Trump e la deportazione di palestinesi: le implicazioni per Iran, Cisgiordania e Arabia Saudita

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Trump e la deportazione di palestinesi: le implicazioni per Iran, Cisgiordania e Arabia Saudita



di Davide Malacaria - PICCOLE NOTE 



Nella conferenza stampa congiunta con Netanyahu, in visita negli Usa, Trump ha reso ufficiale quanto aveva in precedenza: i palestinesi verranno espulsi da Gaza e gli Stati Uniti prenderanno il controllo della Striscia. Mai un crimine contro l’umanità (pulizia etnica) era stato dichiarato in maniera così pubblica da un presidente degli Stati Uniti. Trump non maschera la brutalità propria dell’esercizio del potere imperiale.

La bomba sulla tregua

I palestinesi, chiaramente, hanno reagito con legittima indignazione a tale prospettiva, che peraltro rischia di far collassare la fragile tregua di Gaza che proprio ieri entrava nella seconda e decisiva fase in cui le parti tratteranno del ritiro israeliano e del futuro dalla Striscia e Hamas procederà alla liberazione dei restanti ostaggi.

Ma, mentre Hamas annunciava di essere pronto al nuovo round di negoziati, Trump sganciava una bomba nucleare su di essi. Infatti, la richiesta del ritiro dell’esercito israeliano da parte della milizia islamica aveva come sottinteso che Gaza restasse ai palestinesi. L’improvvida dichiarazione di Trump nega tale opzione.

I danni di tale dichiarazione sono, dunque, non solo di prospettiva, ma anche immediati. Il rischio è che Hamas si ritiri dalle trattative e riprenda la mattanza di Gaza. Per ora Hamas si è limitata a chiedere a Trump di ritrattare e agli Stati arabi di far pressioni sul loro alleato, ma il futuro è incerto.

La prospettiva di Trump è folle: i palestinesi non se ne andranno con le buone. E se non assisteremo a vagoni blindati carichi di deportati è solo perché non ci sono ferrovie a Gaza. In alternativa, potremmo vedere i soldati spingere i poveri disgraziati sugli appositi autobus.

Sempre che ci sia chi accolga tali convogli della disperazione. L’Egitto e la Giordania, Paesi citati da Trump, hanno rifiutato. Né si vedono all’orizzonte Stati disposti a farsi carico dei palestinesi e di tali crimini.

Certo, come spiegava Jack Khoury su Haaretz, Trump ha leve per piegare Egitto e Giordania, da cui la necessità che il “no” sia accompagnato da alternative. Ma la deportazione di un milione e ottocentomila palestinesi è qualcosa di così enorme che quel “no” è un macigno difficile da spostare.

To Counter Trump's Threats to Expel Palestinians From Gaza, Arab States Must Take Initiative

La resistenza

C’è poi il problema della resistenza armata. La deportazione di massa, a stare alle parole del presidente, andrebbe in parallelo con lo sgombero delle macerie e la ricostruzione di Gaza. Impresa affidata alla sorveglianza dei soldati americani, che quindi diverrebbero bersaglio degli attentati della resistenza, che rischia di durare a lungo.

La deportazione, infatti, farebbe nascere un irredentismo nuovo: l’aspirazione alla patria palestinese rimarrebbe nella diaspora, alimentando una resistenza, armata e non, molto più dura dell’attuale, perché ancora in parte sedata dall’attesa di una patria palestinese.

Tante le incognite delle improvvide dichiarazioni di Trump che è legittimo chiedersi perché si sia esposto tanto. Certo, le sue posizioni pro-Israele durante il conflitto erano chiare, anche se in campagna elettorale le aveva accompagnate con appelli per il cessate il fuoco.

È ovvio che doveva accontentare la destra ebraica per riceverne supporto alla sua politica. Ma tale cedimento innesta una variabile impazzita nella “rivoluzione del buon senso” – come ha definito la svolta prodotta dalla sua vittoria – rischiando di compromettere tutta la sua agenda votata a mutare la competizione militare su scala globale (diretta o tramite regime-change) in competizione commerciale. Perché insieme al Medio oriente rischia di incendiare il mondo.

