Il Kosovo nella storia nazionale serba attraverso la vita e le opere di Nadežda Petrovic

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Il Kosovo nella storia nazionale serba attraverso la vita e le opere di Nadežda Petrovic

 

di Chiara Nalli

La prima volta in cui vidi un quadro di Nadežda Petrovic mi trovavo all’aeroporto di Belgrado. Era il 2013 ed il museo nazionale non era ancora stato riaperto, dopo la chiusura disposta nel 2003 a causa dell’inadeguatezza della struttura; alcuni dipinti tra i più celebri erano in quel periodo esposti in un vano di cartongesso nella sala d’attesa del piccolo aeroporto. Li, mentre aspettavo il mio volo per Roma, rimasi profondamente colpita dal volto (autoritratto) di questa giovane donna e da un paesaggio raffigurante una stradina di campagna costeggiata da una staccionata: entrambi sembravano attraversati da quella strana combinazione di cupa tristezza e forza indomita; la stessa sensazione che emana dai paesaggi di questa parte profonda dei Balcani, dove la natura sembra soccombere eppure resistere sotto cieli di inverni gelidi. All’epoca mi fu risposto: “sì, è la nostra pittrice nazionale più importante”. E io non mi soffermai sui motivi.

Oggi, il museo nazionale di Belgrado che ha riaperto i battenti nel 2018, ospita una retrospettiva completa sulla pittrice che eloquentemente si intitola “Nadežda Petrovic: modernità e nazione”. Un’occasione per scoprire perché questa giovane donna, tutt’oggi ritratta sulla banconota da 200 dinari, è considerata allo stesso tempo un’eroina nazionale e uno degli spiriti fondatori della moderna cultura nazionale serba. In tale contesto sarà interessante scoprire che uno dei luoghi da lei prediletti per la rappresentazione dell’ethos nazionale è stato proprio una terra da noi conosciuta per i fatti del 1999 e recentemente tornata alla ribalta delle cronache: il Kosovo.

Nadežda Petrovic nasce nel 1873 da una famiglia benestante. Studia a Belgrado e successivamente approfondisce la sua formazione artistica a Monaco, Parigi e infine in Italia, tra Napoli e Firenze. Il linguaggio pittorico è decisamente assimilabile all’espressionismo europeo, caratterizzato da colori decisi e linee deformate a rendere l’anima dei volti e le sensazioni evocate dai paesaggi, più che la rappresentazione fedele e manieristica delle immagini. Nella sua produzione artistica troviamo paesaggi dei luoghi visitati in Francia e in Italia, ritratti di familiari e amici e perfino una serie di nudi femminili, particolarmente inusuali all’epoca per un’artista donna. E una donna libera, lei, lo era davvero: per esempio rompe il suo fidanzamento, fatto decisamente scandaloso per l’epoca, a causa dell’esosa richiesta di dote della futura suocera. All’attività di artista, affianca l’impegno politico: contribuisce a fondare il “Circolo delle Sorelle Serbe”, organizzazione umanitaria con cui porterà aiuti economici alle popolazioni serbe e ai centri religiosi di Macedonia e Kosovo.  

Sono anni di transizione in cui la politica è attraversata da un potente fermento patriottico: nel 1878 il Regno di Serbia ha finalmente ottenuto, dopo 489 anni, l’indipendenza dall’Impero Ottomano mentre vasti segmenti delle popolazioni slave sono ancora sotto il dominio dell’impero Ottomano (Kosovo, Macedonia) e dell’Impero Austro-Ungarico (Bosnia, Croazia, Slovenia). Nella politica e negli ambienti culturali nazionali inizia a emergere il così detto “panslavismo”, ovvero l’idea della riunificazione dei popoli slavi del sud sotto un unico stato-nazione indipendente; Nadežda decide di dedicare il proprio talento a questa missione patriottica e con l’obiettivo di costruire una rappresentazione della memoria e della cultura del popolo serbo attraverso la pittura, “traghetta” - letteralmente – costumi e tradizioni dei popoli slavi nell’arte moderna: viaggia su tutto il territorio nazionale, ritraendo volti di personaggi, contadini, monaci, scene di vita locale, paesaggi e monumenti storici.

Il luogo geografico da lei prediletto è, non casualmente, il Kosovo: culla storica della civiltà serba fin dal medioevo, ospitava castelli, fortezze e monumenti delle antiche dinastie regnanti nonché i più antichi monasteri serbo-ortodossi, con il loro patrimonio di libri antichi, documenti e dipinti. Nadežda sceglie proprio questa terra posta al confine meridionale della Serbia che lei ha occasione di visitare anche al seguito dell’esercito serbo, cui si unisce come infermiera e reporter allo scoppio della prima guerra balcanica nel 1912. Il conflitto vede infatti le nazioni della Lega Balcanica (Serbia, Grecia, Bulgaria e Montenegro) schierate contro l’Impero Ottomano con il proposito di riconquistare le terre abitate dai rispettivi popoli. Nadežda parte volontaria per quella che considera a tutti gli effetti una guerra di liberazione dall’oppressore turco. Nel tempo libero dipinge i luoghi della fede del popolo serbo che con il suo lavoro contribuisce a “secolarizzare”, rendendoli simboli dell’identità nazionale. Sul suo dipinto più celebre, conosciuto anche con il titolo “Le Peonie del Kosovo”, troviamo il monastero di Gracanica. Qui il complesso religioso è rappresentato, per una precisa scelta simbolica, nel mezzo di un campo di peonie rosse: una leggenda serba narra infatti che le peonie del Kosovo, originariamente bianche, furono tinte di rosso dal sangue dei serbi che qui furono definitivamente sconfitti dall’esercito ottomano nel 1389 e che da quel giorno non vi è peonia più rossa di quelle che crescono in questa parte di mondo.

