1° OTTOBRE 1949: A 70 ANNI DALLA NASCITA DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE IL RUOLO DELLA CINA OGGI

1° OTTOBRE 1949: A 70 ANNI DALLA NASCITA DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE IL RUOLO DELLA CINA OGGI

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Il primo ottobre del 1949 Mao Zedong dichiarò la fondazione della Repubblica Popolare Cinese. A 70 anni da quella storica Dichiarazione pubblichiamo le conclusioni che Fosco Giannini ha svolto ad un dibattito su “La Cina della Nuova Era” lo scorso venerdì 13 settembre presso il Circolo ARCI “La Cricca” di Torino
 
                     
  
di Fosco Giannini *
*direzione Nazionale PCI
 
Care compagne e cari compagni, care cittadine e cari cittadini di Torino,

in prossimità del 70° anniversario della Dichiarazione di Mao Zedong per la fondazione della Repubblica Popolare Cinese (1° ottobre 1949) il PCI di Torino ha voluto, a partire dalla presentazione del libro “La Cina della Nuova Era” (curato da chi parla e da Francesco Maringiò ed edito da “La Città del Sole) avviare un dibattito sul ruolo della Cina oggi.

Vorrei intanto ringraziare il folto pubblico che questa sera ha voluto essere presente e ringraziare i militanti del PCI di Torino che hanno organizzato così bene questo importante evento. 

Prima di addentrarci nel dibattito sulla Cina oggi e nella presentazione diretta del libro, che affronta i temi del 19° Congresso del Partito Comunista Cinese, svoltosi nell’ottobre del 2017, vorrei innanzitutto ricordare, rimarcare, il carattere di massa e democratico di questo stesso Congresso, che – come avevano fatto gran parte dei media occidentali – il quotidiano italiano “La Repubblica”, aveva invece presentato come “la discussione chiusa di una cerchia esoterica”. Bene: il 19° Congresso del PC Cinese si è invece svolto esattamente al contrario: i circa 90 milioni di iscritti al PC Cinese hanno partecipato al dibattito in tutti i territori e hanno eletto i 2.880 membri dell’Assise a Pechino. Il punto è che in Occidente permane una visione colonialista ed imperialista dell’Oriente, una visione che parte dal senso di superiorità della cultura occidentale e rende impossibile, per l’Occidente, la comprensione del nuovo Oriente, la comprensione dello stesso sviluppo economico, sociale e democratico cinese.

Come introduzione alle questioni poste dal libro e relative alla discussione sulla Cina oggi, credo sarebbe opportuno misurare il livello del titanico sviluppo economico cinese degli ultimi 30 anni attraverso due questioni:
-primo, i circa 800 milioni di uomini e donne cinesi che lo stesso sviluppo ha tratto fuori dalla povertà;

-secondo, il potentissimo impatto politico e geo-politico della Cina Socialista sull’ultima fase storica mondiale.

Per ciò che riguarda il primo punto: la guerra di posizione condotta dalla classe dirigente del PC Cinese ha visto negli ultimi 40 anni di Riforme e Apertura 800 milioni di cinesi affrancarsi dalla povertà, un fenomeno che è stato definito dalla Banca Mondiale come uno dei più grandi racconti della storia dell’umanità. Di questi 800 milioni, 60 sono usciti dalla condizione di povertà soltanto negli ultimi 6 anni. Il dato è enorme, d’importanza epocale. Tuttavia l’Occidente capitalistico tende a trascurare questo dato, a non attribuirgli l’immensa portata storica che ha. E pensare che nell’Occidente capitalistico, specie nell’area dell’Unione Europea, sta avvenendo esattamente il contrario di quanto è accaduto in Cina: in questa parte capitalistica del mondo, infatti, sempre più vaste sono le aree della povertà e del disagio sociale, come conseguenza della disoccupazione e della precarizzazione di massa, della specifica inoccupazione, precarizzazione e disoccupazione giovanile (in Italia oltre il 50% dei giovani sono senza lavoro), della distruzione del welfare e della sottosalarizzazione di massa.

Secondo punto: il ruolo dello sviluppo cinese nel nuovo quadro internazionale.

Il 26 dicembre del 1991 la gloriosa bandiera sovietica viene ammainata dalla cupola del Cremlino. Scompare l’URSS e cambia radicalmente la Storia. Fukujama decreta “la Fine della Storia”. Con la scomparsa dell’URSS si liberano immediatamente gli spiriti animali dell’imperialismo e del capitalismo mondiale. Il nuovo e intero mondo viene da essi percepito come un totale e smisurato mercato da conquistare, con le buone o con le cattive, con la penetrazione economica o con la guerra. La stessa concezione liberale, idealistica e anti dialettica de «la fine della Storia», già messa a fuoco da studiosi del campo conservatore, viene eletta a categoria assoluta e chiave di lettura della fase presente e del divenire. Con la sconfitta dell’URSS si afferma, da parte dell’euforico fronte imperialista e capitalista mondiale, che «la storia è conclusa» e «il socialismo si mostra ai popoli per quello che è: un’illusione irrealizzabile»; per il fronte imperialista e per il pensiero borghese la scomparsa dell’Unione Sovietica «ratifica» formalmente, anche sul piano filosofico, che «il capitalismo è natura, eterno e immodificabile».

