L’uragano Chávez

L’uragano Chávez

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Il 28 luglio, in Venezuela, si ricorda il compleanno di Hugo Chávez, nato nel 1954 e scomparso il 5 marzo del 2013: scomparso solo “fisicamente”, precisano i chavisti da allora.  “Chávez non è morto, si è moltiplicato”, gridò fin da subito la moltitudine presente al funerale, alimentando per giorni una coda lunga 17 chilometri. Un messaggio di riscatto per i popoli del pianeta, che accende le speranze degli ultimi e delle ultime, insegnando a non dimenticare le proprie origini.

Nel suo programma, Aló Presidente, una vera e propria scuola di formazione e di comunicazione, Chávez disse, infatti: “Se uno potesse nascere di nuovo e decidere dove, io direi a papà Dio: Mandami nello stesso posto. Nella stessa casetta di palme, indimenticabile, nello stesso pianoterra, con le pareti di fango, un lettino di legno e un materasso fatto di paglia e gommapiuma. E un patio grande, pieno di alberi da frutta. E una nonna piena d’amore e una madre e un padre pieni d’amore, e dei fratelli, e un paesino di campagna sulla riva del fiume”.

Povero, però felice. Un messaggio dirompente, di orgoglio, ma anche di lotta, per dire che chi crede in un mondo giusto, condivide sempre quel poco che possiede e non quel che gli avanza. Così insegna Cuba: la Cuba di Fidel, con cui Chávez si è formato, e che lo ha accompagnato fino all’ultimo, e lo ha pianto.

Povero, sì, ma non rassegnato, perché cosciente che sono le classi popolari a produrre una ricchezza di cui non possono godere nel sistema capitalista, basato sul privilegio di pochi. E che bisogna cambiare le cose, anche sacrificando la propria vita.

Chávez ha dedicato la vita alla costruzione di una Venezuela socialista, basata sulla democrazia partecipata e protagonista. Il suo viaggio è iniziato nel pieno del Novecento a Sabaneta, il 28 luglio del 1954: un anno dopo l’assalto alla Caserma Moncada, il 26 luglio del 1953, guidato da Fidel Castro a Cuba. Un mese prima che, il 27 giugno del 1954, si verificasse il colpo di stato in Guatemala contro il presidente Jacobo Arbenz. Quasi un mese dopo che, il 15 agosto del 1954, prendesse avvio in Paraguay la lunga e sanguinosa dittatura di Alfredo Stroessner. Il 24 agosto di quello stesso anno, si produce il golpe in Brasile e si suicida Getulio Vargas. Qualche mese prima, il 7 maggio del 1954, c’era stata la capitolazione dell’esercito francese a Dien Bien Phu, in Indocina. E qualche giorno prima che Chávez nascesse, era finita la guerra di Indocina con la vittoria di un paese fino ad allora colonizzato, il Vietnam. E, alcuni mesi dopo, il 1° novembre del 1954, sarebbe cominciata la guerra d’Algeria. E un anno dopo, il 18 aprile del 1955, ci sarebbe stata la celebre Conferenza di Bandung, in Indonesia, che ha visto nascere i concetti di “terzo mondo” e di “non allineati”. La grande storia, quella che “assorbirà” il Comandante, come spiegherà a Ignacio Ramonet nel libro Mi primera vida, nel quale il giornalista spagnolo mette in contesto la nascita del “bambino povero di Sabaneta”. Certo, dice Chávez, quando uno nasce è come un vitello o un passero, incosciente. In seguito, però, può diventare cosciente, oppure no. “Nel mio caso – spiega – prendendo come ancora la celebre frase di Fidel, La storia mi assolverà, pensando alla storia e alla vita, quando ero piccolo, se avessi avuto coscienza, avrei potuto dire: La storia mi assorbirà. L’uragano della storia mi ha risucchiato”, spiega ancora Chávez, citando Bolivar e attirando il lettore con il suo linguaggio poetico e incisivo, come un uragano.

L’uragano Chávez ha assorbito la grande Storia per riportarla al presente, anche dopo la caduta dell’Unione Sovietica, quando sembrava che la bandiera del socialismo dovesse essere sepolta per sempre. Nel concetto di “socialismo del secolo XXI” ha messo insieme, nella pratica e nella sperimentazione del “laboratorio bolivariano” un corpus di idee innovative, sostanziate dalla storia del movimento operaio internazionale, e accresciute da una rinnovata coscienza anticoloniale.

