Abituare gli italiani alla guerra

L'opera di propaganda del Corriere della Sera è senza sosta: abituare gli italiani al conflitto e all'idea che i tagli ai diritti sociali siano necessari

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Abituare gli italiani alla guerra

 

di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

 

Se si va in cerca di florilegi euroraccapriccianti su quel corvino foglio che è il Corriere della Sera, raramente si rimane delusi. L'importante è premunirsi, assumendo degli efficaci gastroprotettori; dopo di che si possono affrontare, con relativa tranquillità, le lacrime di quegli eurosanfedisti per il fatto che, vedete un po', le persone comuni, in Italia, quelle che devono affrontare quotidianamente i sacrifici imposti da ogni governo liberal-reazionario in fatto di lavoro, sanità, pensioni, «dicono sì agli investimenti per la difesa ma temono sacrifici per sanità e assistenza sociale».

La prendono alla lontana, i professori Maurizio Ferrera e Stefano Sacchi, sul Corriere della Sera del 12 luglio, raccontando dell'arcivescovo di Canterbury e del suo “welfare”, contrapposto al «warfare state» nazista, per difendere il quale era indispensabile «lo sforzo militare contro Hitler». Terminato il conflitto e «Grazie all’ombrello militare americano, dal dopoguerra in avanti la spesa sociale in Europa ha superato di dieci volte o più la spesa per la difesa». Poi sono stati «Settant’anni di pace», ci raccontano, omettendo, dio ce ne scampi, degli interventi militari contro paesi stranieri, dei bombardamenti su vicini “sgraditi”, a est e a sud nel Mediterraneo; insomma: «I Paesi europei sono diventati “democrazie del benessere”». Quelli che hanno ardito discostarsi da quel modello, preoccupandosi in forme alternative del benessere dei propri cittadini, sono stati ridotti alla ragione dai jet NATO. Chi e in quanti, qui da noi, potessero godere di quel “benessere”, non è il tema della giornata; quindi i professori possono non parlarne. Piuttosto, sono oltremodo preoccupati perché oggi, per le mosse di quel birbante di Trump, che non ne vuol sapere di “ombrelli” sull'Europa, siamo «nuovamente vulnerabili. Le mire espansionistiche di uno stato guerrafondaio, la Russia di Putin, minacciano la stabilità del nostro modello sociale» e allora ecco che le «democrazie del benessere» non possono far altro che portare le spese di guerra al 5% da qui al 2035. Non sia mai che quel «modello sociale» che, da ostinati veterocomunisti, ci ostiniamo a chiamare capitalismo, cioè sfruttamento del lavoro salariato per l'accrescimento del profitto del capitale, oppressione dell'uomo sull'uomo, venga minacciato nel suo sacro impegno di appropriarsi extra-profitti dalle commesse militari! Non sia mai. Dunque, avvantaggiamoci con un buon 5%.

Non possono fare altro, assicurano, che procedere con quel 5%: è la nuova parola d'ordine degli eurotagliagole, che affibbiano ad altri categorie e qualifiche di «guerrafondai» modellate direttamente su sé stessi. Una nuova parola d'ordine già lanciata, esattamente una settimana fa e esattamente sullo stesso giornale, dal signor Paolo Gentiloni, secondo il quale per la “sicurezza dell'Europa” non si può contrapporre l'esigenza di armarsi alle richieste di accedere alla sanità pubblica, per di più gratuita e garantita per tutti. Anzi, omeliava lo scorso 5 luglio il signor Gentiloni, bisogna far entrare nelle teste delle persone che non «c’è più una difesa che viene da fuori. Dovremmo fare uno sforzo, tutte le forze politiche, per spiegare che bisogna fare questo», che cioè bisogna far ingoiare ai lavoratori, ai pensionati, ai disoccupati la scelta di dirottare ogni centesimo in missili, blindati, F35 da comprare in USA. Dunque, nel caso il concetto non fosse entrato nelle teste della massa ignorante, ecco che i professori Ferrera e Sacchi lo ribadiscono il 12 luglio e, per parte nostra, nel tentativo di soccorrerli in questo sacrosanto sforzo culturale, volgarizziamo la loro parola d'ordine in un maccheronico “si vult salus sanitaque, para bellum”.