In questa stessa fase temporale nella Repubblica Popolare Cinese è in atto un duro scontro tra la corrente «riformista» del Partito Comunista Cinese, guidata da Hu Yaobang e la maggioranza del Partito, guidato da Deng Xiaoping. Hu Yaobang ha messo in moto un movimento («doppio cento») che si richiama (inopinatamente) a quello dei «cento fiori», del 1956; che tende a mobilitare di nuovo quel movimento, che chiede una maggiore separazione tra Partito e Stato ma che, nella stessa dinamica politica, sociale e ideologica messa in campo nella battaglia contro il Partito, sfocia nella sfera politico-culturale liberista, nella negazione dei prodromi del progetto «denghista» dell’«economia socialista di mercato», finendo per inclinare in senso antisocialista e filo americano. Una doppia inclinazione che porta il movimento «doppio cento» a cercare apertamente, nel 1989, il sostegno di Gorbaciov, già perdutosi, in questa fase, nel caos distruttivo dell’Unione Sovietica e dell’intero campo socialista e dunque osannato dai «doppiocentisti» durante la sua visita in Cina; sorretto, il movimento «doppiocentista», soprattutto da una parte del movimento studentesco di Pechino, sfociato e culminato – tra il 16 e il 17 maggio 1989, in piazza Tienanmen– nella richiesta di una democrazia borghese di stampo nordamericano, che se conquistata avrebbe decretato la morte del «socialismo dai caratteri cinesi» ancora in evoluzione. Come avrebbe fatto mancare (in relazione a ciò che lo sviluppo pieno del progetto «denghista» avrebbe, nei decenni successivi, positivamente rappresentato sia per il popolo cinese che per i popoli in via di liberazione nel mondo) il pilastro fondamentale per la ricostruzione di quel fronte mondiale antimperialista che, invece, in poco più di un quindicennio, si sarebbe ripresentato sulle scene internazionali.

Lo scontro tra il movimento di Hu Yaobang e la sua degenerazione liberale e la linea di Deng Xiaoping è fortunatamente vinto da quest’ultimo e dalla maggioranza del Partito Comunista Cinese. Con la sconfitta del movimento «doppio cento» e la sconfitta della Piazza Tienanmen, la svolta politica ed economica cinese diretta ad un’«economia socialista di mercato» s’invola. Prima con Deng, poi con Jang Zemin, Hu Jintao e Xi Jinping alla guida del Partito Comunista Cinese, lo sviluppo economico porta la Cina – da un’arretratezza delle forze produttive ancora segnata, alla fine dell’era maoista, persino da alcuni caratteri feudali, specie nel lavoro dei campi, nella produzione agricola, ma non solo – a conseguire, «la posizione di seconda più grande economia del mondo, contribuendo per più del 30 per cento alla crescita economica globale».

Gli 800 milioni di uomini e donne cinesi che nella nuova fase di sviluppo economico sono tratti fuori dalla miseria e dalla fame, dicono solo una parte della grande crescita cinese, che cambia positivamente il mondo mutandone i rapporti di forza tra poli e Stati imperialisti e poli e Stati dal carattere socialista, antimperialista e in via di liberazione anticolonialista. Uno sviluppo, quello cinese, che, incredibilmente, prende corpo in un contesto terribilmente ostile per ogni esperienza e progetto socialista e che la dice lunga sulla lungimiranza, sul senso rivoluzionario, sulla determinazione e sullo sguardo lungo dei gruppi dirigenti del Partito Comunista Cinese; un contesto segnato dalla controrivoluzione «gorbacioviana» e dalla conseguente scomparsa dell’URSS e del campo socialista; dalla scomparsa del Comecon (l’area di scambio mercantile socialista); dalla nuova aggressività economica e militare imperialista e dal fronte interno guidato da Hu Yaobang e da Piazza Tienanmen, un fronte ben visto dagli USA e dall’occidente capitalistico e obiettivamente diretto a destabilizzare il socialismo e il Partito Comunista Cinese.

A posteriori, aiutati dallo stato presente delle cose, è facile dirlo: ma se il Partito Comunista Cinese non avesse scelto e intrapreso la via del pieno sviluppo delle forze produttive, attraverso il coraggioso lancio di quel progetto autonomo, indipendente dai poli imperialisti e capitalisti mondiali  chiamato «economia socialista di mercato» e avesse invece mutuato le scelte «gorbacioviane», la Cina (invece di dotarsi di una propria, possente, autonomia) sarebbe stata, con ogni probabilità, preda, nella fase mondiale iperliberista successiva alla caduta dell’URSS, delle forze imperialiste; sarebbe stata penetrata da queste forze e avrebbe corso il forte rischio di una propria polverizzazione interna, di una propria implosione, a partire dall’immediata autonomia del Tibet, possibile primo mattone a cedere di un’intera struttura.

