Il discorso di Draghi e l'ultimo ordine per gli Stati (che pochi hanno colto)

Il discorso di Draghi e l'ultimo ordine per gli Stati (che pochi hanno colto)

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di Giovanni Barbieri

 
Ascoltare il discorso di un Governatore di Banca Centrale è sempre un momento unico, in primo luogo perché è una voce “indipendente” che parla, in secondo luogo perché da quelle parole proferite 2-3 volte l’anno emergono grandi verità che quotidianamente i sistemi politici tentano di tenere nascoste. 

Se poi la Banca Centrale è quella europea e il Governatore è Mario Draghi, l’esperienza si trasforma in un momento ogni volta unico e irripetibile.

A fine Maggio, il 26 e il 27, è avvenuto un fatto singolare: è bastata una due giorni di G7 a Iso-Shima, in Giappone, per fare sì che l’outlook economico globale cambiasse da “disastroso” a “moderatamente positivo”. I governanti europei sono partiti con un diavolo per capello, e sono tornati a casa con grandi e larghi sorrisi carichi di ottimismo, relativamente alle prospettive di crescita dell’area euro. Segnale, questo, che non c’è affatto da stare allegri. 

Giusto ieri, al Forum Economico di Bruxelles, Draghi ha riportato tutti con i piedi per terra, tanto per ricordare che la commedia, anche tra i teatranti, non può continuare all’infinito.

Nel suo discorso, in puro stile “governatoriale” (che potrebbe essere tranquillamente annoverato tra i generi letterari moderni), ha sintetizzato con efficacia i problemi che caratterizzano l’economia europea, le cause che ne stanno alla base e le soluzioni da adottare per risolverli. 

Ha esordito prendendo di petto le Sparkassen tedesche, che da mesi lo incalzano a proposito della politica di tassi negativi dell’Eurotower. Parallelamente all’azzeramento del tasso di interesse a breve termine, una manovra finalizzata a iniettare liquidità nel sistema attraverso l’azzeramento della remunerazione del capitale, la BCE ha fissato tassi Overnight negativi, cosa questa che costringe le banche più “liquide” a tenere ferma la liquidità nei propri caveaux, invece di depositarla presso la BCE.

La manovra, intesa a “forzare” le banche a concedere più prestiti e mutui, ha sollevato i malumori dei tedeschi, che hanno le banche con più liquidita (ma anche con più NPL) e che adesso sono costrette a pagare in media lo 0,178% di interessi sulla liquidità in eccesso (con gli attuali tassi, se depositassero Overnight presso la BCE, pagherebbero lo 0,3%). Draghi respinge al mittente le accuse teutoniche, commettendo eresia, e difende la sua politica di tassi zero per riportare inflazione nell’area Euro. I tedeschi obiettano che questa politica è inefficace, dal momento che tassi zero e “Quantitative Easing” ad libitum hanno l’unico effetto di incoraggiare la politica degli altri paesi europei a non realizzare le riforme strutturali necessarie.

Quali sarebbero queste riforme strutturali? Si tratta, essenzialmente, del solito mantra: abbattimento della spesa pubblica e riduzione della pressione fiscale. Questo è almeno ciò che auspica Draghi, che mette in guardia i governi europei dal rischio che si corre a non attuare tali riforme al più presto.

La preoccupazione più immediata di Draghi è che un ritardo nell’adeguamento delle politiche economiche nazionali alla politica monetaria europea possa, nel medio termine, causare una contrazione del livello potenziale della produzione, portando la capacità produttiva europeo ad un livello più basso di quello pre-crisi. Inserisce però un elemento sempre più ricorrente nelle sue esternazioni ufficiali: la politica di bilancio non deve essere necessariamente macroeconomica, disponibile solo per i paesi con finanze pubbliche forti. I paesi con finanze pubbliche da consolidare (vedi l’Italia) possono, e anzi dovrebbero, ricorrere a politiche di bilancio microeconomiche. Traduzione: per chi non si può permettere politiche di investimento pubblico e stimolo agli investimenti, ci sono sempre le soluzioni basate sulle liberalizzazioni, riforma del mercato del lavoro e della relativa legislazione e regolamentazione. 

Draghi afferma anche che “sebbene ci siano valide ragioni politiche per ritardare queste riforme, non ce ne sono di valide dal punto di vista economico”. Traduzione: anche se sappiamo bene che l’intervento a livello microeconomico è anti-popolare perché comprime i diritti e abbassa il benessere di ampi strati della popolazione, l’economia lo chiede.
 
E conclude con una riflessione, forse la parte più importante, del suo discorso. Per riportare la produzione al suo livello potenziale, “è necessario ridurre il tasso di disoccupazione tendenziale che rimane troppo alto in alcuni paesi” e “aumentare il livello di partecipazione, che rimane al di sotto della norma rispetto ai livelli internazionali in molte giurisdizioni”. Subito dopo, però, riconosce che “il declino demografico europeo” è, assieme all’assenza di riforme strutturali, la seconda grande causa di stagnazione.

Neanche l’integrazione dei flussi in entrata di immigrati può contribuire a mitigare gli effetti di questo trend, che può essere neutralizzato soltanto attraverso l’aumento della produttività. In sostanza, traducendo ancora una volta, i paesi che non hanno finanze pubbliche tali da consentire l’implementazione di politiche di investimento pubblico e sostegno ai redditi, devono adottare politiche finalizzate alla compressione dei salari ed all’innalzamento dell’orario lavorativo. In sostanza, devono regolamentare in maniera equivocabile quello che, fino ad ora, era stato l’effetto perverso di una integrazione monetaria senza capo né coda, ovvero la riduzione del saggio salariale. Se fino ad oggi i lavoratori, specie negli Stati membri meridionali, hanno conosciuto una riduzione dei propri salari principalmente in termini di svalutazione reale nei confronti delle economie centrali dell’UE, da domani dovranno essere pronti ad accettare la dura realtà di una legislazione che quel salario glielo impone (o, al limite, dell’assenza di una legislazione che ne eviti l’imposizione).
 
E’ proprio quest’ultima considerazione che fa allargare il sorriso sulla bocca, dal momento che, contemporaneamente, super-Mario richiama tutti all’importanza di procedere ad un ulteriore e definitivo approfondimento dell’Unione Monetaria e, in generale, dell’integrazione europea. Un’integrazione armoniosa, fondata sulla distinzione tra Stati centrali ricchi e Stati periferici sofferenti o poveri, che vede gli ultimi impegnati a sottomettere le proprie popolazioni al servizio di una economia “europea” forte sullo scenario globale (e favorevole agli interessi tedeschi). 

Più che un eretico, Draghi sembra un assist-man.

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