Chavez 2013-2023. Venezuela, l’ultimo viaggio del Comandante

05 Marzo 2023 07:00 Geraldina Colotti

(estratto del libro Dopo Chávez. Come nascono le bandiere, edito da Jaca Book)

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Caracas, 10 marzo 2013

Non si suona la Marcia funebre di Chopin. Si urla il nome di Chávez. Il grido arriva, straziante, amplificato dalle volte immense. La donna si accascia vicino al feretro. Ha la pelle scura, tratti indigeni e un vestito sbiadito. Due cadetti accorrono, la sollevano e la portano via. La folla riprende a fluire. Nell’Accademia militare di Caracas, a Fuerte Tiuna, le orazioni funebri si alternano a slogan e canti. Nel grande spazio che si apre alla strada, è stata allestita la camera ardente. Al centro, la bara di Hugo Chávez, presidente del Venezuela.

È morto il 5 marzo, alle 16,30 ora locale. Un tumore particolarmente aggressivo ha avuto ragione della sua forte fibra e se l’è portato via dopo una lotta durata ventuno mesi. Aveva 58 anni e governava dal 1999. Da allora, e fino all’ultimo, ha vinto tutte le partite elettorali tranne una (il referendum costituzionale del 2007). Nel 2013 ha perso però quella decisiva, cedendo al male devastante che lo ha attaccato nel 2011 e che se l’è portato via con un ultimo colpo al cuore: «È morto per un infarto fulminante», ha raccontato ai giornalisti il generale José Ornella, capo della guardia presidenziale, rivelando particolari sugli ultimi istanti di vita del Comandante: col movimento delle labbra, Chávez (costretto a respirare attraverso una cannula e dunque impossibilitato a parlare) avrebbe detto: «Non voglio morire, per favore non lasciatemi morire».

La stessa preghiera rivolta al cielo durante una messa nel pieno della sua malattia: «Dammi la tua corona, Cristo, dammela che sanguino – aveva esclamato allora –. Dammi la tua croce, cento croci e io le porto. Però dammi vita, perché mi restano ancora delle cose da fare per questo popolo, per questa patria. Non portarmi ancora via».

Non si suona Chopin. Si urla il nome di Chávez. L’eco di quel grido non smette di vibrare. «Per il sorriso allegro del tuo volto assente, non tradirò le mie origini», ha scritto Chávez nella poesia in morte di Rosa Ines, la nonna che lo ha cresciuto. Era il ’92, l’anno in cui ha diretto la ribellione civico-militare contro la iv Repubblica mettendo in moto il proceso Bolívariano. Da allora ha mantenuto la parola. Fino all’ultimo. Il bambino povero di Sabaneta ha scelto di fare il soldato della rivoluzione.

Il popolo degli esclusi e degli oppressi ha fatto irruzione nello spazio pubblico dando luogo a un blocco sociale che ha via via elaborato un’inedita volontà collettiva. Nel 1999, la Costituzione della Repubblica Bolívariana del Venezuela ha sancito la rottura con l’ordine economico-politico fino ad allora vigente, ha dato legittimità e cittadinanza alle identità a soggetti resi invisibili e sottomessi: contadini, indigeni, afrodiscendenti, poveri delle periferie urbane… Donne e femministe, soprattutto, che hanno introdotto uno sguardo di genere nell’arco di temi presenti e nell’agenda politica.

La Carta Magna è stata scritta puntigliosamente nei due generi, declina al maschile e al femminile tutte le cariche istituzionali, tutti gli articoli che definiscono la democrazia “partecipativa e protagonista” e un nuovo esercizio della cittadinanza basato sulla ridistribuzione del potere come proprietà collettiva. Le donne sono state e sono il motore e la linfa del proceso Bolívariano, quelle che maggiormente hanno usufruito delle istanze di liberazione enunciate nella Costituzione: dalle Misiones, alla presenza attiva in tutte le organizzazioni sociali, fino alle più alte cariche politiche.

