La riforma degli istituti tecnico-professionali al suo primo banco di prova

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La riforma degli istituti tecnico-professionali al suo primo banco di prova

 

di Federico Giusti e Emiliano Gentili

La riforma degli istituti tecnici e professionali[1] ha visto nell’anno scolastico appena concluso il suo primo banco di prova. L’istituzione del nuovo percorso professionale 4+2 o 4+3 (istruzione tecnica e professionale ridotta a 4 anni + ITS Academy) non ha incontrato il favore degli studenti: a fronte di ben 147 ITS (le università italiane sono 97, di cui 67 pubbliche) vi sono state soltanto poche migliaia di iscritti[2].

Fra i primi a commentare questa situazione è proprio Confindustria, che per bocca di Andrea Gavosto e Marco Gioannini (entrambi della Fondazione Agnelli) lancia l’allarme: vi sono «consistenti tassi di abbandono» e «una didattica dell’orientamento» insufficiente, specie nella secondaria di I grado. Il motivo sarebbe che «senza un robusto sbocco terziario, tutta la filiera professionale in Italia rimane un percorso marginale rispetto a quello liceale, un vicolo cieco che finisce inevitabilmente con l’attrarre gli studenti più deboli, spesso provenienti da famiglie svantaggiate e poco interessati a proseguire gli studi dopo la maturità». Di conseguenza, «quelli più dotati fra coloro che hanno un interesse per mestieri pratici» finiscono per «scegliere i licei: si è creato così un circolo vizioso che rende l’istruzione tecnica e professionale un’opzione spesso di serie B»[3].

Una lettura poco convincente, che attribuisce la distribuzione di classe degli studenti al mismatch tra le competenze richieste dalle aziende e quelle che i ragazzi sviluppano nei loro percorsi scolastici e universitari di apprendimento. La filiera tecnico-professionale, in realtà, non può garantire l’accesso a lavori “di qualità” (un certo grado di specializzazione e salari più elevati) perché la formazione erogata è finalizzata allo sbocco in lavori operai, per quanto specializzati: gli ITS possono rilasciare fino al quinto o al sesto livello EQF[4], su otto totali, a seconda che si scelga il 4+2 oppure il 4+3; anche gli insegnanti sono dei tecnici, dotati del quinto o del sesto livello EQF[5]. Inoltre, nonostante il tasso di assunzione post-ITS Academy si aggiri attorno all’80%[6] bisogna ricordare che si tratta prevalentemente di lavori in apprendistato, mentre in altri paesi europei è senza dubbio facilitato l’accesso a mansioni e ruoli lavorativi di livello maggiore. Anche il Sole 24 Ore ha parlato esplicitamente di «raccordare l’apprendistato con il sistema della formazione professionale e con istruzione tecnica e università per concepirlo in continuità, in un’ottica di filiera formativa-lavorativa»[7].

Alla base vi è la difficoltà, da parte delle ITS, a garantire uno sbocco lavorativo nel terziario. Una difficoltà la cui causa «va cercata in uno scarso e poco organico collegamento, da un lato, con gli istituti tecnici e professionali della scuola secondaria di II grado e, dall’altro, con le università e i corsi di laurea professionalizzanti»[8], ossia in una insufficiente professionalizzazione dell’istruzione tecnico-professionale e delle università. Piuttosto strano, considerato che i soggetti fondatori delle ITS Academy devono obbligatoriamente includere «almeno un istituto di scuola secondaria di secondo grado», «un’università», «una o più imprese, gruppi, consorzi e reti di imprese del settore produttivo che utilizzano in modo prevalente le tecnologie che caratterizzano l'ITS Academy» e «una struttura formativa accreditata dalla regione»[9].

Il problema, allora, sarebbe forse da ricercare nelle difficoltà del ceto imprenditoriale a garantire posti di lavoro di livello: la competizione internazionale impone alle aziende italiane di abbattere il costo del lavoro per guadagnare competitività sui mercati internazionali e l’utilizzo massivo di strumenti contrattuali precari, quale appunto l’apprendistato per i giovani, ne è una testimonianza.

In conclusione non possiamo non citare un ultimo aspetto: un altro progetto ambizioso si nasconde dietro alle parole confindustriali, ossia il pieno riconoscimento delle imprese nel mondo educativo. Queste saranno chiamate – come spesso già avviene – a collaborare all’individuazione dei percorsi formativi e dei programmi didattici… Infine, per quanto l’idea non venga sufficientemente esplicitata, una riflessione finale va indubbiamente a quel variegato mondo – e business – della formazione professionale, il cui scopo forse è quello di sostituirsi, almeno in parte, alle scuole pubbliche.

[1] L. 121/2024.

[2] INDIRE – ITS Academy. Monitoraggio Nazionale 2024 https://www.indire.it/wp-content/uploads/2024/03/Rapporto-Monitoraggio-nazionale-ITS_Academy-2024.pdf.

[3] A. Gavosto e M. Gioannini, La scuola in Italia: criticità e priorità di intervento, «SISTEMA ITALIA 2025», p. 166.

[4] https://europass.europa.eu/it/description-eight-eqf-levels.

[5] L. 99/2022, art. 5.

[6] A. Gavosto e M. Gioannini, op. cit., p. 165. Si parla delle assunzioni avvenute entro il primo anno di ricerca di lavoro.

[7] G. Pogliotti e C. Tucci, Apprendistato, quattro riforme in 30 anni ma assunzioni al palo, «il Sole 24 Ore», 4 Febbraio 2024.

[8] A. Gavosto e M. Gioannini, op. cit., p. 166.

[9] L. 99/2022, art. 4, c. 2.

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