1956. La target list nucleare (desecretata) degli Usa

di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

Nel dicembre del 2015, la National Archives and Records Administration (Nara, l’archivio contenente i documenti del governo e delle varie agenzie ad esso connesse) degli Stati Uniti, il cui capo-archivista viene nominato direttamente dal Presidente, ha desecretato un dossier di oltre 800 pagine redatto in piena Guerra Fredda e contenente la lista dettagliata degli obiettivi in territorio dell’Unione Sovietica, della Repubblica Popolare Cinese e dell’Europa orientale da colpire con armi nucleari.

Quando, nel 1956, fu preparata la target list, gli Usa disponevano di più di 12.000 testate nucleari per una potenza complessiva di 20.000 megatoni, corrispondente a 1,5 milioni di Little Boy, la tipologia di bomba atomica sganciata su Hiroshima il 6 agosto 1945. All’epoca, l’Unione Sovietica, il cui primo test nucleare era stato realizzato con successo nell’agosto 1949, aveva costruito circa 1.000 ordigni mentre la Cina avrebbe dovuto aspettare ben 18 anni (ottobre 1964) per ottenere l’accesso alla tecnologia necessaria a fabbricare bombe atomiche.

La conservazione della situazione di netto vantaggio in cui si trovavano gli Usa, dotati anche di un vasto assortimento di vettori (bombardieri e missili), era indubbiamente il fine ultimo a cui tendevano gli autori del report, convinti che distruggendo preventivamente con attacchi nucleari multipli e simultanei qualcosa come 1.100 campi d’aviazione e 1.200 grandi città, gli Stati Uniti avrebbero chiuso rapidamente a la partita con il comunismo iniziata proprio con i bombardamenti nucleari sul Giappone dell’agosto 1945. Il piano rimasto top secret fino a dicembre prevedeva di sganciare 180 bombe atomiche su Mosca, 145 su Leningrado e 23 su Pechino, con l’obiettivo di radere al suolo i maggiori agglomerati urbani e le principali aree popolate con esplosioni nucleari al livello del suolo per massimizzare le ricadute radioattive. Un approccio più moderato venne riservato a Berlino Est, il cui bombardamento avrebbe inesorabilmente determinato «implicazioni disastrose anche per Berlino ovest», controllata dagli occidentali.

Non è chiaro se le ragioni che impedirono l’implementazione del piano fossero dettate dal timore dell’inevitabile rappresaglia sovietica, che avrebbe comportato la distruzione di megalopoli come New York, Washington e Los Angeles, o da scrupoli di natura politico-morale del governo di Washington allora guidato dall’ex generale Dwight Eisenhower. È molto probabile che questo elenco sia stato rivisto ed attualizzato nel corso dei decenni, includendo di volta in volta obiettivi dei Paesi messi nel mirino dagli Usa, quali l’Iran e la Corea del Nord. È ormai risaputo che dalla fine della Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno sviluppato armi nucleari tattiche con l’intenzione di usarle in conflitti convenzionali con Paesi sprovvisti di tecnologia atomica. Nel 2001, sull’onda degli attacchi terroristici dell’11 settembre, l’allora segretario alla Difesa Donald Rumsfeld auspicò l’utilizzo di bombe atomiche a ridotta radioattività in Afghanistan per colpire i talebani rintanati nelle grotte ricavate sulle montagne di Tora Bora.

Secondo il parere di alcuni esperti, la possibilità di impiegare queste tipologie di armi fu valutata anche alla vigilia della guerra all’Iraq sferrata nell’ottobre del 2003, nel corso di un incontro segreto presso l’Air Force Base di Offutt, in Nebraska. Durante la riunione, cui – a differenza di qualsiasi membro del Congresso – presero parte i capi del Comando Strategico Usa, i principali appaltatori della Difesa e i più influenti analisti politici statunitensi, si parlò della necessità di sviluppare una nuova generazione di armi nucleari anche all’idrogeno di dimensioni ridotte e maggiore flessibilità da impiegare nei teatri di guerra del XXI Secolo come quello libico nel 2011. Fonti ben informate hanno rivelato che già nel 1996, per la verità, il funzionario del Pentagono Harold Smith aveva esercitato pressioni sui tecnici impegnati nella realizzazione della bomba all’idrogeno B61-11 affinché accelerassero i tempi in quanto le caratteristiche di questa bomba, come la precisione e il basso livello di radioattività, si adattavano alla perfezione a colpire un bunker sotterraneo situato nella città libica di Tarhuna, dove si sospettava che Gheddafi stesse producendo armi chimiche.

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