Venezuela. Intervista esclusiva a Asia Villegas, ministra della Donna e per l'uguaglianza di genere: «Libere dal patriarcato e dal capitalismo»

Venezuela. Intervista esclusiva a Asia Villegas, ministra della Donna e per l'uguaglianza di genere: «Libere dal patriarcato e dal capitalismo»

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di Geraldina Colotti

Siamo nel municipio di Barcelona, capitale dello stato Anzoategui, uno dei 24 di cui si compone il Venezuela. Nella sala è previsto un palco, sul quale è installato il parterre di donne – politiche, intellettuali, giuriste – che accompagna la conferenza della ministra per la Donna e l’uguaglianza di genere, Asia Villegas. Quando arriva il suo turno, la ministra rompe il protocollo e scende tra il pubblico, tra lo sventolio delle bandiere dei movimenti femministi e Lgbt.

Asia illustra le politiche di genere del governo Maduro, le conquiste e le sfide realizzate in vent’anni, e le linee del Plan de la Patria 2019-2025 in materia di genere. Poco più tardi, nella Clinica integrale della donna della circoscrizione El Carmen, la ministra inaugurerà la seconda sala di “Parto umanizzato” presente nello Stato. Ogni mese, lì verranno seguite in media 280 donne incinte, che riceveranno attenzione medica e relazionale in un progetto che ha, com’è consuetudine nel proceso bolivariano, valenza collettiva e sociale: poiché considera la maternità come un fatto che responsabilizza non solo la coppia, ma l’intera comunità.

Un concetto, questo, di cui abbiamo discusso con la ministra durante il viaggio in macchina che, da Caracas, ci ha portato a Barcelona. Il municipio è governato dal giovane sindaco, giornalista e ex ministro della Comunicazione, José Luis Marcano – uno dei più votati alle ultime elezioni comunali -, che lo amministra con efficienza e sobrietà. Intorno, ha una équipe tutta al femminile, a partire dalla propria compagna, Marcia Moreno, molto attiva nella promozione delle politiche di genere.


 

Ministra, a che punto è la libertà delle donne in Venezuela dopo vent’anni di socialismo bolivariano?

Per capire l’ampiezza di quanto abbiamo realizzato, occorre intanto guardare all’istituito. A partire dal 1999, quando si è approvata la costituzione bolivariana e la rivoluzione ha cominciato a costruire una nuova architettura istituzionale, le strutture dello Stato sono state profondamente permeate dalle politiche di genere. Un indicatore fondamentale che, da solo, basterebbe a contrastare la propaganda della destra che ci dipinge come uno stato “fallito”. Sul piano normativo, dal 2007 abbiamo la Ley organica per il diritto della donna a una vita libera dalla violenza, un punto di riferimento per tutto il continente. Inizialmente contemplava 19 forme di violenza contro le donne, da quella fisica a quella patrimoniale, istituzionale, ostetrica… Nel 2014, con la prima riforma della legge, vengono aggiunte altre due forme di violenza, il femminicidio e l’induzione al suicidio. Si mette l’accento sulla necessità di de-patriarcalizzare la società, di decostruire i meccanismi, concreti e simbolici che impongono modelli di subordinazione. Viene definito un quadro di sanzioni che metta in pratica questo concetto e rompa con l’abitudine a colpevolizzare la vittima e con l’impunità del maschio aggressore. Le strutture del nostro Ministero - Minmujer è nato nel 2009 – agiscono perciò di concerto con altri organismi dello stato in tutti i cinque poteri di cui dispone la nostra costituzione e fino al massimo organo di garanzia e di equilibrio, il Tribunal Supremo de Justicia (TSJ). Abbiamo, per esempio, 8.700 difensore comunali, formate a livello nazionale. Nella Defensoria del Pueblo, c’è un istituto specifico di genere, e vi sono scuole di formazione. Nel Pubblico Ministero, ci sono procure specifiche – 74 in tutto il paese – che esaminano i casi di violenza di genere e i femminicidi. C’è una polizia scientifica, ascritta al Ministero degli interni e di giustizia che ha a sua volta competenze specifiche in materia di violenza di genere, e anche nei tribunali ordinari, 106 hanno magistrati formati in base alla legge organica per il diritto della donna a una vita libera dalla violenza. C’è, poi, il campo politico e progettuale della rivoluzione, che promuove la partecipazione della donna a tutti i livelli della società venezuelana, che oggi vede le donne essere in maggioranza in tutte le strutture del potere popolare. Il Plan de la Patria, grande ombrello della pianificazione, ha 5 obiettivi strategici, uno dei quali riguarda il genere. L’anno scorso, è nata anche la Scuola femminista del Sur, che certifica gli studi di genere a livello internazionale e si mette in relazione con le esperienze di altri paesi.