Sui media israeliani, il giubilo della destra messianica, ma anche scetticismo. Inutile accennare alla riprovazione di diverse note di Haaretz, più utile riferire l’allarme di Lazar Berman sul Timesofisrael nell’articolo dal titolo: “Il piano di Trump per Gaza non si concretizzerà, ma può di certo sconvolgere la regione”.

Trump’s Gaza plan won’t happen, but it could certainly shake up the region

Scettica anche Einav Halabi su Yedioth ahronoth che riporta la battuta di Trump “sulle bellissime spiagge” della Corea del Nord al tempo in cui cercava di fare la pace con Pyongyang, così simile alle parole profuse per le spiagge di Gaza, commentando come il naufragio del processo di pace nordcoreano sia un promemoria per l’attuale piano sulla Striscia.

Detto ciò, di interesse la nota di Alon Pinkas su Haaretz, secondo il quale Trump ha straparlato di un piano irrealistico, illogico e impossibile, atto solo a distrarre. “Cosa ha ottenuto Netanyahu dal suo viaggio a Washington? – conclude – Qualche giorno di tregua per i sostenitori della sua coalizione, durante i quali può cercare di convincerli che Trump ha dimostrato che permetterà a Israele di riprendere la guerra. E Trump l’ha fatto? No”.

Impractical, Incomprehensible, Illegal: Trump Traps Netanyahu and Sows Chaos With U.S. Takeover Plan for Gaza


Iran e Cisgiordania

Resta grande l’incertezza sulla Cisgiordania, dove Israele sta dispiegando una feroce campagna militare. Per ora Trump si è limitato a battute in cui sembra adombrare il suo favore per l’annessione da parte di Israele.

Ma il Jerusalem Post nel riferire che sulla questione si pronuncerà tra quattro settimane, rivela che “in recenti colloqui a porte chiuse” Trump ha detto “che l’annessione della Cisgiordania era fuori discussione”. Da vedere resterà su tale posizione. Un’opzione potrebbe essere la cessione di Gaza a Israele in cambio di uno Stato palestinese in Cisgiordania, ma ad ora appare irrealistica.

Trump: US will announce position on West Bank annexation over next four weeks

Infine, il nodo Iran, sul quale Netanyahu probabilmente avrà fatto pressioni su Trump, dal momento la guerra contro Teheran è per lui ossessione maniacale. Sembra che sul tema ci sia discordia tra i due.

Infatti, se è vero che Trump ha dato al suo interlocutore una piccola soddisfazione, firmando un decreto che rinnova la massima pressione contro Teheran, è pur vero che ha ribadito di non volere la guerra, ma un “accordo immediato” con l’Iran.

Lo riporta il Timesofisrael, che in altro articolo, titola: “L’Iran accoglie con favore i tagli agli aiuti esteri di Trump mentre entrambe le parti accennano ai negoziati sul nucleare”. Così il sottotitolo: “Nonostante le parole dure, i leader degli Stati Uniti e dell’Iran lasciano la porta aperta ai negoziati mentre Trump taglia i finanziamenti” agli “attivisti pro-democrazia”.

Iran welcomes Trump’s foreign aid cuts as both sides hint at nuclear negotiations

Netanyahu non si accontenterà della massima pressione. Ed è più che probabile che la decisione di restare negli Usa fino a sabato discenda proprio dalla necessità di cercare sponde alla sua guerra.

Insomma, resta la discordia tra i due politici, al di là delle pubbliche manifestazioni di affetto. Un affetto che Netanyahu ha dimostrato regalando a Trump un cercapersone, in ricordo dell’operazione israeliana contro Hezbollah, con Trump pronto a lodare dono e ricordo annesso. Regalo bizzarro anche perché la battuta “vuoi un cercapersone?” in questi mesi è stata percepita come una velata minaccia da alcuni destinatari della stessa.

Le dichiarazioni scioccanti di Trump sullo sfollamento di Gaza sono al centro della riprovazione internazionale. Tutti i Paesi del mondo, tranne Israele, hanno condannato le parole di Trump, successivamente stemperate, ma non nella sostanza, dal suo inner circle, che ha escluso gli stivali sul terreno dei soldati americani e aggiunto che lo spostamento dei palestinesi sarebbe solo temporaneo (un temporaneo-definitivo).