Quello che possiamo definire “il ciclo del Kosovo” avrebbe dovuto comprendere altri dipinti; nei taccuini di Nadežda troviamo infatti innumerevoli schizzi di monumenti nazionali. Ma il “ciclo del Kosovo” non sarà mai terminato. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale Nadežda si trova a Venezia, alla biennale d’arte. Rientra in fretta in patria e pretende di arruolarsi nuovamente nelle fila dell’esercito serbo, rifiutando anche un incarico della Croce Rossa in Svizzera. Al seguito della Divisione Danubio, continua la sua produzione pittorica, ritraendo ufficiali, scene di guerra e si cimenta perfino con la macchina fotografica, creando un prezioso archivio di documenti sul periodo bellico. Il suo ultimo quadro è del 1915 e ritrae l’ospedale da campo di Valjevo; qui morirà anche lei appena una settimana dopo, per tifo, a 42 anni.

La fine della Prima Guerra Mondiale vedrà finalmente il coronamento del sogno nazionale accarezzato da Nadežda e dai suoi amici e colleghi: la creazione dello stato unitario sotto il “Regno di Serbi, Croati e Sloveni” che sarà successivamente consolidato nella Yugoslavia socialista.

Il Kosovo, quel luogo storico e spirituale prima che fisico, accarezzato e sublimato nei dipinti di Nadežda Petrovic, sarà invece l’ultimo pezzo che la nazione yugoslava perderà nel contesto del processo di disgregazione iniziato nei primi anni ’90. La quasi totalità del patrimonio storico-culturale serbo della regione sarà distrutto o gravemente danneggiato dalle milizie separatiste albanesi (UCK o “esercito di liberazione del Kosovo”) a partire dal giugno del 1999, nelle operazioni di pulizia etnica che fecero seguito alla sconfitta della Repubblica Federale di Yugoslavia da parte delle forze NATO. Le violenze e le devastazioni continueranno per anni, nonostante la presenza delle forze di pace della KFOR. L’ultimo episodio ricordato per gravità risale al 2004, quando, a partire da disordini scoppiati nella città di Mitrovica, un’ondata di violenza nei confronti delle comunità serbe investì l’intera regione: 35 tra chiese e monasteri furono incendiati e distrutti e più di 4.000 serbi furono cacciati dalle loro case, in quello che ancora oggi viene ricordato come “il pogrom del 2004”. Un episodio ancora vivissimo e sofferto nella coscienza collettiva serba; non a caso, a seguito dei disordini scoppiati proprio nella municipalità di Mitrovica a luglio 2022, il presidente serbo Vucic ha dichiarato “[…] se qualcuno pensa che sia possibile ripetere il 17 marzo 2004 […] ciò non accadrà”.

Ad oggi il Kosovo non viene riconosciuto da 92 dei 193 paesi membri delle Nazioni Unite. Tra questi troviamo, oltre la Serbia, 8 membri del G20 (Argentina, Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia e Sud Africa – che includono anche tutti i BRICS) ma anche Spagna, Grecia e Romania. La popolazione serba superstite – o che non ha optato per l’esilio – consta di circa 50.000 persone che vivono per lo più nella parte nord della regione, al confine con la Serbia. Gli “accordi di Bruxelles” del 2013, con cui si è tentato di normalizzare i rapporti tra le parti, restano largamente inapplicati dalle autorità amministrative albanesi e la situazione è soggetta a continue evoluzioni, come quelle del luglio 2022, dagli esiti potenzialmente imprevedibili.

Purtroppo, tutto fa pensare che sentiremo ancora parlare di questa parte di mondo tanto tormentata. Le vicende di questa estate hanno sollecitato la stampa italiana nel consueto teatrino dei buoni e cattivi, dove non poteva mancare il jolly 2022, ovvero “ha stato Putin” - che non pago delle sconfitte in Ucraina si sarebbe servito di Belgrado per destabilizzare l’area balcanica. Ma la storia e le vite di coloro i quali hanno contribuito alla nascita della nazione slava, ci raccontano altro.

Uscendo dal museo non ho potuto fare a meno di riflettere sulla vita di questa giovane donna che ha dato vita e colore sulla tela e incarnato attraverso la sua stessa esistenza - fino a sacrificarla - lo spirito del suo popolo, augurandomi che questo possa aiutarci a comprendere le ragioni profonde della sua storia.

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