LE SOCIETÀ CIVILI PIEGATE ALLA FINANZIARIZZAZIONE: LA GRANDE ABBUFFATA (Seconda Parte)

LE SOCIETÀ CIVILI PIEGATE ALLA FINANZIARIZZAZIONE: LA GRANDE ABBUFFATA (Seconda Parte)

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di Michel Fonte

 
La grande abbuffata

Non è bastato ai governi, principalmente di centro-sinistra e a quelli che impropriamente sono definiti tecnici (Monti dal 16 novembre 2011 al 27 aprile 2013, Letta dal 28 aprile 2013 al 21 febbraio 2014, Renzi dal 22 febbraio 2014 al 12 dicembre 2016, Gentiloni dal 12 dicembre 2016 al 1 giugno 2018), avvicendatisi da novembre del 2011 a marzo del 2018, aver riversato nel sistema creditizio vagonate di euro a fondo perduto, che quasi contemporaneamente si è aperta la partita per la riduzione in portafoglio di Npl (Non performing loan) e Npe (Non performing exposure). Nello specifico, l’adozione del Single Supervisory Mechanism (SSM), in data 4 novembre 2014, ha conferito alla BCE la responsabilità della vigilanza sulle principali corporazioni finanziarie continentali, all’incirca 120, mentre l’approvazione di un insieme di misure normative, comunitarie e nazionali, ha reso più stringenti i parametri di valutazione sui valori contabili e la classificazione dei crediti degli istituti bancari (Provvedimento EBA/ITS/2013/03[i] del 21 ottobre 2013 in materia di Forbearance Measure e Forborne Exposure, assunto ai sensi dell’art. 15 del Regolamento (UE) 575/201311; emanazione, il 24 luglio 2014, dello standard IFRS 9[ii] da parte dell’International Accounting Standards Board [IASB], accolto e reso operativo dall’UE a partire da gennaio 2018 [Regolamento 2016/2067]; adozione, il 20 marzo 2017, delle Linee guida su strategie, modelli operativi e di governance e regole di classificazione/valutazione degli NPL [Guidance to banks on non-performing load[iii]]; pubblicazione di Bankitalia, in data 30 gennaio 2018, delle Linee Guida per le banche Less Significant in materia di gestione dei crediti deteriorati[iv]).

In effetti, dalla crisi sono venute fuori annose problematiche e reconditi obiettivi di riordino del settore. Secondo l’ABI (Associazione Bancaria Italiana), il forte accumulo di sofferenze del sistema, è da attribuirsi fondamentalmente a tre fattori:
 
- Caduta del Pil.
- Aggravamento del debito sovrano.  
- Inefficienza della giustizia civile.

Pur essendo un organismo di parte, ci si poteva aspettare una qualche ammissione di colpa o perlomeno un minimo di autocritica. Detto fuori dai denti, si ha la netta percezione di una gestione poco trasparente degli istituti di credito e della loro principale controllante, Bankitalia, visto che a prevalere, sono non solo ambigui vincoli tra funzionari pubblici e management privato, che inopportunamente, con il passare del tempo, si scambiano i ruoli in un evidente conflitto d’interessi, ma soprattutto relazioni familistiche, amicali e cameraliste, che troppo spesso generano commistioni in cui controllore e controllante coincidono, attraverso società di comodo (holding e schermo), nella stessa persona, entità o gruppo di imprese. Tale fenomeno radicato nel tessuto produttivo nazionale, perverte la concessione di linee di fido e il finanziamento di operazioni industriali basate esclusivamente su valutazioni di profittabilità. A confermarlo, vi sono sia lo stock di crediti deteriorati, per una cifra oscillante tra i 341 e i 360 miliardi di euro nel 2015 e, successivamente, nel 2017, scesa a 264 miliardi, sia l’Npl ratio, cioè, il rapporto tra crediti avariati e il totale degli impieghi presso la clientela, che si assesta al 13,5% (dato 2017), un valore tipico delle economie strutturalmente deboli e che si pone molto al di sopra del tasso medio europeo (inferiore al 5%), soprattutto se si considera che il 62,5% sono Npe. In sostanza, su oltre 1000 miliardi di Npl in Europa, quasi un terzo è concentrato in Italia, troppo per indicare come uniche cause la crisi, il debito pubblico e il cammino tortuoso del recupero crediti per via giudiziaria (1.120 giorni), contando, inoltre, che si tratta di sofferenze coperte per tre quarti da garanzie reali (in maggioranza immobili civili e in piccola parte industriali).

