Università e movimenti, le nuove sfide del sapere. Intervista a Marco Morra
Università e Movimenti. Teorie e pratiche politiche tra il ’68 e l’oggi. Questo il titolo di un volume collettaneo, edito dalla Città del Sole, che propone una riflessione sul rapporto fra teoria e politica alla luce dei temi che più interrogano il pensiero critico nel presente di un mondo globalizzato. I numerosi contributi, di orientamento multidisciplinare ma a carattere prevalentemente storico-sociologico, danno conto di un percorso collettivo, avviato nel 2018. Un progetto che ha coinvolto ricercatori, studenti, attivisti, gruppi di ricerca e collettivi di diversa provenienza, “in una comune riflessione alla luce delle soggettività emergenti”. Ne abbiamo parlato con Marco Morra, uno dei tre curatori insieme a Anna Pia Ruoppo e Irene Viparelli.
Perché partire dal ’68? Quanto pesa l’eredità del secolo scorso per un giovane ricercatore che non ha conosciuto quella temperie?
Per rispondere a questa domanda è necessaria una premessa. All’origine del percorso che ha portato alla pubblicazione di questo volume c’è una esigenza collettiva di senso. Cosa è diventata l’università neoliberale e cosa, in essa, la ricerca nell’ambito delle scienze sociali? Ormai da qualche decennio assistiamo alla generalizzazione di condizioni di lavoro e di esistenza nel mondo accademico che alienano i ricercatori dal proprio e dall’altrui lavoro e dai problemi generali del proprio tempo, rendendo impossibile all’interno dell’università la produzione di un sapere critico. I fattori che hanno determinato questa situazione sono molteplici. Innanzitutto la crescente subordinazione della ricerca e dell’insegnamento a logiche produttivistiche e concorrenziali motivate da criteri di finanziamento vincolanti e selettivi, che costituiscono un ostacolo materiale difficilmente sormontabile alla programmazione autonoma degli obiettivi della ricerca e alla cooperazione reale tra docenti e ricercatori. In secondo luogo, l’estensione di criteri di valutazione e di classificazione positivistici ai prodotti della ricerca sociale e, in special modo, alle riviste delle aree non bibliometriche, che attribuiscono titolo di “scientificità” non già secondo i contenuti e le finalità perseguite, ma secondo fattori di prestigio e d’impatto meramente formali. Infine, le codificazioni formali del lavoro accademico, che rispondono alle esigenze di produttività e titolarità scientifica e costringono i ricercatori alla specializzazione settoriale e a una presunta “neutralità della scienza” che stigmatizza l’impegno politico e civile come sinonimo di inaffidabilità e subordina di fatto la produzione accademica agli assetti di potere esistenti. Queste condizioni ci obbligano ad agire al di fuori degli spazi e dei codici accademici per esercitare una autonomia di fatto sulle scelte, gli obiettivi e i modi del nostro lavoro culturale. La dimensione sociale del sapere e la sua autonomia da criteri formali, selettivi e concorrenziali di valutazione e finanziamento sono le premesse minime per l’esercizio di una funzione critica delle scienze sociali. A partire da queste considerazioni, in questo volume abbiamo voluto dar forza all’idea che sia necessario – metaforicamente – uscire dalle università per stare nei movimenti. Ovvero, impegnarsi a teorizzare la prassi e a praticare la teoria in ciò che si muove nella realtà sociale, affinché la produzione teorica si faccia critica dell’esistente.