Negli anni in cui dilagava la filosofia post-moderna, che riduceva l’oggettività a racconto e la verità storica a opinione, Chávez narrò la storia come un racconto, ma in cui il narratore non era che una voce collettiva, al servizio degli interessi generali. In questo modo, con umore e poesia (“la rivoluzione è amore e umore”, diceva), ricostruì una nuova mitologia popolare, nella quale identificarsi, fuori dagli eroi borghesi e dalla distruzione della memoria storica che si andava imponendo.

Fu un grande comunicatore e pedagogo, un veicolo di simboli che hanno unito e animato quelle masse con cui si sentiva profondamente identificato in una visione dell’avanguardia che ha preteso coniugare il Cristo delle origini, Bolivar, il Che Guevara e anche un po’ di Lenin: “Come sempre – disse – c’è la massa del popolo, e io mi getto sulla massa, mi abbraccio con lei, sudo con lei, piango con lei, e mi ritrovo. Perché lì sta il dramma, lì sta il dolore, e io voglio sentire quel dolore, perché solo quel dolore, unito all’amore che uno sente, ci darà la forza per lottare mille anni se ci fosse da lottare”.

Fu un gran lettore fin da piccolo. Dalla sua prima enciclopedia, trasse un’esortazione che lo accompagnerà per tutta la vita e che ha saputo trasmettere al suo popolo, costantemente: “Pensa!”, dicevano quelle pagine. “Pensa!”, disse sempre il Comandante, “non rimanere lì come un albero, che non pensa. Il pensiero è fondamentale per capire quel che si sta vivendo, per non passare per questo mondo come una nube che passa”.

Per questo, nei suoi racconti, il ritrovamento di libri forniva la chiave per aprire il passato e per capire il presente: libri che riempiono cofani di macchine, lasciati in montagna da guerriglieri uccisi, o zaini trasmessi di padre in figlio, di fratello in fratello. Per parlare dell’importanza di Ezequiel Zamora, che passò per Sabaneta nel maggio del 1859, gridando: “Terra e uomini liberi”, Chávez parla del ritrovamento del libro “Tiempo de Ezequiel Zamora”, del rivoluzionario Federico Brito Figueroa, nel cofano di una vecchia Mercedes Benz, abbandonata nelle montagne della Marqueseña. Una zona di scontri fra esercito e guerriglia, dove si trovano ancora molte tombe sconosciute di rivoluzionari torturati e uccisi. Caduti combattendo contro le democrazie camuffate della IV Repubblica.

Chávez, nel pieno degli anni ’70 aveva avuto un contatto con Bandera Roja mediante suo fratello Adán, volendo raccogliere l’invito del Che di costruire “uno, due, mille Vietnam”, ma poi scelse di continuare la sua battaglia bolivariana all’interno dell’esercito, senza però mai essere un repressore. Diventò, anzi, un punto di riferimento per quei contadini poveri e per gli indigeni senza diritti, che lo sosterranno a piene mani nell’elezione del dicembre 1998, e poi nel varo della Costituzione bolivariana, che ne accoglierà le istanze di liberazione. In una delle prime interviste rilasciata a José Vicente Rangel all’uscita dal carcere di Yare, dopo la ribellione del 4 Febbraio 1992, racconterà di come avesse nascosto per anni il Libretto Rosso di Mao. Un insegnamento che, insieme a quello di Ho Chi Minh e della “guerra di tutto il popolo”, verrà rinnovato nello statuto del Partito Socialista Unito del Venezuela (Psuv), fondato nel 2007.

“Se uno di noi due, a un certo punto, per qualche ragione, cade sul ciglio della strada, è dovere dell’altro prendere il suo zaino e gettarselo sulle spalle e continuare”. Nei giorni del funerale, Adán, il fratello più grande, che aveva orientato il cammino del Comandante, raccontò l’episodio e assicurò commosso: “L’ho ripreso, Hugo. Ce l’ho qui, il tuo zaino. Viva Chávez!”

Chávez, il cimarrón, riportò a questo secolo il coraggio di Petión, che consegnò a Bolivar la spada liberatrice di Haiti, dandogli armi e appoggio nella sua lotta per l’indipendenza. Chávez, l’indio ribelle, risvegliò le gesta del cacique Guaicaipuro per riempire di storia gli angoli più nascosti del Venezuela. Chávez, il femminista, l’8 marzo del 2002, realizzò la cerimonia di incorporazione simbolica dell’eroina dell’indipendenza, Josefa Camejo al Panteon nazionale.

