Uno scenario "armeno-azero" per il Donbass?

Uno scenario "armeno-azero" per il Donbass?

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Negli ultimi tempi, l’Ucraina golpista viene spesso citata, giustamente, per il ruolo assegnatole da Washington e Bruxelles di avamposto ai confini russi e se ne rileva la sua “appartenenza di fatto” alla NATO. Più di rado, ultimamente, si ricorda che, tale ruolo, l’Ucraina lo sta operativamente svolgendo da sette anni in Donbass.

«A giudicare dalle mosse di Kiev, in particolare dal numero di proiettili e mine che piovono ogni giorno sul territorio della DNR», la soluzione di forza sembra essere quella decisa da Kiev, dichiarava ieri a RIA Novosti il leader della Repubblica popolare di Donetsk, Denis Pušilin.

Lo scorso 26 luglio, RIA riportava le dichiarazioni rilasciate all’ucraina Obozrevatel dall’ex vice Ministro per le questioni dei “territori temporaneamente occupati”, Jurij Grymak, secondo cui Kiev dovrebbe studiare una “liberazione militare” del Donbass, dopo le elezioni russe del 17-19 settembre per il rinnovo della Duma.

Questo perché, sostiene Grymiak, la possibilità di votare concessa ai russi residenti in Donbass (coloro cioè che hanno ottenuto la cittadinanza russa), dimostrerebbe l’intenzione di Mosca di annettere quei territori.

Appena due settimane prima, ancora RIA riportava le dichiarazioni bellicose dei golpisti di Kiev, rimbaldanziti dalle manovre navali NATO nel mar Nero, tanto che il rappresentante ucraino al Gruppo di contatto, Aleksej Arestovic, si vantava che l’esercito di Kiev «è in grado di mettere sotto controllo le regioni rivoltose del Donbass in brevissimo tempo, anche se la Russia dovesse intervenire in forze».

In effetti, dopo il dispiegamento, in primavera, di uomini e mezzi lungo la linea di separazione, le truppe di Kiev martellano quotidianamente cittadine e villaggi di D-LNR a ridosso di quella linea. Lo scenario prospettato da Arestovic non promette nulla di buono, soprattutto per la popolazione civile: non a caso, nota l’osservatore Aleksej Kots, alle manovre “Sea Breeze”, la NATO ha addestrato specificamente le forze ucraine per ostilità in territori con popolazione ostile.

Ma, nota ancora Kots, quella di Arestovic sembra essere l’ennesima sparata golpista: la maggior parte degli esperti militari, giudica men che critico lo stato delle forze armate ucraine, con carenze di equipaggiamento e munizionamento e magri finanziamenti. Opinione, questa, condivisa anche dagli analisti del Congresso USA, preoccupati di dove siano finiti i milioni di dollari sinora destinati alla modernizzazione dell’esercito golpista.

Per non parlare della disciplina (alcol, narcotici, sciatteria con le armi, spari più o meno accidentali tra commilitoni, ecc.) che, secondo la ricognizione della DNR, solo nell’ultimo anno ha messo fuori combattimento tantii soldati ucraini pari a un battaglione.

In ogni caso, si tratta di una forza perfettamente in grado, come ricordano nella DNR, di continuare le provocazioni armate quotidiane, il che dimostra il rigetto da parte di Kiev di tutte le intese per il cessate il fuoco: lo scorso 30 luglio quattro miliziani sono morti sotto il fuoco ucraino nell’area di separazione delle forze di Petrovskoe; due giorni prima altri miliziani della DNR erano caduti sotto i colpi ucraini nell’area di Tel’manovskoe; mortai ucraini da 120 mm avevano bersagliato Staromikhajlovka, alla periferia di Donetsk e il rione Kirovskij; nell’area di Mariupol, Kiev ha usato artiglierie di calibro proibito dagli accordi di Minsk. Colpite anche Gorlovka e Sakhanka.

Dall’entrata in vigore del cessate il fuoco generalizzato, un anno fa, cinque civili della DNR sono rimasti uccisi e 12 feriti; danneggiate 176 abitazioni e 4 distrutte.

Nei giorni scorsi, poi, l’ex vice Capo di Stato maggiore ucraino, generale Igor Romanenko, sullo sfondo del prossimo incontro a Washington tra Joe Biden e Vladimir Zelenskij, su cui Kiev sembra riporre molte speranze, ha dichiarato che non si deve escludere la possibilità di una progressiva escalation da “guerra a bassa intensità” a “guerra localizzata” in Donbass e ha citato l’esempio del conflitto armeno-azero, che si protrae con alti e bassi da trent’anni.

È in questo quadro che il senatore russo Aleksej Puškov dice che Kiev vive oggi in «una propria realtà virtuale». Ne sono prova, la citazione in giudizio a Mariupol del Ministro della difesa russo Sergej Šojgù, per consegnargli l’avviso scritto di esser sospettato della «creazione di formazioni illegali militarizzate» (le milizie di L-DNR) e comunicargli che contro di lui è stata avviata la «procedura giudiziaria prevista dalla legge»; e ancora la nomina di funzionari ucraini a capo della Crimea, con l’espulsione dalla penisola di mezzo milione di russi, la bandiera ucraina su Sebastopoli…

In una parola, Kiev pratica una «tumultuosa imitazione di una sorta di politica, stante la sua totale assenza». Ironica la nota del politologo russo Evgenij Satanovskij: «Šojgù si muove molto; in teoria, se ce ne sarà bisogno, a Mariupol può anche andarci. Non da solo, ovvio, ma con l’esercito».