Ora, cosa c’entra tutto questo con il ’68? Come punto d’inizio della nostra ricerca ci è sembrato opportuno rivolgerci all’ultima fase storica nel corso della quale si è posto il problema del rapporto teoria-prassi in termini concreti e operanti. Il ’68 è l’immagine simbolica, il momento forse più significativo di quella fase, che rimanda a un ciclo di lotte, contestazioni, mobilitazioni durato un ventennio e che ha prodotto una rottura innanzitutto epistemologica con l’ordine costituito. Il lungo ’68 italiano è stato attraversato da una rivendicazione permanente di autonomia e dal rifiuto radicale delle condizioni alienanti del vivere e del lavorare, tanto nelle fabbriche quanto nelle scuole e nelle università. Problematiche analoghe a quelle che ci interrogano oggi sono state affrontate da una generazione di intellettuali e di studenti che insorgeva contro le condizioni della propria massificazione e contro la subordinazione del lavoro intellettuale e della formazione ai fini e alle esigenze di profitto del capitalismo.
Come si può articolare il sapere alle “pratiche politiche e sociali”, come voi dite, se i luoghi deputati al sapere diventano sempre più chiusi e impermeabili a una realtà comunque non proprio stimolante quanto a critica dei paradigmi dominanti?
Affinché il lavoro scientifico e culturale si eserciti secondo una dinamica critica e non alienata si tratta innanzitutto di adottare una prospettiva di emancipazione, di superamento delle condizioni materiali di questa alienazione, e quindi di assumere come oggetto di analisi e di elaborazione i problemi posti dal movimento degli attori di questa emancipazione e delle contraddizioni sociali che li riguardano. L’oggetto del nostro libro non sono le classi o i movimenti sociali, ma i punti più alti dei processi di soggettivazione rivoluzionaria, intesi come processi di riappropriazione autonoma della politica da parte delle classi subalterne: processi che si sedimentano in collettivi, gruppi e reti di attivisti e militanti, da cui possono emergere prospettive di trasformazione dell’esistente, nuove pratiche di democrazia e forme embrionali di potere dal basso. È stata una scelta di campo per delimitare il lavoro; ma anche una scelta di metodo: la ricettività dell’intelligenza collettiva che nasce dalle comunità in lotta informa una teoria concretamente, non astrattamente, “critica”. Per questo nel nostro libro abbiamo posto il problema dell’articolazione del sapere alle pratiche e ai contenuti antagonisti delle soggettività rivoluzionarie emergenti. Da qui l’importanza attribuita nel nostro lavoro all’inchiesta, come oggetto di studio, ma soprattutto come pratica teorica e pratica politica, su cui interviene nel volume Andrea Cavazzini con una interessante interpretazione della funzione teorica nel Che fare? di Lenin. L’inchiesta è una pratica di conoscenza della realtà sociale dal punto di vista delle classi subalterne, quindi pratica di registrazione di un sapere prodotto dai soggetti inchiestati in determinate situazioni e produzione di sapere da parte degli inchiestanti, ma è anche pratica di trasformazione reciproca tra inchiestati e inchiestanti tramite l’appropriazione di elementi di conoscenza eccedenti rispetto agli spazi sociali da cui provengono, e in quanto tale ha una funzione politica. D’altra parte, mentre si svolgevano gli incontri per la preparazione del convegno e del volume, abbiamo avuto un saggio dell’operatività politica dell’inchiesta come pratica di conoscenza nella vertenza degli operai della Whirlpool di Napoli. Dalle inchieste condotte da Potere al Popolo alla ex Whirlpool di Amiens, alla Ex Embraco di Riva di Chieri e alla Blutec di Termini Imerese sono emersi elementi di strategia fondati sulla conoscenza dei processi di delocalizzazione e di ristrutturazione che hanno consolidato la coscienza operaia strutturando per molti mesi il “no” alla riconversione.
