La pericolosità del femminismo liberista nel “post-covid”

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La pericolosità del femminismo liberista nel “post-covid”


di Sara Reginella 


 
La situazione odierna riferita alla condizione lavorativa conseguente il lockdown da covid-19 mostra uno spaccato che ha colpito fortemente la categoria femminile, aumentando la disparità tra i generi.

 
Già prima dell’esplosione della pandemia, per molte donne era all’ordine del giorno accettare lavori precari, part-time, in contesti senza tutele sindacali, al solo fine giungere ad un triste compromesso tra esigenze lavorative e necessità di dedicarsi alla cura dei figli e della famiglia.

 
In Spagna, uno studio condotto Lidia Farré e Libertad Gonzalez ha mostrato come le donne dedicassero già il 56% del tempo fuori dal lavoro alla famiglia, contro il 30% del tempo dedicato dagli uomini.
Asvis (Agenzia Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) riporta come in Europa la percentuale di donne inattive a causa di impegni di cura familiari fosse del 31% con un peggioramento negli ultimi dieci anni.
 

Tale situazione già drammatica si è inserita all’interno dello scenario collegato all’esplodere dello smart-working nel pieno della pandemia: aberranti le riflessioni di coloro che hanno descritto il “lavoro agile” come un toccasana per le donne che in tal modo avrebbero potuto autogestire il tutto da casa in un mix tra oneri domestici, accudimento familiare e un quantitativo di ore lavorative non calcolabili, sempre con lo stesso stipendio.
 

Da questo quadro al limite dell’autosfruttamento è scaturita una rappresentazione della donna fatta di devozione, cura e spirito di sacrificio corrispondente a un “manifesto” della sottomissione del femminile anacronistico e funzionale al sistema capitalistico.
 

Senza cadere nel vittimismo, occorrerebbe reagire a questa dimensione esaltata dalla pandemia che ha visto le donne sempre meno tutelate e sempre più autosacrificate sull’altare dell’abnegazione familiare.
 

In linea con questa condizione, la riapertura delle scuole è stata spesso descritta come una possibilità per tornare a sostenere le madri, aspetto che sembra dare per scontato che siano state perlopiù le donne a farsi carico del supporto dei figli anche in percorsi di didattica a distanza, durante il lockdown.
 

Quella delle donne resta dunque una categoria fortemente colpita, basti pensare come anche rispetto alla possibilità del congedo parentale straordinario al 50%, inserito a seguito della pandemia, nel decidere all’interno di una famiglia quale dei coniugi potesse usufruirne, la scelta sia stata spesso connessa alla rinuncia della metà dello stipendio più basso, che di frequente è quello della donna, a causa dell’ancor presente divergenza di salari tra i generi.

 
Il rischio è dunque che le conseguenze sul piano lavorativo innescatesi col lockdown, conseguenze che hanno colpito una categoria lavorativamente già fragile, siano sfruttate in chiave neo-liberista con un’ulteriore riduzione dei diritti e impoverimento a danno della classe lavoratrice femminile.
 

Sarebbe quindi di fondamentale importanza unire la lotta per la parità di genere con quella anticapitalista, ne beneficerebbe l’intero sistema sociale.
 

Senza voler generalizzare si rileva che troppo spesso, oggi, i movimenti femministi mediaticamente più rappresentati, nel guardare verso ideologie liberiste, perdono di vista le battaglie per la tutela dei diritti sociali.
 

A tal proposito, si citano a titolo esemplificativo le proteste del celebre movimento ucraino delle Femen o quelle del collettivo russo delle Pussy Riot. Entrambi i gruppi, con un’estetica connessa a una retorica finto rivoluzionaria, negli anni hanno inscenato isteriche proteste che nulla hanno avuto a che vedere con battaglie contro le ingiustizie del capitalismo o con lotte in grado di incidere significativamente per il raggiungimento di una reale parità tra i generi.

 
Si segnalano inoltre, sempre a titolo esemplificativo, interventi ingannevoli come quelli legati a un femminismo mendace di personaggi pubblici quali Angelina Jolie che, a braccetto con il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg, ad esempio, richiedeva alla NATO stessa impegno a difesa dei diritti delle donne, all’interno di scenografici travestimenti grotteschi che finivano per mostrare l’Organizzazione del Trattato Atlantico quasi come un ente caritatevole piuttosto che come il braccio armato dell’imperialismo guerrafondaio, causa delle peggiori violenze su donne, oltre che su uomini e bambini.


Questi teatrali cammuffamenti hanno il loro successo e in troppi cedono a tali fascinazioni che non fanno altro che annebbiare le coscienze e contribuire a spezzare i diritti delle donne.
 

Ora che la crisi pandemica è rientrata, ma la situazione lavorativa e salariale è peggiorata per molte categorie, come quella delle lavoratrici, occorrerebbe fare tesoro dell’esperienza vissuta e prendere atto della situazione subita da tutte quelle donne che, nello sbilanciamento verso il lavoro di cura familiare, hanno visto non tutelati i propri diritti in un contesto di autosfruttamento in cui, come ben afferma Tithi Bhattacharya “il capitale si mostra sempre più riluttante a spendere i suoi profitti in processi che sostengano e alimentino la vita. In tal modo, il lavoro di cura viene sottovalutato e sottopagato all’interno del capitalismo stesso”.
 

Contro la pericolosa esaltazione di un femminismo liberista fintamente rivoluzionario e al di là di qualsiasi tendenza che veda la donna vittima di stereotipi di genere in grado di porla in una dimensione che va dall’autosacrificio della cura alla protesta isterica all’interno di movimenti finto femministi, occorrerebbe tornare a una maggiore consapevolezza in grado di ricondurre anche le donne ad essere lucide protagoniste in battaglie contro il profitto e per la parità di genere.  
 
 
 

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