Andrea Zhok - Il problema dell'antisemitismo odierno


di Andrea Zhok*


In questi giorni si ritorna a parlare intensivamente di “antisemitismo” in occasione di alcune manifestazioni simboliche (danneggiamento di pietre memoriali, stelle di David dipinte sui muri, ecc.) che rammentano oscuri precedenti storici.

Ora, che l’antisemitismo sia una bruttura umana, nel migliore di casi una scemenza, nel peggiore un crimine, è certo al di là di ogni possibile dubbio. L’antisemitismo è una variante del razzismo, ed è condannabile per le stesse ragioni per cui ogni razzismo va condannato: in quanto visione che generalizza un giudizio morale negativo estendendolo ad ogni membro di un gruppo etnico-razziale, in quanto tale. I giudizi morali sono, e possono essere legittimamente, solo giudizi su atti e persone determinate. Nel momento in cui si formulano giudizi morali negativi su gruppi si estende una (presunta o reale) imputazione negativa a tutti gli appartenenti del gruppo, risparmiandosi la fatica di valutare se ciò sia applicabile ai singoli che ne fanno parte.

Se ora ci chiediamo quali siano le ragioni degli apparenti rigurgiti antisemiti contemporanei, la prima cosa che dobbiamo notare è come oggi manchino le motivazioni che nei periodi più oscuri dell’antisemitismo novecentesco formavano il nerbo di quei pregiudizi. Il nazismo si nutriva di una concezione biologico-razziale che gli permetteva di fare il salto dalle colpe dell’individuo a quelle del gruppo con facilità: l’idea era che il “male” fosse nelle “disposizioni naturali della razza”. Oggi però questa visione è sostanzialmente estinta e non credo che dal secondo dopoguerra sia stata più rivendicata da nessuno (casi psichiatrici a parte).

Questo vuol dire che quando oggi parliamo di “antisemitismo” dobbiamo considerare che non può essere proprio la stessa cosa di quello che per noi è l’immagine archetipa dell’antisemitismo, ovvero la vicenda della persecuzione ebraica in Europa tra il 1935 e il 1945.
Se vogliamo parlare oggi di antisemitismo, dobbiamo parlare di un antisemitismo etnico-politico piuttosto che etnico-razziale, in cui la vicenda storica dello Stato di Israele gioca un ruolo molto significativo, se non totalizzante. E tuttavia, sembra chiaro che qui è in funzione una volta di più quel pernicioso paradigma di generalizzazione, per cui un individuo viene giudicato in modo moralmente negativo semplicemente perché appartenente ad un gruppo. Così, un ebreo che non c’entra nulla con lo stato di Israele può trovarsi coinvolto in un giudizio sprezzante per estensione a partire da un giudizio nei confronti delle politiche di Israele.

Quando ciò accade ci troviamo di fronte ad una reale istanza di antisemitismo.

La domanda ora però diventa: chi è che fomenta questa identificazione forfettaria di Israele, e specificamente delle scelte della sua classe politica, con l’ebraismo in generale?

E la risposta qui è credo abbastanza chiara.

Il primo colpevole di questa identificazione forfettaria e acritica tra ebraismo e stato di Israele è lo stato di Israele.

Lo si può notare in una molteplicità di esempi.

In primo luogo, è la classe politica israeliana che ha continuato, costantemente, dal 1948 ad oggi a tacciare ogni critica internazionale alla propria politica come “antisemitismo”. Essendo Israele in perenne infrazione rispetto a innumerevoli risoluzioni internazionali, specificamente circa il proprio trattamento delle popolazioni autoctone (palestinesi), la risposta reiterata ed infallibile di fronte ai molti che hanno difeso la causa palestinese negli ultimi 80 anni è stata di accusarli di “antisemitismo”. Se disapprovi la Nakba vuol dire che plaudi alla Shoah. Semplice semplice.

L’accusa di antisemitismo non è un’accusa qualsiasi nel mondo occidentale, nato sulle macerie della seconda guerra mondiale: si tratta di un’accusa che pone in continuità con il nazismo e dunque con ciò che è considerato il “male assoluto”. È un’accusa che corrisponde in molti paesi ad un’imputazione di reato. È un’accusa che delegittima l’interlocutore in modo totale, che gli dichiara guerra (non puoi mica discutere con chi, per definizione, vuole solo il tuo sterminio, no?).