 

Durante l’apertura dell’anno giudiziario, il presidente Maduro ha denunciato ritardi, inadempienze e corruzione nel sistema di giustizia, e ha designato una commissione, diretta da Delcy Rodriguez, affinché proceda a una profonda riforma e ristrutturazione del settore. Quale sarà il compito della “rivoluzione femminista” in questa riforma?

C’è ancora molto da fare per de-patriarcalizzare il sistema di giustizia. Il nostro compito è quello di proseguire verso una effettiva uguaglianza di genere, nell’applicazione e nello sviluppo di un quadro normativo che a volte è più avanti del senso comune e delle relazioni esistenti nella società. Oggi abbiamo sufficiente esperienza per vedere le insufficienze della legge, i ritardi e i difetti soprattutto in termini di formazione del personale deputato ad accogliere le denunce delle donne e a far applicare la legge. È difficile liberarsi dagli stereotipi che, dai tempi di Adamo e Eva, colpevolizzano la donna per aver indotto l’uomo a mangiare la mela. Vige ancora una concezione della giustizia che spinge la vittima a doversi giustificare per essere stata picchiata, violentata, per “essersela cercata”. In questo, i media, ma anche le reti sociali, hanno una grossa responsabilità quando scrivono di “crimine passionale” o si lasciano andare a un voyeurismo che non rispetta il corpo della donna neanche dopo morto. Il processo di decostruzione dei meccanismi patriarcali riguarda tutta la società e non si fa in soli vent’anni, quanti sono quelli della rivoluzione. Soprattutto perché ci sono forze egemoniche transnazionali che impongono modelli culturali e meccanismi di potere funzionali alla subordinazione capitalistica del corpo femminile. Forze egemoniche che hanno interessi mercantilistici nel diffondere una visione dei rapporti di coppia di un certo tipo, basati sull’asimmetria economica e di genere. La società patriarcale impone la subordinazione della donna. Una subordinazione che si sposa perfettamente con il capitalismo, basato sull’appropriazione privata dei mezzi di produzione e sulla necessità che anche la donna sia proprietà di qualcuno. L’indipendenza economica della donna è il primo importante tassello della sua liberazione.

Grazie al contributo di una femminista storica come Maria Leon, voi avete formulato alcune proposte all’Assemblea Nazionale Costituente. In cosa consistono e qual è l’obiettivo?

In una visione tradizionale della società, il lavoro della donna all’interno della famiglia viene considerato inerente al ruolo riproduttivo, tanto che la casalinga viene considerata una “mantenuta”. Ancora oggi, tante donne contadine o pescatrici ritengono che andare nell’orto a raccogliere la yucca o tirare il collo a una gallina, o mettere a seccare il pesce, sia un prolungamento del lavoro “riproduttivo”. L’articolo 88 della nostra costituzione dice, invece, che anche il lavoro di casa genera ricchezza per la società, che è lavoro produttivo. A essere mantenuta è quindi l’altra metà della popolazione che dipende dal lavoro di cura per la sopravvivenza e la convivenza in generale. Per questo, oggi tutte le donne godono di coperture sociali e di una pensione, a partire dai 55 anni, parametrata sul salario minimo, e indipendentemente dal fatto che abbiano o meno versato i contributi. Nel ’99 c’erano solo 300.000 pensionati, oggi sono quasi 5 milioni. Considerando che le donne hanno un’aspettativa di vita di 79 anni, rispetto agli uomini che vivono in media 72 anni e che vanno in pensione a 60, si può capire quanto sia andata avanti la società in materia di libertà femminile in vent’anni di rivoluzione. Il ragionamento di fondo, è questo: il capitalismo ha portato le donne fuori casa, ma per usarle come manodopera a basso costo o nel lavoro formale ai fini di ottenere una maggior accumulazione del profitto, non per sanare la disuguaglianza tra uomo e donna. Finita la giornata di lavoro fuori, per la donna comincia infatti una seconda giornata a casa, dove si riproducono relazioni diseguali di potere. Se si sta fuori fino a tardi per fare politica, ci si sente colpevoli per aver tralasciato i lavori domestici. Inoltre, spesso nelle famiglie ci sono anziani da accudire. Questi compiti devono essere svolti collettivamente. Decostruire l’immaginario patriarcale implica un’assunzione di responsabilità e di condivisione di tutto il lavoro esistente dentro casa. Noi crediamo che non possa esserci socialismo senza femminismo, ma se non si producono trasformazioni nella struttura capitalista e neoliberista continueremo a replicare modelli di disuguaglianza. La nostra principale proposta mira ad approfondire l’articolo 88.

