Maria Leon: 'Socialismo femminista, il principale contributo di Chavez alla rivoluzione mondiale'

Maria Leon: 'Socialismo femminista, il principale contributo di Chavez alla rivoluzione mondiale'

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di Geraldina Colotti
 

Passare un pomeriggio a Caracas con Maria Leon, deputata ed eletta all'Assemblea Nazionale Costituente, vuol dire raccogliere materiale per un intero libro. E ci ripromettiamo di farlo, mentre conversiamo di storia, di guerriglia, di militanza comunista, di femminismo, con la partecipazione attenta di Melba Garcia. A 86 anni, “la leona di Chavez” è più battagliera che mai, più che mai decisa a continuare quello che considera “il principale contributo del Comandante al socialismo e alla rivoluzione mondiale: il socialismo femminista, che nessuna rivoluzione precedente aveva mai incluso nel suo programma”.

Prima di chiederle cosa contenga la spessa cartellina che stringe fra le mani come fosse un tesoro, non possiamo perdere l'occasione di farci raccontare com'è cominciata la sua lunga militanza comunista, che risale ai tempi della lotta contro il dittatore Marco Pérez Jimenez. “Sono stata nel Partito Comunista da quando avevo meno di vent'anni – spiega – ne sono uscita solo perché il Comandante Chavez mi ha invitato a far parte del PSUV, il motore di questa rivoluzione socialista che un giorno ci condurrà al comunismo. Voglio mandare un abbraccio alle compagne italiane ricordando che uno degli inni preferiti dalle comuniste venezuelane è Bella Ciao, che abbiamo adattato alla nostra rivoluzione”.

 

Com'è cominciata la tua lunga militanza?

Sono cresciuta durante la dittatura di Pérez Jimenez, nascondendo i libri di José Esteban Ruiz Guevara, mio padre politico che ha influenzato la formazione di Chavez quando era liceale, e che stava scontando otto anni di carcere. Io, rimasta orfana, vivevo a casa di sua zia, distribuivo Tribuna Popular, che era un giornale clandestino. I libri di Esteban, dirigente comunista, mi hanno avvicinato al marxismo. Quando è stata sconfitta la dittatura, lui è uscito dal carcere insieme ad altri militanti, e per me che ero un'operaia è stato naturale che il Pcv diventasse il mio partito. Allora c'era un clima particolare. Pérez Jimenez cade nel 1958 e l'anno dopo trionfa la rivoluzione cubana. Si pone la possibilità concreta di prendere il potere con le armi. Fidel viene in Venezuela a dirci che la Cordigliera delle Ande deve diventare la Sierra Maestra dell'America Latina. Noi ragazze e ragazzi ci entusiasmiamo. Stiamo resistendo alla repressione della “democrazia” di Betancourt, agli assassinii di giovani operai e studenti. Decidiamo di prendere le armi e andare in montagna, seguendo le indicazioni del partito. Si crea il Faln. Con noi vengono anche molti militari. Uno dei fronti è diretto da un compagno delle Forze armate. Io partecipo al Frente guerrigliero Antonio Paez, diretto da Juan Vicente Cabeza, il comandante Pablo, ancora in vita. Ma voglio rendere omaggio anche a Lino Martinez, il comandante Rolando, che dirigeva l'altro Frente a Yaracuy.

 

Com'era la vita in montagna per le donne guerrigliere?