Il Potere morale, quello Elettorale, la Magistratura, la Procura generale, il Potere legislativo sono stati diretti da autorevoli figure femminili. «Non può esserci socialismo senza liberazione delle donne», ha dichiarato spesso Chávez, che a più riprese si è definito “femminista”. Essendo un grande statista e un dirigente politico capace di ascoltare e studiare, si è fatto guidare dalla sapienza femminile, frutto di passione e tenacia.

Nei suoi discorsi ha reso omaggio alla genealogia di donne portata in luce dal lavoro delle nuove storiche femministe. Figure sottratte al cono d’ombra dell’uomo per cui è stata scritta la storia e restituite alla loro autonomia di guerriere o pensatrici: Manuela Saenz, Luisa Caceres, Josefa Camejo… Nel 2003, inaugurando il Secondo incontro internazionale di solidarietà organizzato da Inamujer, Chávez ha ricordato il ruolo delle donne nella resistenza al golpe dell’anno prima, il loro coraggio: le indigene di fronte a Fuerte Tiuna che hanno sfidato le mitragliatrici gridando «Soldato sincero, unisciti al tuo popolo!». Le donne corse a chiedere un fucile, disposte a morire davanti al Palazzo di Miraflores. La madre Elena, che allora non ha voluto lasciare Miraflores e che in seguito gli ha dato forza spronandolo: «Non puoi andartene perché il tuo popolo ti chiama».

Non si suona Chopin. Si urla il nome di Chávez. Una grossa farfalla tropicale si posa ora sul vetro della bara, poi spicca il volo. Si ferma a lungo sulla madre affranta del presidente, salta gli uomini vestiti di scuro e sceglie ancora qualche spalla femminile, probabilmente attirata dai colori. Ci sono ministre, donne soldato, collettivi femministi, gruppi di indigene, musiciste. Davanti al feretro c’è un ritratto di Gesù. Ai piedi, una riproduzione della spada di Simón Bolívar: il libertador, il cui sogno di un’unica patria per l’America latina – la Patria grande – è stato ripreso dalla revolución Bolívariana animata da Chávez.

Ezequiel Zamora, Simón Rodríguez e Simón Bolívar sono le “tre radici” che la compongono: un leader radicale dei contadini (Zamora, vissuto tra il 1817 e il 1860), un maestro di scuola e di vita (Simón Rodríguez, precettore di Bolívar, vissuto tra il 1769 e il 1854); e il libertador, il venezuelano che spese la sua vita per l’indipendenza degli Stati sudamericani, nato nel 1783 e morto nel 1830.

Da 14 anni, i loro ritratti spiccano sui muri colorati dai graffiti, accompagnano gli altri riferimenti forti del “Socialismo del xxi secolo”: Marx, Lenin, Gramsci, e la Teologia della liberazione. Principi che guidano il Partito socialista unito del Venezuela (psuv). Chávez lo ha fondato, dopo aver messo insieme un arco di forze, il 14 marzo del 2008.

Un gigantesco murale dipinto nel quartiere 23 Enero raffigura un pantheon ancor più azzardato: un’Ultima cena in cui, ai lati di Cristo, si vedono Marx, Lenin, Fidel Castro, Che Guevara e Manuel Marulanda (il defunto leader guerrigliero delle Forze armate rivoluzionarie colombiane, le farc). Alla sinistra, i padri storici dell’indipendenza venezuelana: da Bolívar a Guaicaipuro, un eroe indigeno vissuto tra il 1530 e il 1568. In mezzo a loro c’è Hugo Chávez, che regge la costituzione Bolívariana.

La Carta magna della V Repubblica – una delle più avanzate al mondo – viene approvata dai cittadini il 15 dicembre del 1999, mentre piogge torrenziali e devastanti si abbattono sul paese. Il 25 aprile, il popolo venezuelano ha votato per la convocazione di un’Assemblea Costituente che ha impegnato l’intero paese nell’elaborazione della Costituzione.

Il testo consentirà al nuovo governo di avviare riforme di struttura basate su una più equa distribuzione delle risorse petrolifere (il Venezuela è il quinto maggior esportatore di petrolio al mondo e il primo per riserve petrolifere), sulla lotta al latifondo e allo strapotere delle multinazionali, sui diritti umani e su quelli della natura. La promessa di un’Assemblea Costituente è stata la mossa vincente della campagna elettorale di Chávez, nel ’98. Il 2 febbraio del ’99, diventato presidente con oltre il 56% dei voti, lo ha ribadito al paese, giurando sulla “moribonda” costituzione, che data 1961.