Il tema ha un’enorme importanza, tanto per la solidità dell’ordinamento bancario nazionale, quanto per le ulteriori operazioni di deleveraging cui lo Stato italiano si è fatto e continua a farsi garante. Infatti, a partire dal 2015, in linea con i ferrei dettati legislativi, che rischiando di incidere sulla valutazione patrimoniale degli istituti finanziari (CET1, Total Capital ratio) comportano nuove ricapitalizzazioni cui i soci vogliono sottrarsi, le banche hanno accelerato le procedure di transazione degli Npl, liberandosi di ben 130,6 miliardi, dei quali 79,2 nel solo 2017[v]. Ancora una volta l’appoggio istituzionale si è dimostrato fondamentale, prevedendo la concessione di una garanzia da parte del governo italiano – con l’intermediazione di GACS (Fondo di Garanzia Cartolarizzazione Sofferenze) – per quel che concerne le operazioni di cartolarizzazione dei prestiti non performanti. Entrando nello specifico, una banca con crediti in sofferenza, li impacchetta e li divide in diverse tranche – senior, mezzanine e junior – ognuna delle quali con un profilo di rendimento-rischio. La senior è in teoria, ma solo in teoria, quella che contiene le esposizioni di migliore qualità e che pertanto otterranno rimborsi maggiori, in quanto tali, subiscono per ultime le eventuali perdite derivanti da recuperi inferiori alle previsioni, ed è su questa categoria che lo Stato pone il proprio avallo. Dunque, senza incorrere in complicati giri di parole, è doveroso sapere che la collettività si sta accollando altro debito privato attraverso lo stratagemma degli Special Purpose Vehicle (SPV), in cui agiscono società giuridicamente private ma a prevalente o totale capitale pubblico, consentendo, in questo modo, di aggirare le norme europee sugli aiuti di Stato.

Al momento GACS ha garantito:
 
- 24,1 miliardi del gruppo MPS, nel piano noto come Project Valentine;
- 17,7 miliardi di Unicredit, nel programma meglio conosciuto come Project FINO;
- 1,4 miliardi del Credito Valtellinese;
- 938 milioni del Gruppo Banca Carige;
- 799 milioni del Gruppo Banca Popolare di Bari.
 
Allo stesso tempo S.G.A., IRF e REV (socio unico Banca d’Italia) hanno acquisito, rispettivamente, Npl nella seguente misura:
 