All'inizio abbastanza complicata. Alcune di noi avevano figli piccoli, lasciati in custodia al partito che se fossimo morte li avrebbe mandati a studiare nei paesi socialisti. Una grande opportunità per me che nel frattempo ero rimasta senza lavoro, senza casa, senza marito... Ne parlai con Argelia Laya, che dirigeva la Commissione femminile del Disretto Capitale di cui facevo parte. Un'altra dirigente era Olga Luzardo. Il Pcv del mio fronte mandò sei compagne, tre a Falcon e tre a Portuguesa. Io ero fra le tre che andarono a Portuguesa. Presi il nome di Ines, per varie ragioni, ma soprattutto perché così si chiamava la segretaria di Lenin. Sono sempre stata leninista. Ci addestrarono per essere insegnanti e infermiere, perché i contadini non lasciavano entrare uomini nelle loro case, ma le donne sì. Poi, però, le cose cambiarono. Dopo un attacco che aveva decimato gli effettivi del nostro fronte, io e un'altra compagna, Carmencita, andammo nell'accampamento dei guerriglieri e ci unimmo a loro nella ritirata, benché non avessimo neanche le scarpe adatte. Il comandante Pablo guidava la ritirata durante la quale alcuni disertarono, lasciandoci però le loro armi. A un certo punto incontrammo il cadavere di un nostro compagno, che giurammo di vendicare. Allora il comandante disse: “Le armi che abbandonano gli uomini le prendono le donne”. E io ebbi in dotazione un Rifle con mira telescopica. Continuammo quella nostra lunga marcia, inseguiti da 2000 soldati contro i quali non potevamo avere nessuna possibilità di vincere, anche perché avevamo con noi dei malati. Arrivammo ai piedi di una salita ripidissima. I compagni, stremati, si stesero a terra e rifiutarono di andare avanti: preferivano affrontare i soldati che altra fatica. Allora il comandante disse: Ines e Carmen, all'avanguardia. E noi, senza neanche le ciabatte che avevamo consumato nella marcia, ci caricammo in spalla il fucile e i nostri 30 chili e cominciammo ad arrampicarci. Quando arrivammo a metà salita, vedemmo che gli uomini si erano rialzati e ci stavano seguendo. Alla prima sosta, un compagno mi chiese dove avessi trovato la forza: per le mie figlie, gli risposi, perché altrimenti questa fatica sarebbe toccata a loro. Poi venne il momento che il Pcv decise di tornare alla lotta legale, ritenendo che le masse non ci avrebbero seguito. Io pensavo che era ingiusto, che dovevamo continuare e fare come a Cuba, ma ho accettato per disciplina e anche perché ero una giovane operaia con scarsa formazione politica. Ho continuato a organizzare la lotta delle donne nei barrios, fondando anche il movimento delle cooperative.

 

I comunisti non hanno apprezzato Bolivar, basandosi sul giudizio poco lusinghiero espresso a suo tempo da Marx. Come avete potuto conciliare marxismo e bolivarianismo?

Mio padre era un militare bolivariano, fu nell'esercito di Cipriano Castro, fu un perseguitato politico fino alla sua morte. Nel Pcv sono stata per vent'anni compagna di Pedro Ortega Diaz che ha rivendicato la condizione di bolivariani nel partito e ha fatto un gran lavoro per far accettare questa posizione nel Pcv. Per questo, avevamo invitato i compagni del Partito comunista tedesco, della Rda, che avevano svolto una ricerca su quella posizione di Marx. Avevano scoperto i tre titoli su cui Marx si era appoggiato per scrivere quella voce di enciclopedia e che, secondo lo spirito dell'epoca, presentavano una immagine negativa del Libertador: un lavoro che Marx faceva per sopravvivere e su cui non aveva posto particolare attenzione. Nel 1983, per i duecento anni della nascita del Libertador, grazie al lavoro di dirigenti come Brito Figueroa o Fermin Toro la posizione del Pcv era cambiata, abbiamo incluso Bolivar nel nostro statuto. Il nostro è stato il primo partito che ha sostenuto la candidatura di Chavez. Io ho una foto in piazza insieme a tre compagne in cui appoggio la ribellione civico-militare del 4 febbraio 1992.

 

Come comunista, come definiresti il chavismo?

La rivoluzione russa ha marcato il XX secolo, la rivoluzione bolivariana, il chavismo, marcherà questo secolo e quelli a venire. Marx ha elaborato la teoria che ha guidato la classe operaia portando a sintesi elementi della ideologia tedesca, dell'economia politica inglese e del socialismo utopistico. Chavez non ha fatto sintesi, ma ha integrato il pensiero universale marxista per trasformare la società con il cristianesimo, il bolivarianismo, il pensiero indigenista e afrodiscendente e il femminismo. Per fare una rivoluzione, occorrono tre elementi: una figura carismatica che dia l'esempio, com'è stata quella di Chavez. E poi, una dottrina. Chavez ha lasciato una dottrina, basata su cinque pilastri: il patriottismo, l'antimperialismo, il socialismo femminista, l'unione civico-militare, e l'amore. Il terzo elemento riguarda gli strumenti. Chavez ha creato gli strumenti nazionali e internazionali (l'Alba, la Unasur, la Celac, Petrocaribe) per ridare forza al movimento operaio a livello internazionale, per rendere concreta la dottrina. Per questo ha convocato la quinta internazionale che, nel solco di Marx e Lenin torna a dire: proletari di tutti i paesi unitevi per sconfiggere la forza del capitale. Parliamo di un programma strategico che va oltre gli obiettivi concreti elencati nel Plan de la Patria e che riguarda la costruzione di una società diversa.