Ciò detto, se la teoria marxista – oggi sclerotizzata in schemi discorsivi ritualizzati – deve ritornare alla materialità dei rapporti sociali, servendosi degli strumenti di analisi delle moderne scienze sociali e della pratica dell’inchiesta, questi ultimi restano insufficienti alla produzione di una linea politica scientificamente fondata. In alcuni scritti degli anni Settanta, Althusser sostiene che l’organizzazione non è altro che lo strumento che realizza la linea politica e che quest’ultima dipende dall’analisi concreta della situazione concreta. La linea politica, quindi, non è il prodotto del partito, ma ha un primato e una precedenza sul partito. Chi produce, dunque, questa linea? Lo spiega Fabrizio Carlino nel suo saggio: per Althusser la linea sembra rimanere il prodotto di teorici marxisti e dirigenti politici. Secondo Althusser, infatti, l’analisi concreta della situazione concreta è una figura della cognizione della “tutto” e non può coincidere con la coscienza immediata del “lavoratore al lavoro”, cui rimane inaccessibile l'insieme delle connessioni causali che determinano la sua condizione. Ora, la dicotomia che Althusser individua tra una conoscenza empirica delle condizioni di esistenza e di lavoro e una conoscenza teorica dell’insieme si verifica oggi nella separazione tra la teoria marxista per come essa si presenta nelle università e i movimenti sociali e politici di sinistra. Infatti, le filosofie marxiste e le teorie critiche che si apprendono nelle università risentono di un idealismo secondario ammantato di principi materialistici, un idealismo che riflette la falsa coscienza di accademici privilegiati e separati dalle lotte di classe e che non va oltre l’affermazione di sé come sistema di concetti auto-consistente, dunque inservibile alla trasformazione dell’esistente. Accanto a questa falsa coscienza del “marxista d’accademia”, e forse proprio in reazione a essa, si è affermata invece nei movimenti l’idea secondo cui i processi politici sorgono dall’auto-movimento delle condizioni sociali immediate e che l’egemonia culturale delle classi dominanti sulle classi dominate – mediante quelli che Althusser chiamava gli apparati ideologici di Stato – non debba costituire l’oggetto di una pratica determinata. Secondo Althusser, invece, la verità è sempre in situazione, ma non è indifferente l’approccio all’analisi di questa situazione né il procedimento di elaborazione dei dati che si traggono da questa analisi. Ci si può fermare all’inchiesta che dà il punto di vista operaio, ovvero della parzialità; ma soltanto la teoria può fornire il punto di vista dell’antagonismo tra classi, ovvero della totalità dei rapporti (conflittuali e non) tra le diverse classi sociali e dei meccanismi di mistificazione di questi rapporti. Questa differenza cambia tutto dal punto di vista strategico. Anche l’inchiesta, quindi, come pratica che produce coscienza nell’indagine sulle condizioni operaie e nella connessione tra situazioni e lotte, deve essere teoricamente informata e riportata al movimento generale del capitale e alla strategia economica e politica della borghesia. Ovvero, ciò che l’inchiesta lascia escluso dal proprio orizzonte è l’analisi del nemico e delle sue armi. Una produzione teorica in grado di cogliere il modo specifico in cui si articolano le contraddizioni di una congiuntura, all’interno del tutto di una formazione sociale, è già prassi politica nella misura in cui rende possibile un’influenza concreta sulla direzione del movimento reale che abbatte lo stato di cose presenti.
Prendiamo ancora una volta l’esempio della vertenza Whirlpool, quali proposte concrete potremmo mai avanzare senza una conoscenza scientifica delle forme del capitale finanziario transnazionale, del suo rapporto con gli stati nazionali e dunque delle condizioni di agibilità economico-politica di uno stato nel mercato globale? Su questo piano, agitare astrattamente la parola d’ordine delle nazionalizzazioni non ha portato ad alcun risultato. Fino a quando dalla lotta stessa degli operai – degli operai della Whirlpool e soprattutto della GKN di Campi Bisenzio – non è emersa una nuova parola d’ordine: quella di una legge contro le delocalizzazioni. Ma anche questa resta uno strumento parziale, in mancanza di una strategia complessiva. Le questioni riguardanti le strategie del capitale, come la strategia economica adottata dal capitale finanziario transnazionale in questa congiuntura e le sue ricadute sulle politiche dei governi nazionali o l’applicazione delle moderne teorie dell’economia comportamentale al governo della popolazione (come la teoria del nudging di cui il green pass è una esatta applicazione) non possono essere affrontate per via sperimentale e richiedono l’utilizzo di strumenti di analisi e di elaborazione concettuale avanzati per poter anche soltanto comprendere la logica che c’è dietro le scelte della borghesia e del governo, denunciarla con cognizione di causa e opporvi una risposta adeguata sul piano nazionale e internazionale.