Questo riflesso condizionato si associa ad un’altra carta, simmetrica e pericolosissima, ovvero al “vittimismo storico”. Questa carta l’abbiamo vista giocare questi giorni nel modo più palese quando, negli stessi giorni in cui l’esercito israeliano uccideva tra i 300 e i 400 civili al giorno, i suoi rappresentanti all’ONU pensavano bene di presentarsi con la stella gialla di David appuntata sulla giacca. Come ha detto il presidente dello Yad Vashem (istituzione custode della memoria dell’Olocausto) questo gesto “disonora le vittime dell’Olocausto”.
E naturalmente di questo scandalo si è accorto immediatamente tutto il mondo (ok, salvo chi ancora si trangugia l’acido lisergico delle veline USA sui nostri media).

La carta vittimista è la più costantemente utilizzata come arma di propaganda e di pressione diplomatica dal governo di Israele dalla sua nascita. All’ambasciatore all’ONU Gilad Erdan è parso perfettamente normale, e consono ad una consolidata tradizione, presentarsi come diretto erede dei torti di quattro generazioni fa.

Come è chiaro, ciò che è implicito in questa visione è l’idea di un’identificazione etnica che travalica il tempo e lo spazio, e che renderebbe l’attuale governo israeliano in credito con il mondo per quanto subito da Anna Frank o Primo Levi. Il fatto di sentirsi vittima, di porsi come creditore della storia, giustifica apparentemente ogni rivalsa, anche 3500 bambini massacrati in 20 giorni.

Al netto di ogni altra considerazione, ciò che lascia sempre incuriositi in questo atteggiamento è la scelta degli oggetti su cui scatenare la propria furia vendicativa. Dopo tutto, se l’ambasciatore Erdan o il premier Netanyahu o il ministro Galant sono così fermamente persuasi dell’ereditabilità storica di colpe e meriti, debiti e crediti, non si capisce bene perché non abbiano ancora dichiarato guerra alla Germania, chiedendo un “focolare nazionale” in Baviera, invece di prendersela con due milioni di morti di fame in Palestina.

Un’ultima osservazione circa questa tendenza alla sovraestensione dei meriti e delle colpe, dei debiti e dei crediti storici, va fatta rispetto a quanto accade in Palestina, dove l’idea di colpa (e punizione) collettiva è data assolutamente per scontata dal governo israeliano. L’idea di punizione collettiva è presente dagli anni ’70 con l’abbattimento delle case delle famiglie di palestinesi sospettati di attività antiisraeliana, oltre che in mille altre istanze, ma in questi giorni l’abbiamo sentita ripetere più volte ai massimi livelli (ex ambasciatori, membri della Knesset, ministri) con l’affermazione che “a Gaza non ci sono civili innocenti”.

Ora, purtroppo, l’idea di colpe e meriti collettivi fondati sull’appartenenza ad un gruppo etnico è ciò che Israele ha rivendicato in continuazione a proprio beneficio, ma sciaguratamente è precisamente la stessa operazione che invertita di segno si incarna in antisemitismo.

Detto semplicemente, il principale alimento dell’antisemitismo odierno, ben diverso da quello razziale di un secolo fa, è proprio l’atteggiamento culturale di Israele, che ragiona sistematicamente in modo da proporre un’identificazione tra le proprie politiche – anche quelle più inqualificabili – e l’identità ebraica.

Per fortuna esistono nel mondo molti ebrei che continuano lucidamente a contestare il progetto sionista e le violenze di cui si è fatto latore. Li abbiamo visti in questi giorni protestare a New York ma anche a Gerusalemme.

Forse tutti quei media che hanno sempre sulla bocca lo spettro dell’antisemitismo farebbero un servizio alla lotta reale contro l’antisemitismo dando un po’ più la parola a questi ebrei e un po’ meno ad un governo genocida.

*Post Facebook del 2 novembre 2023

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