Oggi possiamo più agevolmente affermare, alla luce dei fatti compiuti, che le vittorie «denghiste» su Piazza Tienanmen e sul movimento di Hu Yaobang (con il conseguente pieno avvio di quello che sarebbe stato il più grande sviluppo economico e sociale della storia dell’umanità, lo sviluppo cinese attraverso «l’economia socialista di mercato») si sarebbero offerte quali decisive basi materiali per giungere – da lì a pochi anni e in una fase storica così difficile per il movimento comunista, rivoluzionario e operaio mondiale da consentire alle forze imperialiste di credere davvero nella «fine della storia» – alla costituzione di un fronte antimperialista, e comunque libero dall’egemonia imperialista, in grado di cambiare i rapporti di forza mondiali a sfavore degli USA e delle altre potenze imperialiste.

Parliamo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) che a soli 18 anni (un lampo, nella storia!) dalla caduta dell’URSS si uniscono – tra il 2009 e il 2010- al fine di sviluppare una politica non subordinata alle forze imperialiste e invece solidale con i popoli e gli Stati in via di liberazione. Un’unione, quella dei BRICS, che non è stata un fatto isolato, ma ha prodotto, attorno al cardine cinese, sempre più vasti campi di alleanze politiche ed economiche tra Paesi – dell’America Latina, dell’Africa, dell’Asia - in via di liberazione dall’egemonia imperialista. Costruendo un grande campo interattivo in espansione che è la vera e positiva novità storica di questa fase.

Ora, nuove contraddizioni attraversano i BRICS, tuttavia è del tutto evidente come l’immenso sviluppo economico (e dunque politico e geopolitico) cinese sia stato il massimo collante di questa unione, di questo nuovo campo tendente a «spuntare le unghie all’imperialismo».

Il tempo che ci separa dal 26 dicembre 1991 (autoscioglimento dell’URSS) ad oggi possiamo dividerlo – seppur rozzamente, ma per far «ordine» nel quadro internazionale – in tre grandi fasi: la prima, quella segnata dall’euforia imperialista successiva alla caduta dell’URSS e del campo socialista; la seconda, quella delle grandi lotte a carattere antimperialista e socialista che si alzano (raggelando il fronte che aveva «deciso» la «fine della storia») in tutta la loro evidenza in America Latina, che si allargano in Africa, che prendono forme antimperialiste diverse nella Russia di Putin, in India, che si consolidano in Vietnam e in altre aree dell’Asia. Tutte forme socialiste e antimperialiste che trovano nella Repubblica Popolare Cinese e nel suo sviluppo la loro prima e massima sponda, il primo alleato, il centro di gravità.

La terza fase che possiamo mettere a fuoco, in questo lasso di tempo che ci separa dal fallimento «gorbacioviano» e dalle sue catastrofiche conseguenze, è quella che oggi viviamo: la fase caratterizzata dalla risposta violenta, militare dell’imperialismo a guida USA e NATO all’«insurrezione» antimperialista internazionale” e al rafforzamento del fronte antimperialista mondiale che trova nella Cina Socialista il proprio cardine.
Come rispondono gli USA e la NATO alla ripresa di questo nuovo fronte antimperialista? Rispondono in due modi: con una nuova escalation militare sul piano mondiale ed un nuovo e vastissimo processo di militarizzazione internazionale da una parte; con un’acutizzazione dei processi di mondializzazione economica imperialista e con un neo-nazionalismo ed un neo-protezionismo – guidato da Trump - dall’altra.
Sia la nuova espansione militare USA e NATO che le nuove politiche economiche segnata dal neo-nazionalismo che dal neo-protezionismo contengono in sé – recuperando la volontà di guerra di quell’ imperialismo che volle la Prima Guerra Mondiale- tutti i prodromi della guerra.

Come risponde a questa nuova, attuale, politica economico-militare USA e NATO? La Cina Socialista risponde proponendo all’intero mondo una nuova politica economica caratterizzata da relazioni economiche e scambi commerciali vicendevolmente proficui tra Stati e Stati, tra popoli e popoli, risponde con un titanico progetto internazionale segnato dalla filosofia win-win e dalla Nuova Via della Seta.

Ed è del tutto evidente che, mentre le nuove politiche imperialiste USA caratterizzate dalla centralità del rilancio dell’industria bellica e dall’aggressività neo-nazionalista e neo-protezionista sono grondanti di guerra, è del tutto evidente come, al contrario, la politica economica cinese segnata dalla filosofia win-win e dalla Nuova Via della Seta abbia assolutamente bisogno, per svilupparsi, della pace sul piano mondiale.

La «legge» di Marx («il socialismo è lo sviluppo delle forze produttive») trova nell’attuale potenza internazionale cinese e del Partito Comunista Cinese, la sua probante conferma. Ed è, dunque, tale, rivoluzionario, sviluppo delle forze produttive che dobbiamo indagare, mettere a fuoco. Anche per rafforzare l’attuale pensiero politico-teorico comunista generale.