Alcuni saggi del volume trattano tematiche provenienti dall’America Latina quali il potere popolare o la democrazia partecipativa. Come maneggiarli nella realtà italiana?
Nel volume ci soffermiamo in particolar modo sull’esperienza rivoluzionaria che ebbe luogo in Cile tra il 1970 e il 1973 durante il mandato del Presidente socialista Salvador Allende. Ha ragione Marco Bazzan quando scrive nel suo saggio che la “lezione cilena” è ancora valida anche se ha smesso di produrre i suoi effetti sulla politica. Abbiamo deciso di parlare del Cile per fornire un esempio storico che potesse arricchire l’immaginario politico entro il quale si muove un soggetto, come Potere al Popolo, sensibile alle tematiche del poder popular. L’esperienza cilena ci insegna qual è il punto più alto raggiunto dal processo rivoluzionario in un paese occidentale, ovvero in un regime di democrazia rappresentativa. Dobbiamo chiarire, innanzitutto, che nel Cile di Salvador Allende il poder popular indica ogni forma di autorganizzazione operaia e popolare sorta al di fuori di sindacati, partiti e istituzioni di stato. Mentre il governo della coalizione di sinistra che prendeva il nome di Unidad Popular esercitava un potere esecutivo di fatto, pur non detenendo il potere legislativo, giurisdizionale e militare che restava in mano all’oligarchia e ai gruppi monopolistici. Nel progetto della Unidad Popular gli organismi di potere popolare erano immaginati come organici al progetto di governo popolare, ma va anche detto che l’iniziativa di questi eccedette spesso i limiti istituzionali, andando ben oltre la radicalità che i partiti di governo riuscirono ad esprimere. Il rapporto tra i due momenti – del governo e dell’auto-organizzazione – non è meccanico e varia a seconda delle congiunture e degli eventi storici. Per la stessa esperienza di Unidad Popular fu fondamentale la capacità delle masse di organizzarsi e mobilitarsi per difendere le proprie conquiste e sostenere l’attività del governo. In questo processo la dialettica tra il “governo delle sinistre” della coalizione di Unidad Popular e gli organismi di massa sorti nelle fabbriche, nelle campagne e nei quartieri popolari come organismi di “potere popolare” fu il motore dell’avanzamento di un processo rivoluzionario basato sulle riforme di strutture e sull’estensione dell’auto-organizzazione di massa con funzioni di controllo e di iniziativa dal basso.
La cosa davvero interessante è che un esempio simile si è riproposto in Grecia negli anni precedenti il referendum del 2015. L’esperienza cilena del 1970-73 e quella greca del 2015 ci ricordano che non c’è nessuna possibilità di avanzamento nelle istituzioni senza la forza del popolo espressa attraverso forme di auto-organizzazione e che questa forza va costruita come condizione preliminare di qualunque azione istituzionale efficace. E tuttavia non c’è una precedenza logica del momento popolare su quello istituzionale, il processo di emancipazione avanza nella loro dialettica. Per questo è importante oggi agire per costruire organismi di massa con funzioni d’iniziativa, azione e controllo dal basso e al contempo una rappresentanza politico-istituzionale che acquisisca capacità d’iniziativa anche sul terreno elettorale. Oltre a ciò, il Cile e la Grecia ci indicano ancora altro: ad esempio che in una democrazia rappresentativa si pone inevitabilmente il problema delle alleanze perché il meccanismo è tale che nessun partito bolscevico possa conquistare il consenso della maggioranza da solo. In prospettiva, dunque, la “marcia nelle istituzioni” e la “tattica delle alleanze” sono momenti centrali della strategia di conquista del potere in un paese democratico, ma a cui bisogna arrivare con una rete di contropotere consolidata nei quartieri, nelle scuole e nelle fabbriche, per non pagare il prezzo dell’impotenza e dell’inagibilità politica. Detto questo, oggi si pone un problema preliminare: quello degli spazi di agibilità di una forza popolare organizzata in una fase di assenza di mobilitazioni di massa e date le condizioni esistenti di frammentazione della classe lavoratrice.
