Sulla "non democraticità della scienza" e il ruolo della politica



di Antonio Di Siena*


L'assunto “la scienza non è democratica” è tornato prepotentemente di moda e, complici le paure legate alla pandemia, è diventato un leitmotiv sempre più difficilmente contestabile, pena il passare per un negazionista antiscientifico.

Secondo questo principio l’opinione degli “esperti” – una volta validato il procedimento scientifico – deve prevalere, senza se e senza ma, su quella di chiunque altro non abbia le medesime competenze.

Il problema però è che un'affermazione di questo tipo ha una portata tale – reca con sé implicazioni talmente grandi per ogni ambito della società – che non ci si può limitare a prenderla per buona senza comprendere a fondo di cosa esattamente stiamo parlando.
Sostenere che la scienza non è democratica significa, infatti, sancire non soltanto un principio attinente alla scienza e al suo metodo. Ma anche alla democrazia. Perché se è certamente vero che l'esistenza della forza di gravità non si decide per alzata di mano è altrettanto vero che la democrazia non si riduce all'esercizio di alzare la mano per votare.

La non democraticità della scienza, quindi, ci obbliga a chiarire cosa esattamente s'intenda per democrazia.

Secondo una definizione elementare, la democrazia, altro non sarebbe che la messa a sistema del principio della maggioranza. Un metodo di assunzione delle decisioni collettive basato su libertà d'espressione e principio dell'uno vale uno. Si discute su un dato argomento, ognuno dice liberamente la sua, e infine si vota. La maggioranza vince. Ebbene se l'esercizio della democrazia fosse circoscritto soltanto a questo, con tutta evidenza, il principio di non democraticità scientifica sarebbe certamente vero. E lo sarebbe in ogni caso.

Ma la democrazia non è riducibile esclusivamente a questo; l'atto del votare, cioè, non esaurisce la democrazia.

Nel corso della sua millenaria storia, infatti, il concetto di democrazia si è allargato sempre più, inglobando e facendo propri una pluralità di diritti che abbracciano tutte le sfere della vita, individuale e collettiva. Principi fondamentali, diritti politici, diritti civili, diritti sociali, sono stati (e continuano ad essere) i tratti distintivi delle moderne democrazie di cui lo Stato sociale è il più fulgido esempio. Un'estensione che ha dato forma alla distinzione fra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale fra i cittadini, connotando la democrazia come un articolato impianto di valori e diritti “universali” racchiusi nelle Carte costituzionali. Un sistema complesso, quindi, che riesce ad andare oltre il semplice meccanismo maggioritario mettendosi al riparo da pericolose derive plebiscitarie. Prova ne è che nelle moderne democrazie è ben possibile che determinate decisioni siano precluse alla decisione della maggioranza e vengano invece assunte esclusivamente con meccanismi predeterminati (si pensi al divieto di referendum in materia tributaria e di bilancio). Altre siano addirittura appannaggio di determinate categorie (i giudici). E, soprattutto, risulti impossibile derogare ai principi supremi - nemmeno per esplicita volontà maggioritaria - senza sopprimere la democrazia stessa (il famoso paradosso della democrazia).

Il principio maggioritario, pertanto, non coincide con la democrazia e non la esaurisce. Ma ciò non significa che sia superato. L'esistenza di limitazioni ad esso, infatti, non sono la regola generale ma semplici eccezioni. Il principio maggioritario, quindi, seppur con tutti i limiti del caso, resta presupposto e caposaldo di qualunque Stato democratico. Le deroghe sono consentite esclusivamente in presenza di precise motivazioni, predeterminate e specificate dalla legge.

Alla luce di questa composita definizione è dunque opportuno capire che rapporto intercorra fra il moderno concetto di democrazia e la pretesa non democraticità della scienza. Che relazione si instaura, cioè, fra il mondo scientifico e quello democratico rappresentato dalle istituzioni dello Stato, dalla politica, dalla società, dai cittadini.

Ed è questa domanda che disvela la vera natura del problema.

Perché esattamente come la democrazia non si riduce al semplice atto del votare, non è possibile confinare la scienza moderna dentro il mondo accademico. E quello che qui interessa esaminare non è il funzionamento della scienza, il processo tutto interno di validazione di una determinata evidenza scientifica (due più due farà sempre quattro, anche se il popolo votasse che fa cinque). Quanto piuttosto l'impatto del pensiero e dei risultati scientifici (e delle innovazioni tecnologiche) sulla società nel suo complesso.

Detta più banalmente interessa pesare la proiezione della scienza verso l'esterno, la sua pretesa - più o meno fondata - di determinare l'indirizzo della società sulla base di pareri e decisioni che attengono (e competono) soltanto parzialmente ad essa.

Appare pertanto evidente che, quello sulla non democraticità della scienza, non è un dibattito scientifico. Ma esclusivamente politico, e come tale dev'essere trattato. Perché se è certamente vero - e qui caliamo il ragionamento dentro l'evento pandemico e la sua gestione - che nel corso di una emergenza sanitaria la scienza è l'unica legittimata a determinare il livello del rischio, a dirci il “cosa” (in questo caso la natura di un virus e la sua pericolosità), ben diverso è determinare chi sia effettivamente preposto a decidere del “come” affrontare questo rischio. In questo secondo caso la scienza resta certamente un attore fondamentale del dibattito (e il suo parere su come arginare il fenomeno dev'essere tenuto in grandissima considerazione) ma – molto semplicemente - non è più detentrice di alcuna verità indiscussa e indiscutibile. Il parere scientifico deve, per forza di cose, fare i conti con le ricadute in altri ambiti in cui la scienza non ha (e non deve avere) nessuna voce in capitolo: il diritto, l'economia, la filosofia, la politica. Materie che regolano il funzionamento della società e sulle quali gli scienziati hanno diritto di parola al pari di tutti gli altri cittadini. Il loro parere, cioè, vale quanto quello degli altri. Né più né meno.

Stravolgere questo principio significa applicare la non democraticità del metodo scientifico al funzionamento dell'intera società democratica. Finendo per creare uno stato d'eccezione permanente che normalizza la compressione del processo democratico derogando ai suoi principi fondamentali. Consentendo a un manipolo di “esperti” di assumere autonomamente decisioni che di regola spettano alla collettività dei cittadini.

Una condizione patologica della democrazia in cui l'abdicazione della politica (situazione che abbiamo già vissuto con l'avvento dei “governi tecnici” preposti a gestire situazioni straordinarie), il suo rifiuto di affrontare e farsi carico dei complessi problemi della modernità, spiana la strada a un modello di società in cui le decisioni non sono più figlie delle ideologie e, quindi, risultato del bilanciamento di legittimi interessi contrapposti. Ma determinate esclusivamente da presunte e incontrovertibili verità scientifiche sulle quali il comune cittadino, privo di competenze tecniche specifiche, non può mettere bocca senza apparire negazionista, ignorante, retrogrado, illiberale, antidemocratico, fascista.

Una società in cui il semplice esercizio del dubbio diventa la principale fonte di pericolo e che, inevitabilmente, finisce col trasformare una parte dei suoi consociati in una ristretta élite di infallibili sacerdoti. Tutti gli altri sono semplicemente tenuti a credere e obbedire, allo stesso modo dei fedeli.

O dei sudditi, se aiuta a capire meglio di cosa stiamo parlando.

*Autore di Memorandum, una moderna tragedia greca.

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