Il balsamo Grossman sull’abisso di Gaza
di Pasquale Liguori
Ora che - tardivamente, meglio che mai - l’opinione pubblica internazionale inizia a indignarsi per la carneficina perpetrata da Israele a Gaza, la parola “genocidio” affiora con sempre meno indugi. Non la troverete però nei testi di David Grossman, il celebre scrittore israeliano osannato dopo un’intervista rilasciata a Repubblica il 22 maggio, in cui - a distanza di venti mesi - concede che forse “il trauma iniziale” del 7 ottobre impallidisce di fronte all’annientamento sistematico inflitto a Gaza. Sembra una presa di coscienza. Non lo è. È un automatismo collaudato: quello di offrire copertura etica, lenitiva, a un’occupazione che mira a continuare indisturbata, superato il fastidio temporaneo dell’indignazione globale.
Grossman non è un carnefice, ed è proprio questo che lo rende funzionale: offre un riflesso rassicurante in cui l’Occidente si osserva con compiacimento quando non riesce più a difendere i crimini che ha sostenuto per calcolo politico, economico, strategico. Lo scrittore israeliano incarna il pensiero progressista d’arredamento: raffinato, apparentemente empatico, perfettamente integrato nel perimetro dell’accettabile. È il volto umano della coscienza sionista, comodo per chi ha giurato fedeltà incondizionata a Israele, ha criminalizzato ogni forma di resistenza palestinese, ha riservato lacrime solo alle vittime israeliane. Tutto questo mentre Gaza veniva ridotta a polvere e sangue, e bambini, donne, anziani, civili senza difese venivano deportati, mutilati, bruciati vivi, dilaniati.
Chi per mesi ha difeso “l’unica democrazia del Medio Oriente”, chi è accorso in processione diplomatica a Tel Aviv, chi ha brandito la formula “né con Hamas, né con Israele” come premessa di facciata per tutelare carriera e privilegi, oggi trova conforto nelle parole di Grossman: una voce capace di dosare toni severi e compassione selettiva, di evocare dolore senza mai incrinare davvero l’ordine simbolico che giustifica l’oppressione.
E già perché nei giorni immediatamente successivi al 7 ottobre, Grossman parlava di “tradimento dei politici israeliani”, non dell’orrore strutturale dell’occupazione. Paragonava Netanyahu a Ceausescu, evocava la “casa del popolo ebraico”, ignorando deliberatamente le case sventrate dei palestinesi. Il 16 ottobre, ospite da Fazio, giustificava - con tono dolente e sommesso - una “punizione” da infliggere a Gaza, sostenendo il diritto di Israele a reagire. Nessuna menzione delle tonnellate di esplosivo sganciate su quartieri civili, dell’uso sperimentale di sistemi di morte che di “intelligente” avevano solo la crudeltà algoritmica, della distruzione metodica di scuole, ospedali, infrastrutture vitali. Solo cinque mesi più tardi, con il bilancio delle vittime palestinesi già oltre le 30mila “ufficiali”, Grossman ha iniziato a riflettere sull'effettivo peso anche di quelle sue brutali reazioni iniziali.
Oggi, mentre una parte dell’opinione pubblica globale comincia appena a scuotersi, Grossman offre il rifugio perfetto: dice che il 7 ottobre non giustifica tutto, che Israele cade nell’abisso. E intanto offre a diplomatici, commentatori, politici europei una giustificazione confezionata su misura: “Lo dice anche Grossman. Israele ha esagerato, ma non è tutta colpa sua. C’è ancora speranza.”
La retorica ufficiale ha trovato la valvola di sfogo perfetta: tutto il disastro è colpa di Netanyahu e dei suoi accoliti estremisti. Ma la struttura coloniale sionista, quella che ha pianificato e condotto il genocidio, resta intatta. Nessuno, tra diretti interessati e complici, rimette in discussione il diritto al ritorno dei profughi. Nessuno tocca la natura violenta, etnica e razzista di Israele. Nessuno chiede lo smantellamento degli insediamenti. Piuttosto, si fantastica su una Gaza offshore, trasformata in Riviera.
Grossman non è un estremista, e proprio per questo è efficace: è lo scrittore che ti consente di sentirti critico e sensibile, senza mai obbligarti a mettere in discussione la logica che ha generato occupazione, deportazioni, razzismo, apartheid. È la coscienza anestetizzata del colonialismo, il volto rassicurante dell’impunità.
È una voce che non infrange l’ordine esistente: lo preserva. Un alibi narrativo attraverso cui l’Occidente cerca di ripulirsi, dopo mesi di silenzio complice e sostegno attivo. Mentre i palestinesi contano i cadaveri, seppelliscono i figli, piangono famiglie intere spazzate via, a parlare è ancora una volta un intellettuale israeliano, uomo giusto, ancora il salvatore dall’interno.
Il discorso di Grossman non è uno spiraglio: è un tappeto steso davanti all’ennesima ipocrisia. Dietro le sue parole, l’occupazione non si ritira. Le terre non tornano ai legittimi proprietari. E i bimbi ammazzati di Gaza non resuscitano.