Tu sei candidato alle amministrative a Napoli per Potere al popolo. Come valuti l’impegno tuo e di altri giovani intellettuali che sono scesi in campo anche in altre formazioni comuniste a sinistra del Partito Democratico? Cos’è che vi attira nella politica istituzionale rivolta ai territori e cos’avete da proporre?
Per quanto mi riguarda, la scelta di impegnarmi in prima persona sul terreno elettorale si inquadra in una analisi di fase e in una strategia più complessiva che mi ha portato ad aderire con convinzione al progetto di Potere al Popolo sin dall’inizio. Partiamo ancora una volta dal volume che ho curato con Ruoppo e Viparelli. Alcune delle esperienze che abbiamo preso in esame hanno attraversato l’ultimo decennio, segnato dalla crisi economica del 2008, dalle politiche di austerità e da un rinnovato slancio delle mobilitazioni sociali in Europa. Era per noi importante capire come queste soggettività fossero sopravvissute al brusco riflusso delle mobilitazioni di massa intervenute in questo decennio. A mio parere, il cosiddetto “momento populista” della sinistra, che ha raccolto una rinnovata spinta di massa canalizzandola verso la conquista del potere, si è concluso già da molti anni e non ha prodotto una efficace strategia rivoluzionaria, ponendo una serie di problematiche ancora irrisolte. Oggi, certamente, siamo in una fase in cui si è costretti a fare politica senza la forza delle masse, eppure non possiamo fare politica senza il consenso delle masse: la forza di un’avanguardia in una fase di riflusso è la sedimentazione in termini politico-operativi di questo consenso. Con questa contraddizione siamo costretti a fare i conti. Rispetto a ciò l’esperienza di Potere al Popolo assume un senso, mentre si sono esaurite definitivamente le esperienze dei collettivi autonomi e dei centri sociali, che possono agire come reparti organizzativi avanzati del conflitto sociale in fasi di larga mobilitazione di massa, ma in mancanza di questa non possono oggettivamente avere un ruolo poiché incapaci di raccogliere e tradurre operativamente il consenso delle masse inattive benché non necessariamente indifferenti. A mio parere, esperienze come l’Ex Opg di Napoli e il Catai di Padova hanno capito che se non si forzava sulla strada della rappresentanza politico-istituzionale difficilmente avrebbero potuto avere un ruolo. Oggi c’è bisogno di una rappresentanza istituzionale che dia voce e spazio agli interessi del vecchio proletariato industriale e del nuovo proletariato metropolitano, composto da migranti, lavoratori a nero, disoccupati, false partite iva, e altre figure del lavoro informale e precario. E questo vale ancora di più in una fase in cui il Governo guidato da Mario Draghi si presenta come l’esecutore di fatto delle indicazioni di Confindustria, dell’Unione Europea e della Nato, lasciando inascoltate le istanze dei sindacati confederali: dal decreto del 22 marzo 2020 sulla (non) chiusura delle attività non essenziali all’impossibilità per il Ministro del Lavoro di potenziare l’Ispettorato del Lavoro a fronte dei tre morti al giorno per incidenti sul lavoro diventati oggetto di dibattito pubblico in questi ultimi mesi, dallo svuotamento del disegno di legge contro le delocalizzazioni alla concessione di maggiori incentivi e sgravi fiscali alle imprese, il padronato detta l’agenda al Governo, i lavoratori rimangono senza una rappresentanza. Come uscire da questa situazione? Serve uno strumento che espliciti ed esponga la contraddizione capitale-lavoro agli occhi di tutte le classi. E questo strumento ha bisogno di una legittimità istituzionale che soltanto il consenso crescente delle masse può fornirgli.