E il settimanale serbo Pecat (Stampa) chiosa che Kiev finge che tutto sia nelle sue mani, dal momento che alle sue spalle ci sono gli americani. Così, pretende che la Germania rinunci al “North stream 2” o, quantomeno, che Mosca venga obbligata a far transitare il gas attraverso l’Ucraina ancora per 10 anni dopo il 2024 (questo è nero su bianco nel recente accordo Biden-Merkel). Ma, scrive Pecat, Mosca non ha bisogno di riportare nella propria orbita l’Ucraina con la forza o metterla in ginocchio militarmente: è comunque Putin a tenere in mano le redini del gioco.

E lo ha dimostrato con quello che Pecat definisce un «manifesto, paragonabile per importanza al famoso discorso di Monaco nel 2007 alla Conferenza sulla sicurezza», e in cui Putin «ha delineato le coordinate di ciò che è possibile in futuro».

Nella parte di tale “manifesto” – Sull’unità storica di russi e ucraini – dedicata all’Ucraina post-2014, Putin ha parlato di russi e ucraini come un unico popolo (e buona parte degli ucraini ha espresso giudizi positivi su tale affermazione) e di russi, ucraini e bielorussi quali «eredi dell’antica Rus, che era il più grande stato d’Europa»; ha detto che in Ucraina è oggi in corso «un forzato cambio di identità» e il paese «si sta trasformando in un'”anti-Russia”», ma che, nonostante ciò, «la Russia non è mai stata e non sarà mai “anti-Ucraina”».

Quindi, l’affondo: «Kiev non ha bisogno del Donbass. (…) i risultati di Minsk-1 e Minsk-2, che offrono una reale possibilità di ripristinare pacificamente l’integrità territoriale dell’Ucraina, negoziando direttamente con DNR e LNR con la mediazione di Russia, Germania e Francia, contraddicono l’intera logica del progetto “anti-Russia”. E questo può poggiare solo sulla costante coltivazione dell’immagine di un nemico interno ed esterno. E aggiungerò: sotto il protettorato, sotto il controllo delle potenze occidentali», secondo i piani di Zbigniew Brzezinski che «La Russia senza l’Ucraina non sarà mai più un impero».

Nel progetto “anti-Russia” «non c’è posto per una Ucraina sovrana. Veri patrioti ucraini vengono dichiarati solo coloro che odiano la Russia». Ma Mosca non consentirà «mai che i nostri territori storici e le persone a noi vicine che ci vivono vengano usati contro la Russia. E a chi farà un simile tentativo, voglio dire che in questo modo distruggerà il proprio Paese». Abbastanza chiaro. Il “manifesto” di Putin, scrive Pecat è indirizzato sì agli «ucraini che hanno orecchie per sentire», ma più ancora a Washington, Londra e «a qualcuno nella UE».

Commentando positivamente il “manifesto” di Putin, l’ex deputato della Rada Oleg Tsarëv ha detto che «i nazionalisti ucraini non sono in realtà nazionalisti, bensì collaborazionisti volontari… il nazionalismo ucraino è la storia di come e a chi vendersi nella misura più remunerativa».

E un altro ex deputato, Evgenij Muraev, parla apertamente di Ucraina sull’orlo del collasso che, già in autunno, «potrebbe disintegrarsi, ripetendo il destino della Jugoslavia e soddisfacendo tutti i propri vicini». L’America, conclude Pecat , contro la propria volontà se ne tornerà a casa e l’ultima o penultima fermata sarà costituita dalla “Lega della democrazia”, l’ennesima trovata yankee in sostituzione dell’ONU.

In conclusione, una nota eucaristica: il prossimo 14 agosto, il Segretario di stato vaticano cardinale Pietro Parolin sarà a Vilnius, per concedere la patente episcopale al nuovo nunzio apostolico in Ucraina, il lituano Visvaldas Kulbokas; già per il ferragosto, questi volerà a Kiev, a occupare il posto che fu di Claudio Gugerotti, trasferito a Londra.

C’è da dire che, tanto la chiesa ortodossa ucraina (scismatica rispetto a quella russa), che quella greco-cattolica non perdono occasione per tirare dalla propria parte “l’autorità del Vaticano” contro “l’aggressione russa”.

L’osservatore Stanislav Stremidlovskij ricorda come Gugerotti sia stato l’unico diplomatico straniero che Kiev non abbia ostacolato nella sua visita a DNR e LNR. Senza dubbio, ora, la nomina di un lituano, soprattutto nell’attuale “crisi migratoria” lituano-bielorussa – il giornale se ne occuperà a breve – che interessa anche l’Ucraina golpista, sembra aprire prospettive non esattamente ecclesiastiche e più consone a quel “progetto “anti-Russia” cui Washington, a dire il vero, l’aveva destinata sin dagli anni ’50.

Fabrizio Poggi

Fabrizio Poggi

Ha collaborato con “Novoe Vremja” (“Tempi nuovi”), Radio Mosca, “il manifesto”, “Avvenimenti”, “Liberazione”. Oggi scrive per L’Antidiplomatico, Contropiano e la rivista Nuova Unità.  Autore di "Falsi storici" (L.A.D Gruppo editoriale)

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