Non si suona Chopin. Si urla il nome di Chávez. Vicino a me c’è Leonor Fuguet, lunghi capelli grigi e piedi scalzi, con la sua chitarra. Sembra uscita da una comune hippy degli anni ’60. È accolta con baci e abbracci da molti alti ufficiali. Eccola, con un’immagine, l’unione civico-militare. Questo è l’unico posto, nel Sud del mondo, in cui sembra funzionare. Con la sua voce potente e modulata, Leonor canta strofe di pace e di giustizia sociale. Intorno, alti gradi delle Forze armate venezuelane ascoltano in religioso silenzio.

Quando la musica finisce, tutti le si fanno intorno e si congratulano con modalità tutt’altro che protocollari. Quando sono arrivata al Forte, mi è venuto a prendere un alto ufficiale dalle mani affusolate. Mi ha raccontato i suoi trascorsi nei reparti speciali durante la IV Repubblica, e in seguito il sostegno a Chávez e l’approdo al socialismo. Mi ha trascinato per tutto il salone, presentandomi generali di tutti i corpi d’armata…

«Sono la hippy delle Forze armate – mi dice ridendo Leonor –. Sono ambientalista, attivista e vengo dalla sinistra radicale. Anche a me i militari facevano paura, sappiamo tutti cos’è successo in Cile, in Argentina, in Brasile. La maggioranza delle Forze armate venezuelane, però, non proviene dall’oligarchia e per questo in molti hanno partecipato alla guerriglia durante la IV Repubblica. Certo, altri si sono formati alla nefasta Scuola delle Americhe e hanno scelto il campo dei repressori, tanto che ci sono state torture e scomparsi durante gli anni della “democrazia rappresentativa”. Ma questa rivoluzione ha cambiato le cose nel profondo. Nelle nuove Forze armate Bolívariane, i generali si danno da fare nei programmi sociali, gli ufficiali aiutano la gente al mercato. Gli ex guerriglieri hanno fatto pace con quei soldati che li hanno perseguiti allora e che oggi hanno capito qual è il loro vero compito: stare dalla parte del popolo».

Leonor, più volte premiata per i suoi 35 anni di militanza ecologista a favore della madre terra, sintetizza così il senso dell’“unione civico-militare”, colonna portante di quel proceso Bolívariano messo in campo dopo la vittoria di Hugo Chávez alle elezioni del 1998.

Non si suona la Marcia funebre di Chopin. Si urla il nome di Chávez. Si passa in fretta davanti alla bara, ci si tocca il petto e si accenna a una carezza. Non c’è tempo per trattenersi, gli altri aspettano. C’è chi saluta a pugno chiuso, chi si fa il segno della croce, chi prende in braccio una bambina, chi vuole baciare il morto, ma viene fermato. Ogni tre o quattro persone, i militari fanno passare un invitato. Vado anch’io.

Per il suo ultimo viaggio Chávez è vestito con una camicia bianca, una cravatta nera, l’uniforme verde dell’esercito con il berretto rosso, quella “di gala n. 2”. Per strada, alcuni poster già lo raffigurano a lato di Cristo, pronto a fare miracoli. Si parla di imbalsamare la salma com’è stato per altri grandi dirigenti comunisti del ’900. Spero che non si faccia. Per me Hugo Chávez, il suo gruppo dirigente, il suo popolo, hanno riscattato ideali e macerie del grande Novecento, ricostruendo una speranza viva che può moltiplicarsi.

Toccherà poi a Maduro, autista di autobus messo alla prova, fin da giovanissimo, dai problemi del movimento operaio e dalle insorgenze del secolo scorso, e sempre dalla parte di Chávez, guidare il processo bolivariano, avanzando lungo i sentieri accidentati delle rivoluzioni, dove nascono e rinascono le bandiere del socialismo.

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