- 18,6 miliardi di Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca;
- 31 miliardi originati da Nuova Banca Marche, Nuova Banca dell’Etruria, Nuova Cassa di Risparmio di Chieti, Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara, Banca Mps, Cassa di Risparmio di Cesena, Cassa di Risparmio di Rimini e Cassa di Risparmio di San Miniato;
- 10 miliardi di Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara, Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti e Banca delle Marche.
Tutte le società sopra citate, costituite con fondi pubblici o rilevate dallo Stato (S.G.A.), sono state rese operative sotto gli esecutivi Renzi e Gentiloni, che, paradossalmente, sono tra quelli che oggi si oppongono più strenuamente allo stanziamento di 15,7 miliardi di euro nel DEF, per l’esercizio 2019, a favore di pensionati e disoccupati (abolizione riforma Fornero e introduzione del reddito di cittadinanza). Ciò che più preoccupa del ruolo di garante dello Stato, è che il livello del recovery rate, ossia l’indice che rapporta, al principio di ogni anno, gli incassi e i ritorni in bonis dello stock di crediti deteriorati, si mantiene al di sotto del prezzo che, attraverso le società veicolo, è stato riconosciuto nella fase di acquisizione degli Npl, infatti, a fronte di un tasso di recupero dell’11% nel 2016 e del 13,4% nel 2017, ai beneficiari è stato concesso un valore medio di realizzo pari al 23% dei crediti incagliati, e, in alcuni casi, con punte che hanno raggiunto il 32%. Si tratta di una differenza di ben dieci punti percentuali che non sarà facile colmare, in quanto, pur tenendo conto di un quadro macroeconomico più favorevole in cui si assiste ad un progressivo miglioramento del saggio di recupero (in rialzo al 20% per il 2019), è certificato statisticamente che tale indice degrada dal 60,6% al 29,8% del valore del credito[vi] se si oltrepassa un quinquennio. Per di più, la rilevazione, sulla base degli studi effettuati, risente di una pronunciata disomogeneità tra le varie entità, che si concretizza nella peggiore performance dei maggiori cinque gruppi bancari, per i quali si passa dal 70% al 10% del valore di recupero quando si superano i cinque anni.
Se le realtà creditizie hanno dovuto scontare le difficoltà connesse alla contorta struttura della giurisdizione civile e alla complicata gestione delle garanzie immobiliari nella riscossione dei crediti, non si comprende in che modo il percorso possa essere più facile per società veicolo coperte dall’ombrello statale, considerando che secondo numerosi analisti del settore, lo smaltimento degli stock di Npl sconterà dei ritmi piuttosto lenti. Si conferma, pertanto, l’ipotesi che la cessione da parte delle banche rispetto all’alternativa del workout interno (gestione con risorse umane da parte della stessa entità creditrice), sia una misura di emergenza per accorciare i tempi, stimati in circa 10 anni (2028), e far tornare le prestazioni sui crediti ai livelli pre-crisi, vale a dire, in un range compreso tra il 6% e il 7%, che è, d’altra parte, il target che le autorità nazionali ed europee si sono proposte di centrare, però in un arco temporale molto più breve (2022). Ad ogni modo, una simile opzione potrebbe rivelarsi insufficiente, poiché, conformemente alle nuove regole di bilancio, la stima dei crediti non avverrà più sulla base di quelli impagati (incurred loss), ma con riferimento alla valutazione delle perdite attese (expected loss) sugli impieghi realizzati. Di conseguenza, sorge la necessità di provvedere a maggiori accantonamenti per il rischio insolvenza, che incidono, ancora una volta, sulla consistenza della struttura patrimoniale.
 

Banche da sottosistema a matrice

Sulla scorta di quanto menzionato, si prospetta un nuovo intervento a favore delle banche, e non sembrano casuali né le benevole parole del Ministro degli Interni, Salvini, sul ruolo di salvatore della patria attribuito a Draghi (“Draghi ha fatto tanto per l’Italia e per il sistema economico italiano. E spero che continui a fare tanto”, Ansa, 28 ottobre 2018), un’adulterazione della realtà bipartisan più volte propinata da politici dei vari raggruppamenti, né la possibilità ventilata dal sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Giorgetti, di una nuova ricapitalizzazione con denaro dei contribuenti, che si sommerebbe a tutti gli aiuti già citati, senza dimenticare il famoso e dibattuto decreto Imu-Bankitalia (D.L. 30 novembre 2013, n. 133), convertito in L. 29 gennaio 2014, n. 5.
Quest’ultimo, modificando la consistenza del capitale nominale di palazzo Koch, portandolo da 156 mila a 7,5 miliardi di euro, attraverso la patrimonializzazione delle riserve accantonate, ha permesso, da un lato, di distribuire più alti dividendi ai soci (6 volte il precedente valore), e dall’altro, fissando il tetto del 3% come massima partecipazione da parte di ciascun azionista nell’istituto monetario centrale, ha posto le condizioni affinché società pubbliche possano comprare in caso di emergenza le quote, fortemente rivalutate, di banche in difficoltà o in un imprevisto stato di necessità, che ne detengono in eccesso, come Unicredit S.p.A. (40.891, 13,63%), Intesa San Paolo (50.181, 16,73%), Cassa di Risparmio di Bologna (18.602, 6,2%), Generali Italia S.p.A. (13.762, 4,6%) e Banca Carige S.p.A. - Cassa di Risparmio di Genova e Imperia (12.093, 4%). D’altronde, la presenza statale in Bankitalia è già robusta, dal momento che diversi enti previdenziali di diritto pubblico (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, 9.000, 3%; Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, 9.000, 3%;) e altri con personalità giuridica di diritto privato (Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Ingegneri ed Architetti Liberi Professionisti – INARCASSA, 9.000, 3%; Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza dei Medici e degli Odontoiatri – Fondazione ENPAM, 9.000, 3%; Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, 9.000, 3%; Ente Nazionale di Previdenza per gli Addetti e gli Impiegati in Agricoltura – Fondazione E.N.P.A.I.A., 6.460, 2,15%;  Cassa Naz. Previdenza Assistenza Dottori Commercialisti – CNPADC, 6.000, 2%; Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per i Consulenti del lavoro – ENPACL, 2000, 0,7%; Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza a favore dei Ragionieri e Periti Commerciali, 1.500, 0,5%; Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Psicologi – ENPAP, 400, 0,13%; FASC – Fondo Nazionale di Previdenza per i Lavoratori delle Imprese di Spedizione Corrieri e delle Agenzie Marittime Raccomandatarie e Mediatori Marittimi, 400, 0,13%;) raggiungono complessivamente una partecipazione del 20,61% (Dati Banca d’Italia al 26 ottobre 2018[vii]), pari a 61.760 azioni su un totale di 300 mila.