L’Arabia Saudita

La presa di posizione più importante è quella dell’Arabia Saudita, sia per la sua importanza regionale sia perché gli Accordi di Abramo, cioè la normalizzazione dei rapporti tra mondo arabo e Israele, dipendono dalla sua adesione.

Ed è sulla riuscita di tali accordi che Tel Aviv punta per espandere la sua influenza regionale e globale. Così è di grande interesse il durissimo, quanto insolitamente lungo, comunicato di Riad, che ha ribadito come “La creazione dello Stato palestinese è una posizione ferma e incrollabile” del Regno.

“Sua Altezza [il principe ereditario e primo ministro Mohammed bin Salman] ha affermato questa posizione in modo chiaro ed esplicito che non consente alcuna interpretazione in nessuna circostanza”.

“Sua Altezza ha sottolineato che il Regno dell’Arabia Saudita non interromperà il suo instancabile impegno per la creazione di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale e il Regno non stabilirà relazioni diplomatiche con Israele senza di esso”.

“Il Regno dell’Arabia Saudita sottolinea inoltre il suo rifiuto categorico, precedentemente annunciato, di qualsiasi violazione dei legittimi diritti del popolo palestinese, sia attraverso le politiche di insediamento israeliane, l’annessione dei territori palestinesi o i tentativi di sfollare il popolo palestinese dalla sua terra”.

Ieri avevamo accennato a come anche in ambito israeliano si siano registrate proteste, e commenti negativi, e più che negativi,  come negativamente hanno reagito diverse comunità ebraiche americane, tra le quali il moderato American Jewish Committee.

Analysis: Trump’s Gaza relocation plan signals shift in Jewish political influence

Opposizioni anche in ambito Maga, con Rand Paul, esponente di spicco del movimento, che ha dichiarato: “La ricerca della pace dovrebbe riguardare sia gli israeliani che i palestinesi. Pensavo che avessimo votato per America First”.

Trump ipnotizzato?

Si è saputo che l’intemerata di Trump è stata sollecitata dal nefasto genero Jared Kushner, che già in passato aveva espresso idee simili, come scrive Dave DeCamp su Antiwar ricordando la solida amicizia tra Kushner e Netanyahu.

 Jared Kushner Behind Trump’s Call for the US To ‘Take Over’ Gaza

Secondo DeCamp, Trump sarebbe rimasto folgorato dall’idea del genero, una interpretazione simile a quella di Mk Bhadrakumar che su Indianpunchline scrive che sia Trump che l’inviato Usa per il Medio oriente, Steve Witkoff, due immobiliaristi, siano stati “ipnotizzati” dalla visione del mare di Gaza e dei resort che potrebbe ospitarvi.

Netanyahu entraps Trump in a quagmire

Corollario non secondario di tale follia, l’inversione di rotta sul Medio oriente: se come leader Maga Trump aveva detto di volersi ritirare dalla regione, da presidente sembra aver cambiato posizione, come denoterebbe anche il rilancio della massima pressione sull’Iran.

“L’immaginazione di Trump sta impazzendo – commenta Bhadrakumar –  completamente scollegata dalle realtà più basilare. C’è il rischio reale che tale ingenuità prima o poi gli esploda in faccia […]. Ha tutte le carte in regola per diventare un pantano per l’amministrazione Trump”. Netanyahu, dunque, avrebbe “intrappolato Trump” in un pantano in stile Vietnam, come da titolo della nota dell’ex ambasciatore indiano.

Di opposto avviso Alon Pinkas, ex ambasciatore di Israele negli Usa e cronista di Haaretz, il quale ha ribadito che lo scopo della visita di Netanyahu negli Usa era quello di mandare all’aria il cessate il fuoco e riprendere il genocidio di Gaza. Da questo punto di vista la missione non è riuscita (per ora).