Come, in concreto?

Se il lavoro di casa produce ricchezza sociale, chiediamo di quantificare questa ricchezza in termini di Prodotto Interno Lordo. Ti racconto su cosa si basa l’idea di Maria Leon che si riflette nel nostro testo costituzionale. Nel 1989 – se non ricordo male – una donna perde la vita, investita da un autobus. Il marito denuncia la società di trasporto e chiede un risarcimento per il danno economico subito con la perdita della moglie, che si occupava di una famiglia con 4 figli. Gli avvocati, allora, quantificano quel lavoro domestico: lavare, stirare, cucinare, eccetera. E l’uomo vince la causa. Ora, se cerchiamo di monetizzare, come fa il capitalismo, quanto costerebbe assumere una infermiera, una insegnante per i figli, una collaboratrice domestica, possiamo farci un’idea dell’apporto economico al Pil costituito dalla seconda giornata delle donne. Capiamo anche che, nel caso di quei 3,5 milioni di donne che fanno esclusivamente lavoro domestico, che non hanno orario né salario, tutti i sistemi di bonus straordinari decisi prima da Chavez e ora dal presidente Maduro, non sono concessioni, ma compensazioni dovute. Dunque, una volta saldato il debito storico con le donne che svolgono esclusivamente il lavoro domestico, la sfida è quella di trasformare le relazioni attraverso la socializzazione del lavoro di cura e la corresponsabilità di tutti i componenti del nucleo familiare e della comunità.

Durante un incontro della Cepal, che si è svolto recentemente in Cile, tu hai illustrato queste conquiste, ma anche denunciato le conseguenze del blocco economico-finanziario che pesano principalmente sulle donne. Che reazioni hai avuto?

Si trattava di un incontro sui modelli economici emergenti nel Latinoamerica e nei Caraibi, a livello dei ministeri della donna. In Cile si paga anche l’acqua, e il prezzo cambia se la consumi calda o fredda. La nostra costituzione vieta la privatizzazione delle risorse e dei servizi pubblici. Nonostante il feroce blocco economico-finanziario a cui siamo sottoposti, il governo destina oltre il 75% delle entrate annuali ai piani sociali. Abbiamo costruito oltre 3 milioni di casa popolari. Lì erano presenti paesi che sono tornati a destra, la Bolivia ha mandato addirittura un uomo a rappresentare il ministero della donna… Siamo state accolte calorosamente dai movimenti femministi, che invece hanno contestato le posizioni retrograde presenti. Noi abbiamo rappresentato l’unico governo legittimo del Venezuela, quello di Nicolas Maduro. Abbiamo illustrato le conquiste delle donne, possibili solo con il socialismo. Abbiamo denunciato gli attacchi subiti per tutto il 2019. A marzo dell’anno scorso, dopo il sabotaggio elettrico, gli attacchi elettromagnetici, l’accerchiamento internazionale, la minaccia d’invasione esterna chiesta da una destra che si è rubata oltre 460 milioni di dollari, non pensavamo che oggi saremmo riusciti a essere il paese economicamente più stabile della regione. Invece abbiamo vinto la sfida. La sfida di un nuovo 8 marzo.


 

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