Il Memorandum con la Cina non va firmato, dovevamo chiedere il permesso al “padrone di Casa”! Parola di Repubblica

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di Francesco Maringiò 


La girandola di attacchi contro la possibile firma del Memorandum sulla Via della Seta tira in ballo diversi argomenti che puntano a far saltare l’accordo o, quantomeno, ad indebolirne la portata.
 
Ma mai nessuno, fino ad ora, aveva apertamente detto che non potevamo muoverci senza prima chiedere permesso al nostro “padrone di casa”. Ci ha pensato oggi Lucio Caracciolo in un editoriale di Repubblica, in cui testualmente si afferma: “Se ad esempio ci leghiamo al principale competitore (Cina) del nostro padrone di casa (Usa), dobbiamo prima concordare con Washington le linee rosse da non superare”.
 
Non solo: si fa esplicito riferimento ad attacchi speculativi da parte delle agenzie di rating, come se fosse la normalità accettare il ricatto dei mercati e dover piegare le scelte e gli interessi nazionali in nome di decisioni oligarchiche ed antidemocratiche. 
 
Eppure nel mondo, ed anche all’interno dell’UE, ognuno cura i propri interessi strategici: perché l’Italia non dovrebbe farlo? È curioso come negli ultimi giorni sia venuto alla luce il partito di coloro che teorizzano esplicitamente la sovranità limitata del paese, l’accettazione di un ruolo di subalterni nelle dinamiche europee ed internazionali. Tutti preoccupati della possibile “colonizzazione cinese” (in questi termini si è espresso anche il vice premier Salvini), salvo poi dimenticare che in Italia sono presenti oltre 100 installazioni militari statunitensi e 15.500 tra personale amministrativo e militare Usa e che l’ingerenza nella politica interna (come mostra questa vicenda dove l’Ambasciata statunitense chiama a rapporto uomini del governo italiano per esprimere il suo disappunto) assume dimensioni rilevanti.
 
Anzi, proprio la firma del Memorandum e l’adesione al progetto permetterebbe all’Italia di costruire una sua autonoma politica estera e di pace e di salvaguardare i propri interessi strategici, come sempre il paese ha fatto, anche nel pieno della guerra fredda, quando pure esistevano forti condizionamenti esteri, ma anche una classe politica ed intellettuale di spessore. Tutt’altra musica rispetto al livello imbarazzante che ha raggiunto la gran parte dei media nelle ultime settimane.
 
Caracciolo rimprovera al paese una visione economicistica, che dimentica una concezione più strategica e geopolitica (“confitti nel nostro economicismo, (…), non ci siamo resi conto della posta in gioco”). Un paese, scrive, finito “senza accorgersene nel mezzo del ring dove gli Stati Uniti e Cina si sfidano per il titolo mondiale dei supermassimi. Esposta ai colpi degli uni e degli altri (…)”.
 
Eppure proprio dalle pagine della rivista che dirige, abbiamo imparato che i vettori strategici di Pechino disegnano una visione completamente diversa che ha Pechino dell’iniziativa Belt and Road. Limes ha infatti ospitato nel 2015 un discorso del generale Qiao Liang (https://bit.ly/2u8V7Kp) alla più importante scuola militare cinese, in cui si apprende bene come la strategia delle Vie della Seta nasca dopo l’accerchiamento americano del Pivot to Asia di Obama/Clinton e le provocazioni e i tentativi di rivoluzione colorata ad Hong Kong, proprio come “strategia securitaria (…) contro il ribilanciamento verso Oriente perseguito dal Pentagono”. Tutto l’opposto della visione espansiva ed egemonica che viene presentata sulle pagine di Repubblica.
 
Anche la metafora del pugilato risulta fuori luogo per comprendere la visione strategica cinese e rischia di mandare fuori rotta la nostra comprensione del mondo. Conviene rileggere il pensiero del generale cinese, perché offre spunti per comprendere meglio la Cina ed aiutarci a tracciare la rotta di una strategia e politica nazionale sovrana ed indipendente.
 
Scrive il generale: “Occupiamoci della passione degli americani per lo sport. Il pugilato in particolare riflette l’idea di forza che hanno: attacco frontale, colpi diretti, movimenti chiari, il knockout che sancisce la vittoria. Al contrario i cinesi, che apprezzano le sfumature e le sinuosità, non puntano a stendere l’avversario, quanto a comprenderne ed annullarne le mosse. Nella Repubblica Popolare si pratica il taiji, un’arte nettamente superiore alla boxe. Il modello delle vie della seta riflette questo approccio”.
 
E quindi, a leggere tutto come un match di boxe, si rischia di andare fuori strada.
 

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