Nell’affrontare «la questione cinese» e, in particolare, la relazione tra la NEP di Lenin e la «NEP» cinese, credo sia utile affidarsi ad una disciplina teorica, la massima disciplina teorica, quella secondo la quale è dalla base materiale dello sviluppo delle forze produttive e dallo sviluppo sociale generale che trovano possibilità di sviluppo le stesse «idee» e, più precisamente, le innovazioni – antidogmatiche, dunque, per la loro stessa natura di «forme» innovative – sui terreni dell’economia, della politica, della teoria, del pensiero e della prassi della trasformazione sociale, della transizione al socialismo.
Ed è indubbio che il titanico sviluppo economico e sociale intrapreso e conquistato dalla Repubblica Popolare Cinese e dal Partito Comunista Cinese, dalla fase delle «Quattro Modernizzazioni» del compagno Deng Xiaoping e dalla via al «socialismo con caratteri cinesi», si sia offerto quale immensa e solida base materiale per lo stesso sviluppo di un nuovo pensiero rivoluzionario generale, di un nuovo e denso pensiero per la trasformazione sociale e la transizione al socialismo.
È questo – la relazione tra sviluppo della materialità delle cose e lo sviluppo teorico-filosofico in senso rivoluzionario – uno degli aspetti, dei «prodotti», della storica crescita materiale cinese, un aspetto, forse, non considerato ancora pienamente, nella sua importanza, all’interno del movimento comunista e rivoluzionario mondiale.

Ma un aspetto che, invece, occorrerebbe assumere pienamente, come formidabile arricchimento del bagaglio teorico e pratico del processo rivoluzionario, specie in questa fase storica segnata – oltre che da un avanzamento del fronte antimperialista trainato proprio dallo sviluppo cinese – anche da processi involutivi e di indebolimento del pensiero e della prassi comunista sul piano internazionale. Specie in Europa, ove con ogni evidenza l’«eurocomunismo» ha seminato i suoi danni. È anche da qui, dunque, dal contributo che lo sviluppo delle forze produttive cinesi, dal contributo che la «NEP» cinese ha fornito allo sviluppo dell’attuale pensiero rivoluzionario, che si può iniziare a tratteggiare un’analisi comparata tra NEP leninista, rimozione della stessa NEP leninista e «NEP» cinese, anticipando – in modo sintetico – una valutazione: come la conquista dell’obiettivo dello sviluppo delle forze produttive ha potuto darsi – in Cina – come base materiale dello sviluppo del pensiero rivoluzionario, così la troppo lunga stagnazione sovietica si è data – infine – come base materiale della cristallizzazione e dell’involuzione del pensiero e della prassi del socialismo in Unione Sovietica.

Quali sono le «categorie» centrali che, come proiezioni della propria, nuova, poderosa, forza materiale, la Cina socialista ha potuto mettere in campo?

Sinteticamente: il pieno ripristino dell’azione soggettiva e antipositivista nel processo storico (Lenin, Gramsci) e ciò in rapporto al rovesciamento del dogma secondo il quale la contrapposizione sarebbe secca: o socialismo o mercato; il superamento, nella prassi, dell’artificiosa dicotomia relativa alla «neutralità» o non «neutralità» delle forze produttive, dicotomia risolta, nell’esperienza del «socialismo con caratteri cinesi», dal controllo del Partito Comunista sulle stesse forze produttive (esigenza già richiesta, dal Lenin della NEP, nella proposta del «controllo dalle alture strategiche»), forze produttive ridotte a pure «funzioni» del progetto del «socialismo di mercato » a guida comunista; conseguentemente a ciò, una concezione del mercato come spazio economico e politico anch’esso funzionale al progetto di necessaria accumulazione originaria, imprescindibile per la transizione al socialismo, un mercato – dunque – pienamente assunto, nella prassi e nel pensiero, come forma storica non perenne ma dialettica, cavallo di Troia materiale per il socialismo. E altre categorie: come l’internazionalismo oggettivo (e soggettivo) che scaturisce dalla stessa potenza economica, in grado di mettere in campo relazioni e grandi e positive sfere d’influenza sul piano mondiale, capaci di mutare i rapporti di forza internazionali in senso antimperialista; e, ancora, la vera e propria cancellazione della «cultura» piccolo borghese (ma tanto funzionale alla critica imperialista alla Cina socialista) tendente a mitizzare le fasi preindustriali e contadine, demonizzando lo sviluppo economico.

Sia Flaubert che Marx ed Engels avevano già fustigato tale untuosa tendenza piccolo borghese: Flaubert nel romanzo «Bouvard e Pècuchet», dove è descritto il «desiderio» della piccola borghesia di «tornare alla terra in un mondo senza più l’orrore dell’industria», un desiderio che dura il tempo di conoscere la fatica bestiale dei campi, per poi celermente scomparire; Marx ed Engels nel «Manifesto del Partito Comunista», quando scrivono dell’«idiozia di una vita rurale racchiusa nella miseria e nell’ignoranza bruta». Il punto è che per l’ideologia piccolo borghese, anche «di sinistra», nulla è contato l’aver tratto fuori dalla miseria, come ha fatto il socialismo dai caratteri cinesi, quasi un miliardo di persone dall’orrore della fame e della morte per inedia.