Proprio per difendere il “welfare” dell'arcivescovo di Canterbury, è indispensabile affibbiare «una consistente sforbiciata» alle spese sociali, «pari in media UE al 26,8% del PIL (2023)», col risultato, evidentemente per qualcuno inaspettato, per cui quei «comitati nazionali di milionari» (Lenin) che sono i governi, finiscono «fra l’incudine degli impegni presi con la NATO e il martello del malcontento popolare in caso di tagli»; di passaggio: «impegni presi con la NATO» evitando molto spesso il Parlamento e di cui le masse popolari vengono informate a cose fatte.

Ora, dicono i due professori, in base a sondaggi accademici, «seppure in misura inferiore agli altri Paesi, l’opinione pubblica italiana appare consapevole della necessità di investire di più nella difesa. Tuttavia, è quella più contraria a eventuali sacrifici sul terreno del welfare». Ingenuamente, ci chiediamo se non sia forse contraria perché già oggi sta drammaticamente sperimentando i risultati di almeno un ventennio di tagli, operati da governi che si sono “diversificati” solo nel linguaggio, su sanità, istruzione, assistenza sociale, pensioni e si sono distinti per politiche del “lavoro” schiavistiche sul piano salariale e feudali sul piano dei rapporti padronali, mentre quella stessa «opinione pubblica» comprende appieno, pur non vantando titoli accademici come i due esimi editorialisti, che ulteriori tagli significherebbero la definitiva distruzione di ogni intervento pubblico, accelerando contemporaneamente l'appropriazione di mastodontici profitti da parte di clan sanitari privati, cosche assicurative, congreghe scolastiche e accademiche private.

Che fare, dunque, di fronte alle «minacce attuali e potenziali», portate senz'altro da «uno stato guerrafondaio, la Russia di Putin», che minano «la stabilità del nostro modello sociale»? Si devono trovare altre strade e queste convergono sulla «centralizzazione della difesa europea», tanto più che, dicono, in Italia «l’opinione pubblica è in maggioranza favorevole alla creazione di un “esercito europeo”». Un esercito che, nella sostanza, è già operante da anni, sotto forma delle cosiddette “missioni di pace” in Medio Oriente, in Africa, con le popolazioni locali “pacificate” a suon di cannoni e bombe d'aereo, mentre la diluizione, in missioni congiunte euroatlantiche, dell'impegno militare nazionale, fa percepire quest'ultimo come marginale e, dunque, passibile di venir incrementato e elevato a “comune difesa europea”.

Anzi, è venuto il momento di tornare a stuzzicare qualche smania bellicista italica tra gli strati più qualunquisti dei settori sociali arretrati, magnificando glorie passate e prospettive guerresche a venire e instillando nelle più giovani generazioni il culto della divisa e delle armi. Non si perde così occasione per esibire i gagliardetti dei reparti più nefandi delle schiere belliche mussoliniane e magnificare le loro “gesta” in Africa, Spagna, Jugoslavia, Grecia, Unione Sovietica. In parallelo e a confermare, malgré eux, le parole di Lenin, secondo cui le «guerre sono favorite dai pregiudizi nazionalisti, coltivati sistematicamente nei paesi civilizzati nell'interesse delle classi dominanti», ecco che risuona con sempre maggior baccano la grancassa militarista che ammorba scuola, società, coscienze sociali. Si sarà certamente notato con quale frequenza le pubblicità dei canali di regime insistano sulla “italianità” di ogni aspetto della vita quotidiana: “sapori italiani”, “colazione italiana”, “lochescion italiana”, persino il gusto, l'estate, le serate, sono “italiane”. Nazionalismo e guerra.

Ma i professori Ferrera e Sacchi parlano di altri, non di noi; dalle loro cattedre, non potrebbero fare altro e suggeriscono che «l'opinione pubblica italiana... quella più contraria a eventuali sacrifici sul terreno del welfare» possa essere persuasa battendo il tasto del «rafforzamento delle capacità civili...  disastri naturali, pandemie o collassi improvvisi di infrastrutture critiche»: cioè quegli stessi adeguamenti alle esigenze militari fatti passare per “interventi civili”.