Questo schema di connubio tra banche private ed enti pubblici è stato replicato su scala europea, dal momento che la BCE non è nient’altro che una struttura che nasce dall’apporto delle varie banche centrali[viii], nello specifico, i principali azionisti su un valore totale di 7,6 miliardi di euro sono:
 
1) Deutsche Bundesbank (Germania, 17,99% pari a 1,9 miliardi).
2) Banque de France (Francia, 14,17% pari a 1,5 miliardi).
3) Banca d’Italia (Italia, 12,31% pari a 1,3 miliardi).
4) Banco de España (Spagna, 8,84% pari a 957 milioni).
5) De Nederlandsche Bank (Paesi Bassi, 4,03% pari a 433 milioni).  
6) Banque Nationale de Belgique (Belgio, 2,47% pari a 268 milioni).
 
Questi sei soci che detengono il 59,81% del capitale sociale, hanno sostanzialmente accettato di costruire un’Europa bancocentrica, ed è il motivo per il quale il QE pensato da Mario Draghi non ha mai contemplato una strategia di sostegno all’economia reale (crescita del Pil, incremento della spesa pubblica in investimenti, aumento dell’occupazione, riduzione delle tasse) e alla realtà sociale (sostegno a fasce deboli, aiuti a famiglie ed imprese,  sviluppo di aree svantaggiate), al contrario, tutte le misure adottate sono state di tipo monetario, e cioè, di sostegno e puntellamento di valori mobiliari (azioni, obbligazioni, titoli di Stato, attività finanziarie) e immobiliari (rendite). Nel dettaglio, la politica proposta ha incoraggiato il perseguimento di pochi e precisi obiettivi:
 
- pompaggio dei corsi azionari, attraverso la concessione alle banche di denaro da trasfondere nelle Borse valori per acquisire specifici titoli;
- acquisto di quote del debito pubblico (Stato) e privato (imprese quotate), promovendo ancora una volta interventi da parte degli istituti di credito con fondi comunitari;
- salvataggio e temporanea nazionalizzazione di istituti di credito in difficoltà e imprese private di rilievo nazionale e internazionale;
- rastrellamento nel mercato di crediti deteriorati e titoli tossici (junk bond), facenti parte di emissioni ad alto rendimento ma con un elevato rischio per l’investitore;
- ritorno dell’inflazione ai livelli minimi, definiti come ideali, per evitare che la produzione restasse giacente o costretta a subire perdite per una vendita scivolata al di sotto del costo unitario.
Insomma, l’alleggerimento quantitativo predisposto dal Presidente della BCE ha visto il denaro passare sempre e unicamente attraverso il canale bancario, con il manifesto proposito, esternato in innumerevoli conferenze, incontri e interviste, di continuare nell’azione fino a che il tasso di inflazione non fosse giunto ad un livello accettabile per il sistema, ossia, quel 2% che consente di difendere le rendite di posizione, rivalutando gli asset di chi ne è già in possesso e aggravando irrimediabilmente il divario tra classi abbienti e ceti disagiati.  È un fatto riconosciuto, che la bassa o negativa inflazione, in assenza di adeguate politiche fiscali di redistribuzione della ricchezza e di investimenti pubblici, peggiora la condizione dei percettori di reddito fisso e dei debitori, poiché, i primi vedono le loro entrate diminuire (perché bisogna considerare che le dinamiche di aggiustamento delle retribuzioni da lavoro verso il basso, la precarietà, le esternalizzazioni e le mancate vendite in periodo di crisi, si trasformano in licenziamenti, riduzione di orari e quindi, più in generale, in diminuzione di salari e stipendi) e i secondi rimanere intatto il valore reale del debito contratto.