Despite Shocking Gaza Plan, 'Netanyahu Didn't Get Anything He Wanted in His Meeting With Trump'

“Anche se si prende alla lettera quanto ha detto Trump e si pensa [al controllo Usa su Gaza] come a un piano fattibile o praticabile, il cessate il fuoco deve proseguire affinché ciò accada”.

“Quando guardi la sitcom che ha avuto luogo alla Casa Bianca martedì – ha chiosato – c’è stato qualche accenno alla normalizzazione con i sauditi che ricordate? Non c’è stato. C’è stato qualche accenno a un attacco all’Iran? Non c’è stato. C’è stato qualche riferimento al fatto che Trump abbia capito che gli israeliani devono annientare completamente Hamas dopo 16 mesi di guerra? Non c’è stato”.

Insomma, secondo Pinkas un presidente americano “all’apice del suo potere” avrebbe semplicemente preso in giro Netanyahu. Interpretazione opposta rispetto a quella letterale, ma potrebbero conciliarsi.

Il prestigiatore e il Mago

Trump non è il padrone del mondo e in America il sostegno alle mire espansionistiche di Israele è condiviso da gran parte dei repubblicani e dei democratici – come si è visto durante l’amministrazione Biden – ambiti che hanno grande influenza in tutti i settori del potere Usa.

Con la sua formula magica, quanto irrealistica, Trump ha guadagnato tempo per poter prolungare la tregua, nella speranza di riuscire nel frattempo a trovare un modo per uscire dal cul de sac.

Lo ha accennato, in altro modo, il Consigliere per la Sicurezza nazionale Mike Waltz, il più importante consigliere di Trump, in un’intervista alla CBS, il quale “ha ipotizzato che il piano di Trump in realtà potrebbe essere stato solo quello di stimolare nuove idee nelle controparti arabe su come ricostruire Gaza” (dal Timesofisrael).

Trump’s Gaza takeover pitch is aimed at reeling in Riyadh, but will Saudis bite?

“Nessuno ha una soluzione realistica – ha dichiarato Waltz – lui mette sul tavolo alcune idee nuove, fresche e audaci… ciò porterà l’intera regione a trovare le proprie soluzioni se la soluzione di Trump risultasse sgradita”.

L’ambiguità di Trump spiegherebbe l’ostilità di Netanyahu, simboleggiata dal cercapersone d’oro regalato al suo anfitrione. Sul senso di tale regalo abbiamo già accennato, con conferma successiva di Chris Menaham, che su Information Liberation scrive: “Trovo difficile credere che Trump possa intendere un simile ‘dono’ come qualcosa di diverso da una minaccia”.

Un cenno che Menaham spiega raccontando come in questi giorni Batar Us, un’organizzazione sionista americana, stia minacciando persone che ritengono ostili a Israele regalando loro dei cercapersone (cenno che riecheggia minacce analoghe subite dal giornalista del New York Times Peter Beinart, raccontate da Haaretz).

Report: Netanyahu Gave Trump Golden Pager as a 'Gift' Chris Menahan

Sul punto, Menaham riporta anche l’intervento di Jonathan Greenblatt alla Knesset israeliana di alcuni giorni fa, in cui del Ceo dell’Anti defamation league spiegava come il “genio” che ha dato vita all’attacco con i cercapersone sia ora necessario per combattere l’antisemitismo…

Insomma, Trump deve navigare tra Scilla e Cariddi ed è probabile che lo sfollamento di Gaza sia solo un gioco di prestigio per svicolare dalla stretta di Netanyahu, nella speranza di trovare col tempo una qualche quadra alla tragedia mediorientale usando di sponde esterne.

Resta che se lui è un prestigiatore, Netanyahu è un mago ed è in grado di sfruttare qualsiasi appiglio per i suoi fini. Lo denota il fatto che il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha già dato mandato all’esercito di organizzare piani per consentire lo spostamento “volontario” dei palestinesi.

Insomma, anche se fossero state dettate dalla necessità di uscire da una costrizione, Trump potrebbe rimanere vittima delle sue stesse esternazioni. A farne le spese sarebbero anzitutto i palestinesi, sul cui tragico destino incombe ancora il buio.

Il cercapersone regalato da Netanyahu a Trump, con base in legno che simula un’esplosione

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