Come nulla è contato, per questa stessa ideologia, anche «di sinistra», il fatto che lo sviluppo cinese abbia innestato un nuovo e potente motore nel camion dell’antimperialismo mondiale.
 
Marx ed Engels, per ragioni storiche, oggettive, non sono mai stati di fronte ai problemi pratici della costruzione del socialismo. E mai hanno potuto sviluppare un’analisi scientifica rispetto al rapporto tra economia di mercato e socialismo. È stato Lenin – a dimostrazione della propria inclinazione antidogmatica, la stessa che lo portò alla concezione dell’«anello debole della catena» – il primo comunista ad interessarsi alla questione. Naturalmente, il Lenin della presa del potere, dell’Ottobre, non metteva in discussione la concezione dell’incompatibilità tra socialismo e mercato. Una posizione rafforzatasi nella fase terribile della guerra contro gli undici eserciti stranieri e della controrivoluzione in atto.

In quella fase la concezione di Lenin era lineare: lo Stato doveva mettere sotto controllo totale sia la produzione industriale che le eccedenze dei raccolti del grano. In questo quadro «l’economia di mercato» e «il libero commercio» erano considerati, anche sul piano ideologico, concezioni contro-rivoluzionarie. Questa politica, come è noto, prenderà il nome di «comunismo di guerra» e terminerà all’inizio del 1921.

Ma, sconfitta la controrivoluzione, l’enorme massa dei contadini non accettò più i sacrifici imposti dal «comunismo di guerra» e Lenin si fece carico, più di ogni altro dirigente, della contraddizione sociale in atto, che lo portò a ragionare sull’esigenza dell’alleanza contadini-operai. Un’alleanza che Lenin, all’inizio, tentò di saldare anche attraverso un’innovazione politico-teorica: lo scambio di prodotti (baratto di merci) tra contadini e operai, tra grano e beni industriali. Non sarebbe stata la soluzione, ma un’epifania: l’indicazione di marcia, da parte di Lenin, era già potente, antidogmatica, una premessa della stessa NEP. NEP che partì nell’ottobre del 1921, quando Lenin si convinse della necessità dell’economia di mercato, linea che produsse non poche contraddizioni all’interno del Partito Comunista Russo, contraddizioni e resistenze che Lenin vinse ma sarebbero poi tornate, con Stalin, sotto forma di totale contrarietà, nella fase della fine della NEP.
 
Quale corredo politico-teorico lascia la breve esperienza della NEP leninista? Lascia, innanzitutto, una riflessione, da parte di Lenin, profonda e proficua, un vero e proprio apparato teorico (accantonato) a sostegno del «socialismo attraverso un’economia di mercato». Lenin mette a fuoco la concezione dell’«uklad», una struttura socialista, una produzione economica socialista in grado di svilupparsi proprio in virtù della competizione con le strutture neocapitalistiche interne al socialismo. Una visione, questa di Lenin, addirittura preveggente, rispetto alla futura stagnazione sovietica brezneviana e in accordo con lo stesso, odierno, tipo di sviluppo e proficua competizione stato-mercato del «socialismo con caratteri cinesi».
 
Oltre ciò, Lenin affronta il problema dell’entrata dell’economia di mercato (e persino del capitale straniero) nel socialismo in termini nuovi, sottolineando gli aspetti positivi, per ciò che riguardava e riguarda il necessario sviluppo generale delle forze produttive, di queste «entrate» capitalistiche.

Un altro aspetto anticipato da Lenin, nell’analisi del «socialismo di mercato», sta nel fatto che, in presenza di spinte neo capitalistiche nella struttura socialista, elementi «mafiosi», di corruzione, di involuzione burocratica possono inevitabilmente presentarsi. Ed è a partire da ciò che Lenin stesso proponeva una forte spinta politica e ideale ai fini della costruzione di un’autodisciplina nelle istituzioni pubbliche, oltre la proposta di un controllo esercitato contro le degenerazioni da parte del potere socialista. Ciò che dobbiamo rimarcare, da questo punto di vista, è il fatto che le degenerazioni di cui parlava Lenin si siano poi presentate, anche in forma massiccia, nell’esperienza sovietica priva di mercato, come a dire che non basta la cancellazione del mercato a impedire il formarsi della corruzione, questione che – ci sembra – sia presente al Partito Comunista Cinese, che sta intervenendo giustamente e con polso fermo contro i fenomeni di corruzione in seno al «socialismo con caratteri cinesi».

Non è senza significato, da questo punto di vista, il fatto che l’88% dei delegati al 19° Congresso del PC Cinese sia entrato nel Partito dopo le riforme di Deng.

