La sorte di Zelenskij e l'esempio del barone Kolchàk

La sorte di Zelenskij e l'esempio del barone Kolchàk

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di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico


La procura polacca ha definitivamente stabilito che i resti del missile che lo scorso novembre erano finiti sul villaggio polacco di Przewodów, un centinaio di km a sudovest dell'ucraina Lutsk, uccidendo due contadini, erano ucraini, nonostante Kiev, senza peraltro presentare alcuna documentazione, continui tutt'oggi a sostenere che si trattasse di un razzo russo. Secondo l'ufficiale Rzeczpospolita, e un po' tutta la stampa polacca, questa sarebbe una delle ragioni per cui Varsavia rifiuta oggi di continuare a fornire a Kiev nuove armi e anche a consentire il transito del frumento ucraino.

Ora, la decisione polacca sul grano ucraino, è stata in gran parte motivata da ragioni elettorali, col partito governativo PiS che intende assicurarsi il voto dei contadini polacchi, messi in difficoltà dal dumping ucraino ed è difficile credere che anche la scelta sull'invio di nuove armi discenda esclusivamente dalla vicenda del missile. Come che sia, effettivamente, la scorsa settimana il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha detto chiaro e tondo che Varsavia non intende «mettere a rischio la sicurezza ucraina, dunque il nostro hub a Rzeszow, secondo gli accordi con gli americani e con la NATO, continua e continuerà a funzionare. Tuttavia, non forniremo più alcun armamento all'Ucraina, dal momento che ora dobbiamo armarci noi stessi coi più moderni armamenti».

Ma, anche così, secondo Ukraine Support Tracker, Varsavia ha già fornito a Kiev armi per 3 miliardi di euro, cioè il 0,5% del PIL polacco, piazzandosi al sesto posto tra i fornitori della junta golpista.

Secondo l'americana Responsible Statecraft, lo scontro ucraino-polacco è molto indicativo per tutto l'occidente: anche in quei paesi che maggiormente appoggiano Kiev, tale sostegno raggiungerà una soglia, oltre la quale ciò comporterà gravi e sensibili privazioni per i cittadini. Da non credere! E noi che pensavamo...

Insomma, è così che si infittiscono le voci sulla generale frenata occidentale del sostegno a Kiev e, in particolare, a Vladimir Zelenskij. Secondo il capo-delegazione russo ai colloqui di Vienna sulla sicurezza, Konstantin Gavrilov, vari accenni ufficiosi indicano che l'Occidente cerca di imporre al nazigolpista-capo l'indizione di elezioni presidenziali, anche a guerra in corso, proprio per cercare un sostituto: la sua immagine essendo ormai screditata tra le élite liberali e gli affari con Mosca essendo caduti a livelli troppo bassi per i profitti del capitale.

Ma c'è anche chi ipotizza il ricorso all'usuale “spirito pratico” yankee per sostituire un personaggio divenuto scomodo e ritornare quanto prima a fare affari con la Russia. Su Komsomol'skaja Pravda, Dmitrij Ol'šcanskij mette in fila qualche dato – il NYT ammette che il missile su Konstantinovka fosse ucraino, WSJ decanta la competenza bellica russa, i polacchi accusano Kiev per il missile di novembre, in Slovacchia è in predicato di andare al governo un agguerrito anti-ucraino e filo-russo come Robert Fico – e afferma che, pur odiando la cospirologia, sente odore di prossimo assassinio a Kiev e la mano, pur mascherata da “malvagità putiniana”, sarà quella di chi a suo tempo ha innalzato Zelenskij fino alla sue odierne manie napoleoniche.

La pensa così anche il pubblicista ucraino Anatolij Ursida, il quale, sebbene pronostichi tempi un po' più lunghi per la manovra yankee, afferma che, di per sé, gli ucraini già due volte hanno messo la croce su Zelenskij - la prima volta nell'autunno del 2021, quando il livello di odio nei suoi confronti aveva raggiunto il massimo, e oggi, per il fallimento della “controffensiva” - ma per gli anglosassoni è ancora presto per “crocifiggerlo” e preferiscono attendere  qualche esito più catastrofico della sua “reggenza”. Per questo lo riforniscono di armi, ma in quantità limitata e di seconda scelta: quel tanto per arrivare alla primavera prossima e a quel punto portare il colpo finale.

