Dopo Haiti l'insolita crisi cubana: il ruolo delle "agenzie" Usa nei Caraibi
Un’ondata di turbolenza ha investito i Caraibi che dopo l’assassinio del presidente di Haiti, Jovenel Moïse, vede aprirsi un’insolita crisi cubana, con manifestazioni di piazza contro il governo. Sull’assassinio del presidente haitiano le tracce di una possibile mano americana iniziano a essere pesanti, come evidenziato dalla Cnn.
Il ruolo della “agenzie” americane
In un servizio del 13 luglio, Evan Perez ha rivelato che una delle persone arrestate era un’informatore della Dea, come confermato anche dall’Agenzia anti-droga Usa. Curiosa la ricostruzione, che vede l’informatore in questione contattare l’attaché della Dea ad Haiti subito dopo la missione.
In seguito al contatto, spiega la Cnn, l’uomo della Dea e un funzionario del Dipartimento di Stato americano avrebbero a loro volta contattato le autorità haitiane per “guidarle” alla cattura dell’uomo.
Da ricordare che commandos si era approcciato alla residenza del presidente dichiarando che era in corso un’operazione della Dea (l’Agenzia ha ovviamente smentito il coinvolgimento).
Non solo l’agente della Dea, anche altri componenti del commandos sarebbero collaboratori dell’Fbi, spiega la Cnn, che ha contattato anche il Boureau per conferme, che ovviamente non sono arrivate (non si danno informazioni sui collaboratori, hanno risposto).
Gli arresti e l’ambasciata di Taiwan
Le autorità haitiane hanno arrestato il presunto capo del complotto, Christian Emmanuel Sanon, un medico haitiano residente in Florida, che aveva contattato un’Agenzia di contractors Usa per mettere su una squadra di armati allo scopo dichiarato di vigilare sulla sua sicurezza in vista di una sua partecipazione alle elezioni haitiane.
La squadra si era poi trasferita ad Haiti, dove nel frattempo era sbarcato anche lui, ma alla spicciolata, in forma anonima, particolare che stride con un servizio di vigilanza.
Un mese dopo, il commandos ha messo in atto l’operazione contro Moïse. Operazione che, abbiamo scritto in altra nota, deve esser stata bruciata da un qualche intervento esterno, che ha impedito agli assassini di lasciare indisturbati l’isola.
Qualcuno, infatti, deve aver avvertito le autorità locali, spiegando loro i dettagli della missione e i responsabili. Solo questo spiega la tempestiva caccia all’uomo della polizia haitiana: sapeva chi cercare.
Così l’informatore della Dea, sentendo il fiato sul collo, ha subito contattato il suo referente ad Haiti, al quale deve aver chiesto protezione. È evidente che l’attaché ufficiale della Dea deve aver contattato il suo referente al Dipartimento di Stato, il quale, avendo visto la mala parata, ha consigliato di consegnare il loro uomo: c’era il rischio di un coinvolgimento ufficiale degli Stati Uniti in questa torbida vicenda.
Quel che è avvenuto per l’uomo della Dea sembra essersi ripetuto con i funzionari dell’ambasciata di Taiwan: anche qui la polizia locale è stata guidata ai fuggiaschi dai funzionari della sede diplomatica, che hanno segnalato la presenza di 11 uomini del commandos all’interno della loro residenza.
“Per aiutare Haiti, smettila di cercare di salvarla”
In altra nota abbiamo accennato alla bizzarria di cercare rifugio in una sede diplomatica: il parallelo tra la segnalazione del Dipartimento di Stato e quella dei funzionari dell’ambasciata può suggerire cose.
Al di là delle bizzarrie, resta che anche la Cnn non può che registrare che l’operazione haitiana è stata “almeno in parte programmata negli Stati Uniti”, anche se probabilmente al di fuori delle catene di comando.
Un’operazione ben pianificata, come dimostra il fatto che gli agenti preposti alla sicurezza del presidente sono rimasti inerti (alcuni sono indagati), ma bruciata da qualche interferenza imprevista, di qualche agenzia presente nei Caraibi e sottovalutata… ipotizzare che ad allertare la polizia locale siano stati i servizi cubani è azzardato, ma ha una sua suggestione.
Com’è probabile che l’allarme pervenuto da Haiti abbia non poco irritato il Dipartimento di Stato Usa, che ha agito prontamente per evitare di essere coinvolto nella missione bananera.
Ipotesi, mere ipotesi, ma che spiegherebbero tante incongruenze. E magari anche l’incendio cubano, con manifestazioni improvvise e imprevedibili solo il giorno prima, come accade per le rivoluzioni colorate made in Usa.
Un modo per segnalare che certe interferenze non sono gradite. Ma al di là delle suggestioni, restano alcune domande. La prima riguarda Cuba, dove le manifestazioni potrebbero essere un fuoco di paglia – troppo improvvisate per durare – oppure l’inizio dell’incendio.
La seconda riguarda il futuro di Haiti: a prendere il potere nell’emergenza è stato il primo ministro Claude Joseph, il quale ha chiesto all’America aiuto per l’indagine e di inviare suoi militari a presidio dei gangli vitali dello Stato.
Biden nicchia, forse condividendo i dubbi espressi da Bret Stephens sul New York Times in un articolo dal titolo: “Per aiutare Haiti, smettila di cercare di salvarla”, nel quale descrive i tanti fallimenti Usa riguardo l’isola, a iniziare dall’invasione del 1915 per finire con l’interventismo dei Clinton degli ultimi anni, che ha suscitato imbarazzanti domande.
Come domande suscita il ruolo di Claude Jospeh, che Usa e Onu hanno riconosciuto come autorità dell’isola nonostante fosse stato sostituito dal defunto Moise il giorno prima del suo omicidio con Ariel Henry.
Tanti, nell’ambito dell’opposizione, chiedono che a decidere del governo sia il Parlamento. Dinamiche che purtroppo non appartengono alle repubbliche delle banane, almeno a quelle che gli Usa considerano tali.