La stessa questione – ai fini rivoluzionari e di sviluppo del socialismo – dell’«apprendimento» (categoria sviscerata nella ricerca leninista di allora) da parte del socialismo dei meccanismi produttivi capitalistici era considerata da Lenin centrale; come centrale, architrave del processo, era considerata da Lenin la concezione delle «alture strategiche», terminologia mutuata dalla guerra e utilizzata per rimarcare, da Lenin, l’esigenza del controllo socialista su tutto il piano NEP, il controllo del potere rivoluzionario sullo stesso «socialismo di mercato ». Cosa è stata, in fondo, la giusta reazione del Partito Comunista Cinese in Piazza Tienanmen, quando l’imperialismo USA soffiava sul fuoco, se non l’applicazione rivoluzionaria della difesa del socialismo dalle «alture strategiche»?

Possiamo, anche in questo caso, fare ricorso ad un intervento che appare nel libro di cui parliamo questa sera libro, quando si citano le parole che Gillo Pontecorvo fa pronunciare ad Alì Ben Mihdi ne «La Battaglia di Algeri»: «Cominciare una rivoluzione è difficile, anche più difficile continuarla, e difficilissimo vincerla. Ma è solo dopo, quando avremo vinto, che inizieranno le vere difficoltà!».

E che cos’è – se non una mutuazione delle categorie leniniste – la parola d’ordine uscita dal 19° Congresso del PC Cinese relativa al «maggior controllo», da estendere per la difesa del socialismo, da parte del Partito»?
 
La NEP leninista, seppur tra difficoltà e contraddizioni, favorì un grande sviluppo economico, riconosciuto come tale anche da Lenin nei suoi scritti precedenti la morte. Uno sviluppo che non aveva inficiato il progetto ed il potere socialista, ma l’aveva persino rafforzato nel senso comune del popolo sovietico.
 
Lenin muore nel gennaio del 1924 e la NEP inizia a spegnersi da quella data. Si protrae, di fatto, sino al 1930, ma, con la «collettivizzazione forzata delle campagne», condotta da Stalin, essa termina di esistere.
 
Colpa di Stalin? Noi comunisti ci rifiutiamo di rispondere in questi termini alla domanda. La demonizzazione di Stalin è già così potentemente portata avanti dall’occidente capitalistico che non ha bisogno dell’aiuto dei comunisti. Noi possiamo e dobbiamo criticare anche l’azione di Stalin, come i compagni cinesi criticano la «Rivoluzione Culturale», ma, come il PCC che rivaluta l’azione rivoluzionaria storica di Mao, noi comunisti italiani sappiamo rivalutare l’azione rivoluzionaria storica di Stalin.
 
Altra cosa è un’analisi profonda e seria relativa al superamento della NEP da parte di Stalin, analisi che ancora non è sufficientemente sviluppata e che deve invece svilupparsi, anche perché riguarda una fase decisiva per arricchire lo stesso bagaglio teorico del movimento comunista mondiale.
 
Certo è che Stalin va dritto verso l’abolizione della legge del valore, non delineando una fase di passaggio e di transizione al socialismo; risponde con più «automatismi» ideologici, nella lotta contro il mercato, rispetto alla creatività teorica e politica di Lenin e, soprattutto, Stalin inizia ad operare in un contesto segnato dal riarmo e dall’aggressività bellica imperialista, delle spinte alle quali si aggiungono, all’interno dell’URSS, nuove tensioni e contraddizioni, date anche dallo sviluppo spurio e non ancora reso armonico al socialismo della NEP. Spinte belliche imperialiste e contraddizioni interne che inducono Stalin a decidere che l’URSS, in quella fase, non può reggere le politiche e le inevitabili contraddizioni della NEP e che, dunque, la Nuova Politica Economica va disinnescata.
 
D’altra parte, è un insegnamento della stessa, attuale, esperienza cinese che il «socialismo di mercato», e comunque un processo di transizione al socialismo, ha innanzitutto bisogno di un contesto internazionale di pace. E tale assunto è facilmente constatabile proprio in questa fase: contro la nuova, gigantesca «One Belt One Road», la Nuova Via della Seta cinese, dal successo della quale può oggettivamente partire un grande aiuto sia alla pace mondiale che alle fortune del socialismo, si erge la contrarietà imperialista, che si materializza, intanto, attraverso il minaccioso rafforzamento della flotta militare USA e NATO nei Mari del Sud della Cina e nei porti delle Filippine; attraverso la rimilitarizzazione, sostenuta dagli USA, del Giappone; attraverso la costruzione di uno scudo stellare nella Corea del Sud contro la Corea del Nord; attraverso il moltiplicarsi delle esercitazioni militari USA-Corea del Sud; attraverso la demonizzazione della Corea del Nord e attraverso la collocazione di basi militari USA e NATO sia in Ucraina che in Afghanistan, motivo primario degli interventi militari USA e NATO in questi due Paesi.
 
