Risolviamo i problemi del mondo cambiando la lingua?

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Risolviamo i problemi del mondo cambiando la lingua?

Vi confesso che la polemica sul politically correct e le azioni riformatrici della lingua mi mettono molto a disagio. Non so bene come prenderle. Da un lato sono assolutamente convinto che sia necessario combattere le intolleranze, di qualsiasi tipo. Dall'altro trovo però decisamente sbagliato e fuorviante credere che l'intolleranza si combatta nella lingua. Non so dunque se occorra semplicemente lasciare che il tempo metta in evidenza la totale vacuità delle teorie linguistiche di genere o se invece prenderle sul serio, anche se ovviamente non come pensiero sulla lingua, dato che riformarla per decreto è impossibile, ma come fenomeno antropologico, che tradisce il progetto politico dell'uomo nuovo neoliberale, il quale vede nei sistemi espressivi uno mezzo da piegare alla propria singolare auto rappresentazione.
 
Ad ogni modo, l'elemento di maggiore disagio è il ricatto morale che sta dietro alle pseudo discussioni sulla lingua: criticarle significa infatti essere automaticamente iscritti nel novero dei reazionari. Del resto il profluvio nominalistico che sta dietro alla continua creazione di nuove etichette da apporre ad ogni differenza di genere ha soprattutto una funzione tribale: le usa chi vuole identificarsi come appartenente a un dato gruppo ristretto (pseudo) intellettuale. Lungi dall'essere inclusive queste manifestazioni velleitarie servono a definire il campo di una nuova borghesia devota all'individualismo esasperato, al disprezzo verso tutto ciò che è storico, tutto ciò che è mediazione. E la lingua è anzitutto questo: è il frutto di lente e complesse sedimentazioni storiche, nonché lo strumento principe della mediazione sociale e culturale. Non si presta dunque a riduzioni essenzialistiche e naturalistiche.
 
Ora, sia chiaro, l'insofferenza verso la lingua non è una cosa nuova. Si è già manifestata altre volte. E forse è pure un bene che ciclicamente ritorni, soprattutto se ci aiuta a comprendere che la lingua non è il riflesso del mondo. Non solo, l'esito disastroso a cui porta ogni tentativo di condurre riforme linguistiche dall'alto permette di ritornare a una questione cruciale e cioè al fatto che è tipico del pensiero totalitario quello di piegare la lingua a una data rappresentazione imposta per decreto.
 
Vedremo, il progetto di riformare la lingua fallirà miseramente, ma i diversi tentativi che seguiranno avranno effetti nella vita quotidiana per chissà quanto tempo. Gli strascichi saranno tanti, soprattutto di ordine culturale e in particolare tra i giovani che dovranno sorbirsi lezioni di (in)tolleranza linguistica. Mi chiedo infatti con quale spirito critico chi verrà costretto a credere queste pseudoterie potrà leggere una poesia, un testo letterario che specie nella tradizione italiana contiene sottigliezze linguistiche e stilistiche che non può cogliere lo sguardo grossolano e cialtrone di chi ritiene che dire "tutti", riferito a una platea differenziata, sia un atto patriarcale e autoritario.
 
Lasciatemi però dire un'ultima cosa. Trovo davvero deprimente che per combattere le intolleranze non si faccia più appello al conflitto di classe o anche più semplicemente alla necessità di favorire i legami sociali e comunitari. Uno studio di sociolinguistica dovrebbe interrogarsi sul perché termini come amicizia, fratellanza, uguaglianza e solidarietà siano scomparsi dal vocabolario della sinistra e del buon senso.

Paolo Desogus

Paolo Desogus

Professore associato di letteratura italiana contemporanea alla Sorbonne Université, autore di Laboratorio Pasolini. Teoria del segno e del cinema per Quodlibet.

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