi."

Poi si avvicinò fino quasi a sfiorare la faccia di Primo, che dovette trattenere il respiro per evitare il fetore di cane bagnato.

“Non permetterò mai a uno di questi antifascisti infetti di starmi vicino. Mai. Sono una minaccia per la nazione.”

Più tardi, sul pullman che lo riportava casa, ancora turbato per quello che era successo al bar, Primo non poté fare a meno di origliare la conversazione tra due passeggeri seduti nella fila avanti alla sua. Nonostante si fosse sempre vantato di essere uno che si faceva i fatti suoi quel giorno non riuscì a contenersi e si mise in ascolto come uno dell’Ovra.

“Io a questi che non fanno la tessera del fascio li radierei dal registro dell’anagrafe. Niente tessera, niente cittadinanza. L’italiano è fascista o non è” disse il passeggero seduto sul sedile di destra. L’uomo, che visto di spalle sembrava un armadio tanto era largo, portava un cappellaccio calato di traverso come un bravaccio. La sua voce baritonale rimbombava nel pullman come in una cassa armonica. Primo si rannicchiò nel sedile incassando la testa tra le spalle come se volesse sparire.

“Mi permetta egregio signore, ma questi vigliacchi se ne fanno un baffo della cittadinanza. Sono apolidi per costituzione. È al portafoglio che bisogna colpirli. Allora vedrà se non correranno ad iscriversi, come lepri correranno queste carogne.”

L’uomo armadio roteò lentamente le spalle, sul sedile striminzito della corriera pareva si dondolasse un pachiderma, e si mise in ascolto. Il suo vicino, un ometto esile e smilzo come uno stecco di legno secco, visibilmente soddisfatto per aver attirato l’attenzione del marcantonio, alzò il dito indice come un maestrino elementare che voleva richiamare l’attenzione di uno scolaretto un po' lento di comprendonio ed espose il suo ragionamento. “Mi segua. Benito Mussolini ci ha dato le politiche sociali: l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, l’istituto nazionale fascista per la previdenza sociale, gli assegni famigliari, il sostengo per i poveri e poi la sanità che come ce l’abbiamo noi neanche negli Stati Uniti Nordamericani. Ora io dico che per poter usufruire di questi privilegi concessi dal duce alla popolazione, bisogna essere non solo italiani ma, innanzitutto, fascisti. E riconoscenti anche. Se non sei fascista e non sei riconoscente perché mai dovresti godere di un bene introdotto dal fascismo? Ah no caro mio, sarebbe troppo facile. Invece di ingolfare gli ospedali o usurpare un sussidio togliendolo a un bravo fascista che ha fatto la sua bella tessera per tempo ed è in regola con lo Stato, te ne stai con il tuo statuto albertino che ti tratta come un cane rognoso, o vai dai bolscevichi che così ti fucilano seduta stante.”

“Perbacco, lei ha proprio ragione!” esclamò il marcantonio dopo un lungo istante di riflessione, ”senza tessera fascista niente stipendio!” aggiunse e come a sottolineare che aveva compreso e approvava colpì con il pugno lo schienale davanti. Lo schianto del legno percosso con tanta forza fece rabbrividire Primo che si rannicchiò ancora di più sul sedile, sperando che la sua fermata arrivasse presto. Temeva che qualcuno dei passeggeri avesse assistito alla scena del bar e da un momento all’altro potesse denunciarlo all’energumeno. Appena sceso dalla corriera corse svelto verso casa e s’infilò nell’atrio senza salutare il portinaio con il quale di solito si fermava a fare due chiacchiere. Era forse un caso che da un paio di giorni il vecchio aveva messo la tessera del partito in bella vista sul vetro del gabbiotto dove stava rinchiuso la maggior parte del tempo senza fare nulla, e che ogni volta che lui ci passava davanti, prima di salutarlo il custode accennava con gli occhi al tesserino come per ricordargli un’incombenza?

Quella sera a cena Primo mangiò in silenzio come un seminarista in penitenza. Nella sua piccola testa confusa vorticavano le parole furiose di Basacci che lo accusavano di ogni nefandezza. Se anche gli altri si fossero uniti al coro rischiava di finire al confino come quei poveracci antifascisti; che poi poveracci mica tanto, che quelli erano sempre contro tutto e tutti e si dimenticavano che il fascismo aveva salvato il paese dal bolscevismo risparmiando migliaia di vite e, insomma, un po' di confino non gli faceva certo male a quella gente.

Ma non a lui, che per timore dei rossi aveva accolto come una liberazione la svolta fascista e se fosse stato necessario l’avrebbe appoggiata due, tre quattro, cinque volte e via così fino a quando il pericolo bolscevico fosse rimasto. In fondo si trattava di un pezzo di carta bollata, una scartoffia come ne firmava tante nel suo lavoro alle poste.

Perché si era ostinato? Sì certo, a un apolitico come lui il fatto di doversi iscrivere a un partito per poter continuare a vivere e lavorare come aveva fatto fino a quel momento faceva uno strano effetto, e probabilmente era per quello che aveva esitato.

Anche se poi, a pensarci bene, quello che aveva detto il professore sul pullman era più che corretto. E comunque non aveva nessuna voglia di esser trattato come lo scemo del villaggio da quell’idiota di Martino, cosa che sarebbe sicuramente successa se non avesse preso la tessera.

In fondo chiedeva solo di essere lasciato in pace.

Come tutti.

In quell’istante la decisione scese su di lui come una benedizione e tutto diventò finalmente semplice. La mattina seguente come prima cosa sarebbe andato ad iscriversi al partito. Poi da lì spedito al lavoro ad informare il suo superiore della novità, chiedendogli al contempo di avviare immediatamente la pratica per lo scatto di anzianità che adesso gli spettava di diritto. Infine, sarebbe andato al bar. Avrebbe sostato per qualche istante sulla soglia da dove avrebbe gettato una lunga occhiata ai compagni che sicuramente stavano sparlando di lui, si sarebbe avvicinato lentamente al tavolo come aveva fatto Basacci, con quel suo procedere così prestante, avrebbe posato la tessera sul tavolino stando bene attento a non sporcarla con le carte unte di Marcellino, dopodiché si sarebbe seduto per giocare la partita serale come se nulla fosse. Sollevato da quella visione, immerse il cucchiaio nella minestra appena servita dalla moglie che di solito gli faceva schifo, e, sorridendo come un bambino, esclamò “È buona veramente cara”.

La Redazione de l'AntiDiplomatico

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