La società civile ricorda la Nakba. Il governo italiano si prostra a Israele

La società civile ricorda la Nakba. Il governo italiano si prostra a Israele

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di Patrizia Cecconi, Pressenza

 Ci sono fatti che interrogano la coscienza di ogni democratico sincero. Anche se non riguardano direttamente il proprio paese.

Per esempio, in questi giorni si sta preparando una tragedia di grandi proporzioni che potrebbe essere scongiurata. Non è soltanto una tragedia umana ma è l’ennesima prova che il Diritto universale può essere calpestato impunemente e il Diritto universale, è bene ricordarlo, o vale per tutti o è carta straccia.

La tragedia annunciata riguarda lo sciopero della fame, ormai alla quarta settimana, di circa 1.600 prigionieri politici rinchiusi nelle galere israeliane che, in assenza di interventi da parte dei governi amici di Israele segneranno – con la propria morte – un crimine a responsabilità condivisa tra il Paese che li ha condannati e i suoi sostenitori, tra cui il governo italiano.

Al tempo stesso è prevedibile che si abbia una nuova ondata di esasperazione che verrà pagata a caro prezzo sia dai palestinesi, le cui vittime sono comunque quotidiane e non fanno più notizia, sia, presumibilmente, dagli israeliani e, comunque, indirettamente da tutti noi in quanto vittime del disprezzo verso quel Diritto che segna il passaggio dalla barbarie della legge del più forte, alla civiltà della legge uguale per tutti.

La quarta settimana di digiuno politico coincide anche con la ricorrenza della Nakba, ovvero il giorno che segnò la cacciata di circa l’80% della popolazione palestinese dalla propria terra, nonché  l’uccisione nelle forme più brutali di centinaia e centinaia di civili degli oltre 560 tra villaggi,  cittadine e quartieri arabi distrutti per “ripulire” ed “ebraicizzare” la terra occupata.

La commemorazione della Nakba è però fonte di forte disturbo ai festeggiamenti israeliani che, nello stesso giorno, ricordano il medesimo avvenimento, ma dalla parte opposta, cioè festeggiano la nascita del loro Stato per autoproclamazione da parte di Ben Gurion.

Per questo il parlamento israeliano ha emanato una legge che impone il silenzio circa la Nakba pena l’arresto. Anche così si diventa prigionieri politici in Palestina, poiché Israele occupa quella terra e impone le sue regole.

In questi giorni, in diverse città italiane, oltre al sostegno ai prigionieri politici in sciopero della fame, si moltiplicano le iniziative da parte della società civile, quella che, se informata, svolge un importante ruolo non solo verso un popolo occupato da 70 anni, ma verso quel sentire democratico che è trasversale alle frontiere.

Tra le tante iniziative  che si stanno svolgendo e programmando, ce ne sono state comunicate due di carattere prettamente culturale ospitate nei locali ad uso pubblico della città di Milano. La prima si è svolta ieri ed è consistita nella proiezione, con adeguata presentazione e discussione finale, del documentario del regista israeliano Ronen Berelovich, che ha conosciuto dall’interno la realtà dell’occupazione per aver servito come riservista nell’esercito del suo Paese.

Il documentario, il cui titolo è The zionist story è stato rifiutato dalle Tv ed è un peccato, perché mostra la presenza in Israele di persone dissenzienti che, probabilmente, se non verrà spenta la loro voce, saranno la sua salvezza dall’imbarbarimento che assume forme sempre più razziste e antidemocratiche attraverso Netanyahu, i suoi ministri, in primis Bennett e Lieberman e diversi parlamentari. Per non parlare della maggioranza della sua popolazione.

Il film si apre con una domanda circa la drammatica situazione della Palestina: quando è cominciato tutto questo? E la risposta è: nel 1897 a Basilea, ovvero con la nascita del sionismo ad opera di un  giornalista austriaco, Theodor Herzl, peraltro ateo. Le immagini di repertorio e le interviste a storici israeliani ed occidentali che accompagnano lo spettatore per oltre un’ora, forniscono un quadro che per il pubblico abituato alla vulgata mediatica è scioccante.

Il documentario si conclude con due lapidarie affermazioni del regista. Nella prima dichiara di aver realizzato questo documentario perché, dopo aver conosciuto la verità storica e la brutalità dell’occupazione di cui è parte – anche se non più attiva avendo abbandonato la divisa militare – sente un profondo debito verso i palestinesi. Nella seconda dichiara che avendo avuto molti parenti vittime dell’olocausto, nega a Israele il diritto di usare quelle morti per il suo progetto orribile contro il popolo palestinese.

Il lavoro di ricerca e di immagini fatto da Ronen Berelovich ha un grande spessore storico e, al di là dell’utilizzo politico che può esserne fatto, ha un valore conoscitivo e quindi di consapevolizzazione che rende sempre più inaccettabile il silenzio verso i crimini israeliani da parte delle Istituzioni che si definiscono democratiche come, ad esempio, il nostro governo o il nostro presidente della Repubblica.

La seconda iniziativa culturale, relativa alla Nakba, che ci è stata annunciata nella città di Milano, sempre nei locali a disposizione gratuita della società civile (ChiAmaMilano nei pressi del duomo) è quella che si avrà domani, 15 maggio nel pomeriggio, in cui si parlerà delle suggestioni letterarie prodotte dalla Nakba. Se ne parlerà con il giornalista Christian Elia e con Simone Sibilio, docente di letteratura araba a Ca’ Foscari e autore di un’antologia di scritti palestinesi riferiti al periodo in questione. Sarà un’occasione per illustrare le tracce di una memoria che resiste all’oblio attraverso la prosa e la poesia, forme di arte in sé e, in qualche modo, di arte resistenziale, baluardo,  quindi, al memoricidio e alla disperazione.

Al “Come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore…” versi bellissimi con cui Quasimodo  lancia il suo doloroso lamento relativo all’occupazione nazi-fascista in Italia, fa eco un diverso canto che arriva dal Medio Oriente, le cui parole, in versi o in prosa, sembrano dire “seguiteremo a cantare la nostra terra, nonostante la cacciata e l’occupazione”.

Affidare alla cultura la resistenza ad ogni forma di oppressione e di disumanizzazione è il messaggio umano che forse riuscirà a fermare la barbarie che avanza ormai a grandi falcate.

Non supplisce al silenzio delle Istituzioni, ma nutre di consapevolezza la società civile affinché non venga annichilita dalla barbarie che avanza e affinché sappia chiedere conto alle Istituzioni del loro silenzio.

 

 

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