Su Ukraina.ru, Rostislav Išcenko nota che dopo le promesse di aiuto rinnovategli a Washington, Vladimir Zelenskij ha fatto appena in tempo a rientrare a Kiev che subito gli è stato recapitato un “telex” con un aut-aut: o le riforme o niente aiuti. Quali riforme “consigliano” a Kiev oltreoceano? Quella dei Servizi di sicurezza, già “riformati” più di una volta dagli americani stessi. Secondo Išcenko, così facendo gli yankee intendono «privare Zelenskij del suo unico punto di forza affidabile, col quale egli attua di fatto la politica interna, tramite un esteso apparato, prigioni segrete, esecuzioni extragiudiziali e un vasto arsenale di intimidazione». Senza tutto questo apparato, Zelenskij sarà ridotto a uno scolaretto innocente. Gli si “consiglia” inoltre di estendere ulteriormente i poteri dell’Ufficio nazionale anticorruzione, sotto controllo americano, della Procura anticorruzione, dell’Ufficio per la sicurezza economica e della Suprema Corte anticorruzione, oltre al ripristino dell'obbligo della dichiarazione patrimoniale per giudici e funzionari statali, abrogato da Zelenskij. Non finisce qui: Kiev dovrà metter mano anche al Ministero della difesa, al Servizio doganale e di frontiera e alla polizia. Tutti canali, scrive Išcenko attraverso cui passano i flussi di denaro sporco, che gli «americani vogliono controllare (ovviamente, non solo controllarle, ma reindirizzare nella giusta direzione: nelle proprie tasche)».

Non è finita qui: per la “gioia” dei residui abitanti dell'Ucraina (secondo il Ministero delle finanze di Kiev, il numero di abitanti è sceso dai 41 milioni di inizio 2022 ai 29 milioni del maggio 2023, con un esodo di profughi balzato dai 27mila del 2021 ai 5,7 milioni del 2022) si esige ancora una nuova “liberalizzazione” dei prezzi di gas e elettricità e, allo scopo si dovranno ampliare i poteri di controllo su “Ukrenergo”, “Naftogaz” e “Ukroronexport”, su cui sarà Washington a selezionare le candidature. Insomma: gli USA rafforzano il controllo sulle imprese statali ucraine ancora in attivo e, attraverso il «controllo del settore energetico, stabiliranno un controllo quasi completo non solo sui resti dell'economia, ma anche sui servizi municipali e, dunque, sulla sfera sociale».

Anche questi fatti dicono che a ovest anche i guerrafondai più accaniti sentono “il fiato sul collo” di chi intende arrivare a un accordo con Mosca, pur a condizioni accettabili per il business USA. Quello che Washington imputa a Zelenskij ora, è da anni la norma in Ucraina, anche col predecessore Petro Porošenko. Finora però le cose filavano abbastanza lisce; ma ora è la stessa amministrazione yankee a scontrarsi con difficoltà interne, anche nello stesso campo “democratico”. In questo modo, la Casa Bianca, “consigliando” riforme a Kiev, cerca non solo di mostrarsi integra nei confronti di uno Zelenskij corrotto, ma intende anche far cassa, prendendo il controllo su tutto ciò che in Ucraina risulti ancora redditizio.

Išcenko ricorda l'esempio del barone Kolchàk: allorché, dopo la disfatta delle sue truppe da parte dell'Esercito Rosso, nella guerra civile, i cecoslovacchi (gli ex prigionieri di guerra cecoslovacchi, in Siberia, che furono praticamente i primi a iniziare la rivolta contro la Russia sovietica e a sostenere Kolchàk) lo consegnarono ai bolscevichi, gli sottrassero anche le riserve auree dell'ex impero zarista, che vennero però confiscate dai giapponesi i quali, dopo il 1945, furono a loro volta derubati dagli americani. Dunque: nulla di nuovo.

In ogni caso, Joe Biden si trova stretto all'angolo: se Zelenskij ignora il “telex” yankee, l'opposizione interna americana chiederà conto a Biden per la perdita di controllo sui “figli adottivi” di Kiev; oppure i falchi yankee più russofobi armeranno i propri ascari ucraini per un golpe che piazzi un regime “amico” a Kiev, togliendo così a Biden il controllo sugli ulteriori sviluppi ucraini.

E lo stesso Zelenskij, privato dai controllori USA delle proprie fonti corruttive, perderà ogni interesse da parte della sua stessa squadra, dalla quale potrebbe spuntare la mano decisiva.

Fabrizio Poggi

Fabrizio Poggi

Ha collaborato con “Novoe Vremja” (“Tempi nuovi”), Radio Mosca, “il manifesto”, “Avvenimenti”, “Liberazione”. Oggi scrive per L’Antidiplomatico, Contropiano e la rivista Nuova Unità.  Autore di "Falsi storici" (L.A.D Gruppo editoriale)

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