Questo è il motivo principale per cui le uniche aste che immettevano denaro fresco nell’economia reale, le cosiddette TLTRO (Targeted Longer Term Refinancing Operation), sono miseramente fallite. Infatti, in condizioni di inflazione negativa e con bassi livelli del tasso attivo, le banche hanno preferito non invischiarsi nella concessione di prestiti vincolanti a favore di famiglie e imprese (esclusi i mutui che la BCE ha deciso non includere per il rischio di nuove bolle immobiliari), che le garantivano un ridotto margine di utile a fronte di un rischio non sopportabile per un sistema già in difficoltà. Inevitabilmente, le due operazioni TLTRO-I (composta da otto aste a partire da giugno 2014) e TLTRO-II (formata da quattro aste bandite in marzo 2016) non hanno sortito gli effetti sperati, malgrado si trattasse di prestiti di durata quadriennale con un saggio pari allo zero, o addirittura negativo (-0,4%) nell’eventualità di aumento di crescita degli impieghi in attività non finanziare oltre una certa soglia. Gli amministratori degli istituti di credito hanno preferito tesorizzare i fondi – il dato, tuttavia da quantificare, va dai 440 ai circa 900 miliardi di euro di prestiti concessi – per migliorare i livelli interni di liquidità, condannando il provvedimento all’irrilevanza. Non resta che arrivare ad una triste conclusione, i supposti populismi che stanno soffiando forte in Europa, perfino in quei paesi privilegiati dall’adozione della moneta unica, sono il sintomo di un rifiuto secco di un’unione in cui gli istituti di credito non sono più sottosistema ma matrice, lo dimostra la disinvoltura con la quale mentre si prescrivevano ai governi misure draconiane sul welfare (previdenza sociale, assistenza sanitaria, pubblica istruzione, prestazioni assistenziali), li si rimpolpava con migliaia di miliardi di euro provenienti da una BCE in pieno conflitto d’interesse. Alla canonica e infida domanda su che cosa si sarebbe potuto fare di diverso, considerando che una sequenza di fallimenti bancari avrebbe aggravato la condizione di astenia dell’economia, sembra doveroso rispondere che dato che le banche sono state salvate con soldi dei contribuenti, non era da scartare l’ipotesi di incorporarle nel recinto della CDP, o di un’altra società con personalità giuridica privata ma a capitale pubblico, per conservarle durante un tempo sufficiente a reinvestire parte degli utili realizzati nel miglioramento di servizi al cittadino e in investimenti infrastrutturali. Successivamente, a tempo debito, valutare l’opzione di rivenderle ad un prezzo di mercato congruo, evitando di regalarle a gruppi privati, il cui management ha dimostrato, a giudicare dai poco lusinghieri risultati, una certa miopia professionale, e in taluni casi, sotto la vigile lente della magistratura, essere aduso a comportamenti gestionali penalmente rilevanti. Si comprende che lo scopo celato ai più era ben altro, e cioè, iniziare un processo di concentrazione che porti alla creazione di trenta banche sistemiche dell’UE, inghiottendo tutto ciò che è piccolo e per questo disprezzabile e non funzionale agli interessi di papaveri, paperoni e papponi della big economy.

QUI PER RILEGGERE LA PRIMA PARTE DELL'ANALISI
 
 

 

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