Nel volume si trattano il tema del mutualismo[Marco Mor1] e quello del potere politico. Pensi sia possibile costruire una proposta forte a livello nazionale, capace al contempo di aggregare ma anche di aggredire senza infingimenti le contraddizioni, a partire da quella tra capitale e lavoro? In che modo e con quali alleati?
Parliamoci chiaro, il partito rivoluzionario del proletariato, come si diceva negli anni Settanta, non può essere che il risultato di un processo lungo, faticoso e paziente di ricomposizione politica delle classi subalterne che si avvale del movimento reale di queste stesse classi in lotta. Oggi questa ricomposizione non è un obiettivo che possiamo porci nell’immediato, le condizioni oggettive ce lo impediscono. Nondimeno, possiamo agire al livello molecolare per favorire la creazione di spazi di auto-organizzazione e di soggettivazione. L’assenza di mobilitazioni di massa non implica necessariamente l’impossibilità di articolare un “lavoro di massa”. Da dove cominciare? Quali sono gli spazi di agibilità di una forza popolare in una fase di assenza di mobilitazioni e date le condizioni esistenti di frammentazione della classe lavoratrice? Una prima risposta a questo problema è venuta dall’Ex Opg – Je so pazzo di Napoli. Di ritorno da un viaggio ad Atene, in occasione delle mobilitazioni per il “no” al referendum del 2015, un gruppo di militanti pensarono di riadattare le pratiche di mutualismo osservate in Grecia e di creare la prima Casa del Popolo. Come spiegano nei loro contributi Roberto Evangelista e Viola Carofalo, il mutualismo è una pratica politica perché valorizza l’agire collettivo finalizzato a un obiettivo comune, una via di costruzione della forza collettiva nella mobilitazione per l’ottenimento di un diritto o la soddisfazione di un bisogno da parte delle istituzioni, ma soprattutto un modo della ricomposizione del soggetto collettivo nell’attuale frammentazione sociale, attraverso il comune riconoscimento degli individui se non a una classe, almeno a una stessa condizione. Tuttavia il passaggio dal riconoscimento reciproco alla costruzione di un soggetto di potere non è meccanico. Non credo a tal proposito che il mutualismo possa bastare. In prospettiva c’è bisogno di costruire la capacità di opporre, al potere economico e politico costituito, un contropotere che abbia ben chiara la definizione del campo nemico e l’individuazione dei gangli vitali del sistema da colpire. Ritorniamo, dunque, ancora una volta alla funzione politica della teoria come capacità di analisi concreta della situazione concreta ed elaborazione strategica complessiva.
