Corea del Nord, sul castigo delle tre generazioni

Corea del Nord, sul castigo delle tre generazioni

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di Francesco Alarico della Scala

Nel suo recente podcast con Jordan Peterson, la famosa Yeonmi Park ha detto che, «se una persona sbaglia in Corea del nord, non significa che solo tu vieni punito; sono punite da 3 a 8 generazioni. Così quando un dirigente d’alto rango è fuggito, hanno ucciso più di 30.000 persone, per la diserzione di un singolo individuo».

 

La continua e arbitraria moltiplicazione dei numeri dovrebbe essere un chiaro segno di inattendibilità, eppure il “castigo delle tre generazioni” è finito persino a pag. 217 del rapporto dell’Onu sui diritti umani nel 2014. E il bello è che esisteva davvero in Corea… ma nell’Ottocento.

 

Scrive lo storico Maurizio Riotto: «La legge della “colpa fino alla terza generazione” (Isamjok. Cinese: Yisanzu), poi, prevedeva la morte per tutti i discendenti maschi (fino appunto alla terza generazione) del colpevole di alto tradimento, dato per scontato che la discendenza dei felloni doveva estinguersi e il loro seme seccare» (Storia della Corea, Bompiani, Milano 2018, p. 325).

 

Questa usanza tradizionale in vigore nel periodo Choson viene spacciata dagli “esperti” occidentali per un’invenzione di Kim Il Sung, il quale nel 1974 (o nel 1972, o ancora negli anni ’50: una data a caso vale l’altra) avrebbe detto: «Il seme dei nemici di classe, chiunque essi siano, deve essere estirpato attraverso tre generazioni» (in B. Harden, Fuga dal Campo 14, Codice Edizioni, Torino 2014, p. 26).

 

Ma questa frase non figura in nessuno dei 100 volumi delle sue Opere complete, né nei documenti riservati ogni tanto trapelano all’estero, e contraddice bensì tutte le direttive del leader che esortava i funzionari del partito a non avere pregiudizi contro i figli di traditori della patria e nemici di classe. I documenti del caso sono accessibili al lettore italiano fin dal 1969, quando fu tradotta l’antologia “Su alcuni problemi del lavoro di partito”.

 

Di fatto non esiste alcuna fonte di prima mano che attesti l’esistenza di una legge simile nella RPDC, e anche i detrattori del regime ammettono che «…le fonti primarie di informazione continuano ad essere i rifugiati, i cui fini e credibilità non sempre sono senza macchia. In Corea del Sud, così come altrove, hanno spesso un bisogno disperato di guadagnarsi da vivere, e sono quindi ben disposti ad assecondare i preconcetti di attivisti per i diritti umani, anticomunisti e ideologi di destra. Alcuni sopravvissuti rifiutano di parlare a meno che non li si paghi in anticipo e in contanti, altri ripetono aneddoti succosi che hanno sentito raccontare, ma di cui non sono stati personalmente testimoni» (B. Harden, op. cit., p. 33).

 

Il Codice penale nordcoreano è pubblicamente consultabile: Criminal Law of the Democratic People's Republic of Korea (2015) — Law and North Korea

 

E stabilisce il carattere personale della responsibilità, il nullum crimen sine lege e gli altri principi del diritto moderno.

 

Il concetto di “colpa collettiva”, contro cui giustamente si scaglia Peterson, è tutta farina del sacco dei liberali postmoderni e non esiste nell’ordinamento giuridico degli Stati socialisti.

 

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