Per riprendere il filo del discorso sull’economia sovietica, discorso funzionale allo studio del «socialismo dai caratteri cinesi»: cosa sostituisce, Stalin – ai fini della produttività di massa, dello sviluppo delle forze produttive e ai fini di una nuova accumulazione – alla NEP? Indubbiamente Stalin sostituisce alla Nuova Economia Politica la forza intrinseca dello stesso socialismo sovietico che va (dentro un mondo ostile e di fronte alla concezione quasi planetaria di un capitalismo concepito come «natura» e dunque insuperabile) controstoricamente costruendosi; costruzione concreta alla quale, tuttavia, aggiunge elementi fortemente idealisti che hanno la forza di protrarsi nel tempo (il lavoro d’assalto, l’emulazione, lo stakanovismo, l’onda lunga e idealista della Rivoluzione d’Ottobre, che tutto unisce e spinge) ma che – proprio perché elementi non materialisti – possono durare sino alla vittoria sul nazifascismo e non evitare la grigia caduta ed evaporazione nella lunga stagnazione brezneviana. Nel senso, prosaico ma concreto, che non si poteva chiedere l’emulazione di massa e lo stakanovismo alle generazioni venute dopo la guerra. Persino Ernesto Che Guevara (un iper idealista), per ricordare la storia, da Ministro dell’Economia, dopo la Rivoluzione Cubana, punta, dopo deludenti esperienze sul campo del la mobilitazione sentimentale, a introdurre, per aumentare la produttività, il cottimo. Introduzione vissuta da Guevara come una sconfitta.
Dopo la NEP, l’Unione Sovietica non conosce più altro sistema che quello dello «Stato totale», dove, mano a mano, la spinta alla produttività e allo sviluppo delle forze produttive va anchilosandosi. Nel sistema viene a presentarsi anche una contraddizione di natura degenerativa: una sorta di scambio tra mancanza del mercato e delle merci, mancanza di democrazia sovietica e allentamento, sino quasi alla cancellazione, del controllo nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro e di produzione. Uno sviluppo senza più la NEP di Lenin né l’idealismo ed il controllo di Stalin.
 
Il processo ideologico di «svalorizzazione» del lavoro e della produttività diviene una sorta di involucro che tutto segna di sé e, in questa palude, la riproduzione della produzione e dei mezzi di produzione – che va avanti, dalla fine degli anni ’60 in poi, come una coazione a ripetere, senza dinamizzazioni o svolte significative – diviene un processo in via d’esaurimento.

Nella mancanza – spesso disperata, per i cittadini sovietici – delle «merci leggere» e di consumo di massa, vi è molto dell’«ideologia» della stagnazione: la scelta di perpetuare un’economia di merci pesanti, a discapito delle condizioni di vita dei cittadini e del consenso di massa e a discapito dell’apertura di un più vasto mercato interno e della possibilità, da parte dell’URSS, di puntare ai mercati mondiali, la si spiega anche con la supposta, «diversa», coscienza del popolo sovietico, non incline, per questa ideologia, alla necessità delle merci. Un errore madornale nell’interpretazione di un popolo, dei lavoratori: non vi era bisogno, per liberarsi dalle fatiche famigliari, di una lavatrice? Non vi era bisogno di un frigorifero, di un ferro da stiro facilmente reperibili sul mercato? Non vi era bisogno, per un popolo e per una classe operaia, contadina, che tanto avevano dato alla Rivoluzione, alla difesa della Rivoluzione e alla sanguinosa lotta contro il nazifascismo, di una economia volta alla produzione di massa di merci «leggere», di consumo popolare?

Non vi furono, nell’URSS, grandi innovazioni sul campo economico. Uniche eccezioni di rilievo, i tentativi delle due riforme condotte da Aleksej Kosygin, che prima nel 1965 e poi nel 1973, tentò di dinamizzare l’economia sovietica a partire, soprattutto, dal superamento della burocratizzazione ministeriale dell’economia, attraverso la costituzione di associazioni produttive a livello repubblicano e locale. Paradossalmente, una via che aumentava i poteri del Comitato di Pianificazione di Stato (il Gosplan) sottraendoli, appunto, ai gangli burocratici distanti dalla produzione. Le due riforme Kosygin, benché lontane dallo spirito della NEP e solo timidamente evocanti il ritorno a minimi meccanismi di mercato, furono insabbiate, pur non fallendo (si ricorda lo sviluppo produttivo imperioso delle automobili «Gorkii», a Leningrado). Il sistema anchilosato aveva «digerito» Kosygin.
 
Certo è che le cause della caduta dell’URSS non vanno solo ricercate nella stagnazione e nel mancato e pieno sviluppo delle forze produttive; la lunga sfida militare imperialista volta a dissanguare l’economia sovietica sull’altare del riarmo; il possente e continuo aiuto internazionalista, di tipo materiale e diretto in ogni continente; i veri e propri tradimenti di Gorbaciov, la mancata vittoria, prima di lui, della linea Andropov, l’accidia dell’Armata Rossa, incapace di respingere il «golpe» di El’cin: tutto ciò è stato decisivo.