Per un altro verso, invece, si pone, come dici tu, il problema di “aggredire le contraddizioni” a partire da quella tra capitale e lavoro che oggi è massimamente visibile ed esplicita. Io credo che, a questo fine, si possa fare un uso rivoluzionario dello strumento elettorale, ma bisogna stare attenti. È il rapporto tra prassi elettorale e lotta politica il problema, nel senso della capacità di articolare il consenso alla forza e di condurre una lotta capace di polarizzare la società, radicalizzare il consenso e sostenere lo scontro di classe. Questo può essere fatto, ad esempio, attraverso campagne politiche che denuncino il governo e le classi dominanti, articolando azioni di forza da parte dell’avanguardia che vadano un passo oltre il livello di conflittualità di volta in volta espresso dalle classi subalterne e indicando alle masse perché e quali sono i loro nemici, aggredendo questi senza tregua e invitando quelle alla mobilitazione. In questa attività si può porre realmente, e non soltanto sul piano simbolico, il rapporto tra l’organizzazione del consenso e l’esercizio della forza. D’altra parte, dai fatti di Genova nel 2001 alle lotte del popolo catalano per l’indipendenza nel 2017, passando per le repressioni subite dai Gilets Jaunes in Francia, gli apparati dello stato non hanno esitato a mostrare in ogni paese democratico d’Europa il loro volto violento e repressivo in occasione di mobilitazioni e processi che mettevano seriamente in discussione l’ordine costituito e il potere delle oligarchie. In queste occasioni il consenso della popolazione diventa insufficiente, il rischio che si corre è di arrivare sempre impreparati a difendersi dalla violenza della reazione poiché non si è mai praticato prima il terreno della forza e della semi-legalità. D’altra parte c’è tutta una serie di rischi che le elezioni comportano legati al fatto che un partito elettorale deve essere un partito “credibile” agli occhi dell’elettorato. A mio parere, se cediamo alla minaccia di questa “credibilità” tutta istituzionale e borghese siamo perduti. Durante le elezioni viene naturale moderare i discorsi e le azioni, evitare le conseguenze in termini sanzionatori di pratiche semilegali come le occupazioni, i presidi non dichiarati, le irruzioni a fini contestatari in enti e istituzioni. Ci si preoccupa del consenso degli “elettori”, ma se non si fa attenzione si finisce per introiettare i modi di fare e di pensare dei ceti medi, che spesso sono quelli che votano di più e che di più condizionano l’opinione pubblica. Insomma la sfida è sempre aperta: si tratta di conquistare lo spazio elettorale, senza diventare elettoralisti. Potere al Popolo nasce da collettivi che hanno espresso in maniera conseguente il rifiuto di una politica ridotta a discorso ideologico consolatorio o a pantomima di una conflittualità che si fa gesto simbolico. Tuttavia, non deve perdere di vista che la politica è anche azione di forza, decisiva ed esemplare che assume fino alle estreme conseguenze le responsabilità e i rischi della contestazione fattuale delle classi dominanti e dell’ordine costituito.
La lotta al patriarcato, dice il socialismo femminista venezuelano, è un asse imprescindibile della lotta al capitalismo e all’imperialismo. Voi di Potere al Popolo come ponete la questione? E con quale bussola avete orientato i saggi contenuti nel volume?
La lotta al patriarcato e l’emancipazione della donna costituiscono un terreno d’intervento privilegiato per Potere al Popolo, accanto alla contraddizione capitale-lavoro e alla “questione ecologica”. In generale, ci muoviamo in affinità con le associazioni territoriali e dall’interno dei movimenti sociali, come Non Una Di Meno, secondo una concezione dell’avanguardia come parte “interna” e “più avanzata” dei settori sociali che si mobilitano, rifiutando il modello equivoco del “partito-guida” come soggetto estrinseco ai processi reali che pretende di portare una coscienza dall’esterno. Le nostre militanti non pretendono di emancipare, ma di conquistare attraverso momenti di vertenzialità, in quanto donne esse stesse e accanto ad altre donne in lotta, gli strumenti giuridici, economici, politici e organizzativi funzionali e propedeutici a questa emancipazione: ad esempio il salario minimo garantito nei settori esenti da contrattazione nazionale, la regolarizzazione contrattuale dei