 

Quali proposte racchiude la tua cartellina?

Sono convinta che il principale contributo dato da Chavez al socialismo e alla rivoluzione mondiale sia determinato dal socialismo femminista, che nessuna rivoluzione al mondo aveva mai definito. Un contributo, beninteso, costruito dalla lotta delle donne venezuelane, ma codificato grazie al suo straordinario lavoro, principalmente nell'articolo 88 della rivoluzione bolivariana. Un articolo rivoluzionario. Come sappiamo, Engels ha spiegato come nasce la subordinazione della donna in base alla divisione sessuale del lavoro: la donna è condannata ai lavori domestici, mentre l'uomo lavora fuori per mantenere la famiglia. La donna è dunque considerata una “mantenuta” e tutto il lavoro che svolge in casa viene considerato attività riproduttiva: alimenta e riproduce la forza lavoro. L'articolo 88 determina una rottura storica, dicendo che il lavoro di casa produce valore aggiunto, ricchezza e benessere. A vent'anni dalla costituzione del 1999, quell'articolo va ulteriormente sviluppato nel senso di definire produttivo il lavoro che la donna svolge in casa, perché siamo noi che manteniamo la società. Lo dimostrerò sulla base di cinque proposte che presentiamo all'ANC perché vengano incluse nella nuova costituzione. La prima: in base all'Istituto di statistica (INE), vi sono 3,5 milioni di casalinghe che non vengono considerate popolazione attiva come sarebbe logico in base all'articolo 88, ma inattiva. E questo si deve rettificare. La seconda: vogliamo che si calcoli il valore economico di questo lavoro e si dica quanto apporta al Prodotto interno lordo (PIL). Ci sono molti studi economici al riguardo. La terza: le donne che percepiscono un salario e quelle che lavorano nel settore informale contribuiscono al Pil per una determinata percentuale. Non si tiene, però, conto, che il loro lavoro continua anche a casa. Questa doppia giornata dev'essere calcolata rispetto al Pil. Quarta: alla doppia giornata, se ne aggiunge una terza, quella del volontariato nel lavoro politico per esempio nel Clap, nei consigli comunali, nella milizia, eccetera. Anche questo dev'essere calcolato in termini di apporto al Pil perché ha un valore economico. Quinta proposta: occorre modificare l'articolo 88 per renderlo completo. La norma dice che il lavoro di casa produce valore aggiunto, ricchezza e benessere sociale e che la casalinga ha diritto alla copertura sociale. Ma questo è già stato realizzato per tutte e tutti. Si deve dire che il lavoro in casa dà diritto a una remunerazione: non a un salario, che è categoria dalle molte implicazioni, ma a una remunerazione.

 

Ma questo non significa confinare la donna in casa?

E' la considerazione che avevamo fatto anche noi femministe nel '99. Nella sua lungimiranza, Chavez aveva però creato la Mision Madre del barrio, che corrisponde alle donne l'80% del salario minimo, come un modo di remunerare il lavoro di casa. Il presidente Maduro ha erogato bonus ulteriori (Hogares de la Patria) a sei milioni di famiglie. Le donne non hanno usato questo denaro per confinarsi in casa, ma per laurearsi, per fare lavoro politico, per dirigere la società. Io penso che occorra cambiare ottica e riconoscere l'apporto attivo che diamo all'economia. Ma abbiamo anche altre proposte.

 

Quali?

L'apertura di una commissione d'inchiesta sulla morte di Chavez, l'ampliamento della legge per una vita libera dalla violenza sulle donne e per la parità, e quella per una rendita basica da attribuire alla nascita a tutte le venezuelane e ai venezuelani. Abbiamo studiato la cosa a partire dalla decisione del Libertador che offrì titoli di proprietà della terra, la principale ricchezza esistente allora. Noi proponiamo di rendere coproprietari le venezuelane e i venezuelani delle ricchezze del paese, mediante un titolo simbolico che li inviti ad essere partecipi e responsabili dei beni collettivi. Per questo occorre una modifica dell'articolo 12 della costituzione affinché si indichi che tutta la ricchezza appartiene al popolo, quel popolo nel quale risiede in modo intrasferibile la sovranità. Io sono orgogliosa del mio popolo che oggi è pronto ad affrontare qualunque scenario di aggressione imperialista. Come durante la guerriglia e come tante volte hanno dimostrato nel corso di questi venti anni, le donne sarebbero le prime ad avanzare.



 

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