Tuttavia, la base materiale della resa e dello scioglimento dell’URSS non può che rintracciarsi, innanzitutto, sull’assenza – infine – di un’economia forte, di forze produttive in grado di sostenere lo scontro e preparare il futuro. Ed è questa un ulteriore lezione che, oggi, ci viene dallo sviluppo cinese: le basi materiali e lo sviluppo delle forze produttive garantisco anche il futuro del socialismo. Significativo, da questo punto di vista, è il rilancio, avvenuto al 19° Congresso del PC Cinese, dei valori politici e ideali
del socialismo, del progetto rivoluzionario a breve e lungo termine.
Noi riteniamo che il passaggio, in Cina, dalla Rivoluzione Culturale alle «Quattro Modernizzazioni» e poi al progetto compiuto di «socialismo dai caratteri cinesi» sia stato non solo necessario per la Repubblica Popolare Cinese e per il popolo cinese (per tanta parte uscito dalla miseria ed entrato nella modernità), ma anche per l’intero arco delle forze antimperialiste, anticolonialiste e comuniste del mondo, che dopo la scomparsa dell’URSS hanno ritrovato nella Cina dello sviluppo economico, e nei BRICS, una sponda potente e un punto di riferimento solido. Non è la questione o il desiderio di un nuovo «faro internazionale », del quale i partiti comunisti del mondo e le forze antimperialiste e rivoluzionarie non hanno bisogno: è la questione di un’accumulazione di forze materiali (e, dunque, dialetticamente, ideali) sul piano mondiale, capace di fronteggiare e far arretrare le forze imperialiste.

La Rivoluzione Culturale cinese aveva fatto innamorare di sé anche la piccola borghesia occidentale di sinistra, molto e idealisticamente attratta dalla miseria e dal sacrificio del popolo cinese, «esempio» – per la piccola borghesia – di «una più alta vita». La Cina aveva invece bisogno di ergersi nel mondo attraverso quello che lo stesso Marx individuava come il motore della Storia: lo sviluppo delle forze produttive.
 
Le concezioni politiche e teoriche che vanno forgiandosi in Cina, in questa fase di impetuosa crescita, sono già e potranno ancor più essere – senza rapporti di subordinazione, ma con rapporti leali e creativi – ricca materia teorica per altre esperienze di sviluppo socialista: il ruolo guida – nel progetto di sviluppo delle forze produttive – del Partito Comunista Cinese (ruolo guida che mutua la concezione leninista delle «alture strategiche»); il Partito Comunista come avanguardia del proletariato e della Nazione, in una visione della «totalità delle cose», della fase e del quadro sociale e politico, una pratica della totalità volta a trainare tutto l’immenso Paese cinese verso il socialismo; l’unità transeunte tra Partito Comunista, proletariato e borghesia, nella fase storica in cui essa è funzionale allo sviluppo delle forze produttive ed esse alla transizione al socialismo; la sollecitazione strategica alla costruzione delle «aree speciali» neo capitaliste, aventi il compito di accelerare i processi di accumulazione della ricchezza generale al fine di altri investimenti sociali, tecnologici, scientifici; l’attenzione e la lotta del Partito contro le inevitabili aree di corruzione che si aprono (come si sono, peraltro, aperte anche nell’URSS priva di mercato) nel «socialismo di mercato»; la consapevolezza (che il Partito Comunista Cinese ha totalmente e lucidamente) delle inevitabili contraddizioni che la presenza, voluta dallo stesso progetto socialista di un neocapitalismo interno, produce in termini di pulsione al potere politico da parte del potere economico accumulato dal neocapitalismo e, dunque, l’apertura di una lotta di classe sociale e politica che il Partito Comunista, dopo aver provocato, vuole e deve vincere.

La stessa «Teoria delle tre rappresentatività» (l’unità storica tra operai, contadini e intellettuali, che deve allargarsi alla cultura d’avanguardia e agli interessi di massa), appare un’innovazione funzionale alla fase di transizione cinese, una linea, peraltro, già praticata da altre esperienze rivoluzionarie e comuniste di altri Paesi e in altre fasi storiche.

Negli odierni passaggi cruciali della politica cinese e nelle stesse scelte strategiche del Partito e del governo della Repubblica Popolare è confermata in toto la bontà marxista della centralità dello sviluppo delle forze produttive: nel Piano Quinquennale 2016 – 2020 (rilanciato dal 19° Congresso del PC Cinese) viene presentato un immenso progetto ambientalista, di sviluppo ecocompatibile che non ha pari al mondo e che solo avendo sviluppato precedentemente le forze produttive ora può concretizzarsi.

Sappiamo che l’imperialismo, specie quello nord americano, teme lo sviluppo cinese e ha gli occhi, e non solo gli occhi, puntati su Pechino: sarà nostro dovere di comunisti, di internazionalisti, stare dalla parte giusta, dalla parte della Repubblica Popolare e del Partito Comunista Cinese.
 

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