servizi di cura alla persona, il diritto ai congedi di maternità e di paternità retribuiti e condivisi da entrambi i partner, l’istituzione di consultori municipali e comunali con funzioni di ascolto, sostegno e avviamento al lavoro delle donne migranti e vittime di tratta, l’istituzione di asili nido e doposcuola di prossimità. Detto questo, io non posso parlare nei dettagli del nostro intervento su questo terreno poiché non è il mio ambito di competenza. Ciò che posso dire è che ci sono stati e ci sono momenti di discussione in Potere al Popolo che pongono il problema dell’emancipazione della donna in un quadro più ampio di quello presupposto dalla difesa dei “diritti civili”, facendo attenzione a ricondurre le questioni di genere entro le condizioni determinate dalla divisione capitalistica del lavoro e i rapporti di sfruttamento del lavoro femminile nelle sfere della produzione e della riproduzione. In altri termini, credo di poter dire che una delle idee-forza di Potere al Popolo su questo tema sia che mai nessuna emancipazione possa avvenire al di fuori dell’ottenimento di condizioni di vita e di lavoro regolari, di salari, mansioni e ruoli equiparati a quelli maschili, di sussidi statali per il mantenimento di sé e dei figli per le donne divorziate, di dispositivi di avviamento al lavoro e di contrasto alle forme di sfruttamento e di lavoro irregolare dilaganti nei settori del lavoro femminile. In altri termini, la lotta al patriarcato e l’emancipazione della donna non possono essere separati dall’insieme delle condizioni di vita e di lavoro delle donne nella società capitalistica e quindi dall’insieme dei rapporti di sfruttamento e di messa a profitto dei corpi in una prospettiva intersezionale.
Per quanto riguarda i saggi contenuti nel volume, la questione è differente. Abbiamo voluto interrogare come sia stato praticato e teorizzato nei movimenti femministi dagli anni Settanta ad oggi il nesso teoria-prassi perché proprio nei movimenti femministi questo nesso ha costituito un elemento centrale in termini di capacità operativa per avanzare sul terreno dell’emancipazione. Innanzitutto, come possiamo leggere nei saggi di Carlotta Cossutta e di Valentina Greco, lo statuto che la teoria acquisisce nel femminismo (e nel trans/femminismo) in quanto spazio di critica, di riconoscimento e di soggettivazione la traducono in una pratica fondamentale di quella trasformazione di sé e della vita che è la premessa e il risultato di ogni lotta politica per l’emancipazione. Per le teoriche e le storiche del femminismo di cui si parla nel libro, si tratta innanzitutto di conoscersi (e riconoscersi) come donne nelle condizioni che le determinano in quanto soggetti etero-diretti, per costruirsi, invece, come soggetti automi e raccontarsi diversamente da quanto fanno gli apparati ideologici del patriarcato. Le “idee” in questo caso assumono un valore performativo immediato sulla costruzione del sé individuale e collettivo. Di conseguenza, la “battaglia delle idee” diventa un momento centrale nella conquista dell’autonomia del soggetto, preliminare a qualunque lotta per l’emancipazione. D’altra parte, ed entriamo qui su un terreno spinoso, i movimenti femministi degli anni Settanta e Ottanta hanno contribuito alla liquidazione della tradizione del marxismo e del comunismo, in maniera spesso consapevole e decisa. Con un’immagine suggestiva potremmo dire che in quei decenni si contestava l’incoerenza di chi era “comunista in sezione e fascista al letto”, sicché si volle tagliar corto e liquidare l’uno e l’altro. Fuor di metafora, con i saggi sul femminismo contenuti in questo volume abbiamo voluto interrogare alcuni degli elementi filosofici, politici, etici dirompenti e innovativi che i femminismi hanno apportato alla tradizione dei movimenti per l’emancipazione e le ragioni del loro rifiuto e delle loro critiche alla tradizione storica del comunismo. Personalmente non tutti questi elementi mi convincono e penso ancora che questa tradizione così rapidamente liquidata abbia molto ancora da darci in termini di efficacia organizzativa e strategica della lotta politica nel confronto con i nemici delle classi subalterne. Spetta a noi riscoprire gli elementi ancora propulsivi di questa tradizione e conciliarli con quanto di nuovo hanno insegnato i movimenti femministi.
[Marco Mor1]Il tema del “mutualismo” ?