Et voilà; les jeux sont faits. O quasi: sullo stesso giornale, il ricercatore Gregorio Buzzelli afferma che i dati del progetto SCOaPP indicano che, in generale, non nella sola Italia, si è contrari a «un aumento della spesa militare finanziato da tagli al welfare» e che questi sarebbero accettati da «meno del 20% degli intervistati». In Italia, però, appena il 10% si dice favorevole a quegli eventuali tagli, anche nei confronti dell’assistenza sociale: un dato che non sorprende affatto.

E se un altro ricercatore, Davide Caprioglio, riporta dati “Solid”, secondo cui il 48,7% dei cittadini italiani sarebbe «favorevole a un riarmo nazionale» - «valore percentuale più basso tra i 18 Paesi UE del campione» - pur col 73% che dà priorità al welfare, rimane comunque da verificare, quanto incida l'impatto mediatico su tale “propensione” al «riarmo nazionale». Tra interventi diretti nelle scuole, immagini televisive, quotidiani commenti “professionali” su tutti media - come quelli, per l'appunto, dei professori Ferrera e Sacchi su “Le mire espansionistiche di uno stato guerrafondaio, la Russia di Putin», che è lì lì per attaccare a suon di missili «la stabilità del nostro modello sociale» - hanno purtroppo un minimo effetto le poche voci che si levano a dire che, sì, in Europa ci sono davvero dei perfetti guerrafondai, che minacciano la pace, ma siedono altrove. Guardate ai signori Macron. Starmer, Merz, Meloni e alla loro crociata militarista contro un immaginario “attacco da est”.

Prendendo a prestito un'allusione di Elena Karaev su RIA Novosti, ci chiediamo quanto incida, sulla crociata indetta dai nuovi feudatari bramosi, come i loro avi di mille anni fa, di accrescere possedimenti, introiti e influenza, la cupidigia europeista per alcune, misere "commissioni legittimamente dovute" sugli ordinativi militari. Eccole, le sicure «mire espansionistiche di stati guerrafondai» e di tutti becchini del “welfare” che siedono nei Palazzi tedeschi, britannici, olandesi, danesi, italiani, polacchi, tutti smaniosi di impiantare fabbriche di armi in Ucraina, perché in quel paese, ridotto alla fame da UE-NATO, FMI, Banca mondiale, i profitti dallo sfruttamento del lavoro salariato sono largamente maggiori di quelli “europeisti” e le “commissioni legittimamente dovute” sono corrispondentemente più elevate. Per citare solo il caso francese: per l'anno a venire, ricorda Elena Karaev, Parigi destinerà ufficialmente 431 miliardi di euro per le esigenze dell'esercito e del complesso militare-industriale. Il bilancio militare russo per lo stesso anno è di circa 140 miliardi di euro e, stando ai dati dell'Osservatorio Conti pubblici italiano, nel 2024 la spesa militare europea eccedeva quella russa del 58%.

E se Merlino-Kubilius insiste col vaticinio di un attacco russo a uno o più paesi europei, i fatti indicano che, invece, per UE, capitali europee e complesso militare-industriale europeo, la sola ma essenziale condizione di pace posta da Mosca, cioè «la smilitarizzazione dell'Ucraina, è inaccettabile in linea di principio». In questo modo Bruxelles, di fatto, formula un nuovo casus belli nei confronti della Russia e potrebbe trovare, non appena gli arsenali siano di nuovo riforniti, un qualsiasi pretesto per uno scontro diretto.

Come non pensare, malignamente, che gli insulsi impostori Merz, Macron, Meloni, Starmer; Frederiksen, Tusk, insieme agli infernali ipocriti delle malebolge von der Leyen, Kallas o Kubilius, siano capacissimi di scatenare un conflitto, solo per mettersi al sicuro e accaparrarsi tangenti miliardarie sulle commesse di guerra?

D'altronde, per concludere con Lenin, «la guerra non è una casualità, non è un “peccato”, come pensano i preti cristiani... bensì uno stadio inevitabile del capitalismo».


FONTI:

https://ria.ru/20250712/evropa-2028663269.html

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