Il 5 luglio del 2010, a 199 anni dalla dichiarazione d’Indipendenza del 1811, portò al Panteon i resti simbolici di Manuelita Sáenz, politica e militare ecuadoriana, conosciuta come la “Libertadora del Libertador”. Cinque cadette portarono il feretro di “Manuelita” e lo consegnarono al presidente Chávez e al suo omologo ecuadoriano di allora, Rafael Correa.

I due presidenti lo posero su un ripiano colmo di rose rosse dove una targa con i nomi di Chávez e Correa e la data del 5 di luglio accompagna i versi di Pablo Neruda dedicati a Manuela Sáenz: “E l’amante nella sua cripta tremerà come un fiume”. Correa mise in evidenza come Manuelita fosse “un’attivista politica molto prima di conoscere Bolivar e molto dopo la sua morte. Ricordò la sua capacità di sfidare le convenzioni dell’epoca, “vestendosi da uomo e cavalcando con maggior destrezza degli uomini, ribelle e combattiva”.

E Chávez disse: “Se a Bolívar lo chiamiamo il padre della patria, a te, generala, ti chiamiamo la madre della patria, la madre della rivoluzione. Grazie, Manuela, grazie per ritornare, ti riceviamo in questa era Bicentenaria nella quale abbiamo ripreso il cammino, facendo la rivoluzione nella nostra America: in Venezuela, in Ecuador, in Bolivia…”

Una politica continuata con il presidente Nicolas Maduro, che, accompagnato dall’allora presidente del Parlamento, Diosdado Cabello, nel 2015, porterà al Panteon i resti simbolici della rivoluzionaria indipendentista Juana La Avanzadora, la prima eroina afro-discendente a essere sepolta nel tempio dei precursori.

Chávez l’internazionalista, l’antimperialista, capace di farsi ascoltare anche da quei movimenti “altermondialisti” che non volevano avere niente a che fare con “il potere”. Il suo discorso a Porto Alegre, nel gennaio del 2003, fece storia, inaugurando la consuetudine di far precedere i vertici ufficiali dal vertice dei movimenti, dalle proposte elaborate nel corso delle lotte del continente. “Qui si sta costruendo un’alternativa al modello neoliberista e selvaggio che minaccia di distruggere il nostro pianeta – disse Chávez -. Se noi non la facciamo finita con il neoliberismo, il neoliberismo la farà finita con noi e con il futuro del mondo”.

Quello rappresentato dal Comandante, non era, infatti, il potere gerarchico dei “gorilla”, come pretendeva la propaganda mediatica, né quello della democrazia rappresentativa borghese, ma il potere popolare, quello della democrazia “partecipativa e protagonista”, avviato e messo in forma dalla costituzione bolivariana. Una carta magna avanzatissima, che ancora oggi viene presa a esempio dalle classi popolari che, in America Latina, cercano di scalzare i vecchi assetti di potere, e ne fanno una rivendicazione sostanziale; oppure viene presa a spauracchio dalle classi dominanti, che temono il ritorno del socialismo.

E proprio l’appello al potere originario, il ricorso a un’Assemblea Nazionale Costituente, ha consentito al presidente Maduro di riportare la pace nel paese, il 30 luglio del 2017. Grazie a quella scelta, compiuta nel segno di Chávez, terminarono le violenze dell’oligarchia al soldo di Washington: quegli stessi burattini che cercarono di eliminare il Comandante, ma che non vi riuscirono, così come non ci riuscirono con l’operaio Maduro, indicato da Chávez come suo successore. E continueranno a perdere, per volontà del pueblo che ha “moltiplicato” Chávez.

In occasione di un 26 luglio, ricordando l’assalto alla Caserma del Moncada, a Cuba, e le parole di Fidel (“La storia mi assolverà”), Chávez, modesto come sempre, disse: “Fidel Castro ha avuto ragione, e già è stato assolto dalla storia, ma io no! Magari questo umile soldato, contadino che io sono, un giorno possa essere assolto dalla storia, dai popoli, essere all’altezza della speranza e dell’amore di un popolo”.

La risposta l’hanno già data i popoli, l’ha già data la storia della rivoluzione bolivariana, che resiste da 25 anni. Per questo, ricordare Chávez non è perpetrare il culto di un uomo, il “culto della personalità” da cui i rivoluzionari e le rivoluzionarie rifuggono, ma celebrare e moltiplicare le impronte che la sua azione ha seminato nel mondo.

Geraldina Colotti

Geraldina Colotti

Giornalista e scrittrice, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali. È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.

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