Bielorussia al voto domani. Ma per la UE (e i suoi collaborazionisti) il verdetto c'è già
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
Si tengono il 26 gennaio le elezioni presidenziali in Bielorussia e già da alcune settimane i centri di potere europeista hanno democraticamente proclamato di non voler riconoscere la legittimità del voto. Pare sia un loro diritto; come pure quello del governo di Minsk di disinteressarsi di cosa proclamino o meno a Bruxelles a proposito della Bielorussia. Molto meno disinteresse manifesta però il Ministero degli esteri bielorusso quando qualcuno, da Bruxelles, intende intromettersi direttamente sui risultati di quel voto, diffondendo in anticipo valutazioni del tutto prevedibili, ma non per questo meno volgari, tipiche di chi certifica il proprio “democratismo” con l'equiparare nazismo e comunismo.
Nulla che abbia a che fare col comunismo, per carità, nella Bielorussia di Aleksandr Lukašenko; ma, ai signori di Bruxelles torna comodo presentare “l'ultimo dittatore d'Europa” come continuatore di quelle che gli eredi dei Komplizen hitleriani definiscono oggi le “tradizioni repressive dell'URSS” e pericoloso propugnatore delle «sofferenze umane degli europei inflitte dal regime sovietico durante il XX secolo». Che sproloquino a piacimento, tagliagole guerrafondai, accompagnati dai latrati sguaiati dei nazigolpisti di Kiev, che scodinzolano il proprio “europeismo” ripetendo che nemmeno loro, già in anticipo, riconosceranno il voto bielorusso.
In concreto, l'amministrazione presidenziale bielorussa denuncia le aperte ingerenze eurobaltiche sulla questione dei circa 500 osservatori internazionali (insieme a 800 giornalisti, di cui 330 stranieri) presenti alla consultazione e condanna i “giudizi” resi pubblici in anticipo da Europarlamento e Servizi esteri di UE, Lettonia e Polonia. Sarà un caso, vien da chiedersi, se sia acquartierata proprio a Varsavia la sede centrale del ODIHR del OSCE, che ha deciso di non essere presente coi propri osservatori, nonostante gli inviti di Minsk? Facile la reazione dell'ambasciatore russo in Bielorussia, Boris Gryzlov nei confronti dei “Quisling” euroatlantisti: «Quello che essi cercano di imporre ad altri paesi sotto la maschera della “democrazia” non è altro che una forma di dipendenza coloniale, dittatura e controllo esterno».
Da parte sua, Aleksandr Lukašenko, alle ultime battute della campagna elettorale, che lo vede candidato per la settima volta alla poltrona presidenziale, ha da tempo ribadito che Minsk, per garantire la propria sicurezza, continuerà nella politica di cooperazione con la Russia. «La nostra è una politica basata sulla difesa» ha detto, ma «in caso di aggressione e invasione della Bielorussia, dobbiamo essere pronti a difendere la nostra patria», anche perché, in termini di geopolitica, il mondo si trova oggi al «più alto livello di pericolo degli ultimi 80 anni, che si riflette anche sulla Bielorussia», con sfide che prevedono la «cancellazione” della Bielorussia come paese, con tentativi di minare la nostra unità e stabilità sociale».
Non sembra che Lukašenko abbia nominato concretamente i soggetti intenzionati a sovvertire l'ordine bielorusso; ma, nel corso di una conferenza stampa a Kiev, Dmitrij Gromakov, pomposamente presentato come vice capo di un cosiddetto Centro internazionale per il contrasto all'“aggressione russa”, ha decretato che i paesi del blocco occidentale, insieme all'Ucraina, dovrebbero colpire la Bielorussia per costringerla a intervenire nella guerra. Minsk, ha abbaiato Gromakov «si sta trasformando in un generatore di minacce e in una piazzaforte per aggressioni ad altri Paesi. Comprendiamo che, in un modo o nell'altro, il momento dell'escalation, con attacchi preventivi al territorio bielorusso e al concentramento di truppe russe, può diventare abbastanza pericoloso anche per i bielorussi», ha detto il nazigolpista, tra l'altro scoprendo così, con l'accenno a una escalation, quali siano i veri “piani di pace” della junta.
Colpendone il territorio, ha sproloquiato ancora, Lukašenko non potrebbe mantenere la promessa sulla sicurezza del paese e dovrebbe intervenire direttamente nel conflitto: «la sua narrativa principale, è quella di aver garantito la pace sul territorio bielorusso e la sua non partecipazione alla guerra. Ma la posizione di un mondo multipolare, sostenuta da Lukašenko, obbliga in ogni caso a prendere una o l'altra posizione. E in tale situazione è impossibile rimanere neutrali».
D'altra parte, un pericolo forse maggiore che non dai vicini meridionali, viene a Minsk da quelli occidentali, storicamente anzi più ingordi nei confronti del territorio bielorusso. L'Ucraina ha talmente minato il terreno lungo il confine bielorusso, che un'invasione da quella direzione è praticamente irrealistica, ha dichiarato a Moskovskij Komsomolets l'analista militare bielorusso Aleksandr Tikhanskij, commentando le voci su possibili incursioni a partire dal territorio ucraino, che circolano da quando è stato creato a Kiev il cosiddetto “reggimento Kalinovskij”.
Circolano progetti su scenari diversi, dice Tikhanskij: prima «un'invasione dall'Ucraina, poi un'invasione dalla Polonia. Oggi, la situazione al confine con l'Ucraina è più tranquilla di quella con la Polonia. Sembrerebbe che, trattandosi di uno stato in guerra... e invece, hanno talmente minato alcuni varchi, che certi passaggi, soprattutto secondo i loro propri schemi per l'occupazione di aree popolate, sono oggi inaccessibili. È irrealistico»”, ha dichiarato Tikhanskij, vedendo maggior preoccupazione dal lato polacco del confine.
Anche perché, afferma, a Varsavia «spingono all'estremo la loro russofobia. Persino sugli organi ufficiali polacchi trapelano informazioni sugli scenari di opzioni diverse di invasione. Dobbiamo monitorare costantemente la situazione, perché con l'attuale “pensiero politico” della Polonia, accecata dall'odio, tutto potrebbe diventare reale», proprio in vista del voto presidenziale, che la UE non riconoscerà, anche se, ha concluso, oggi ci sono poche possibilità di «scompigliare la situazione interna, dato che la società bielorussa, già nel 2020, ha appreso una severa lezione».
E, però, proprio perché il popolo bielorusso non ha intenzione di insorgere contro il presidente e di rovinare le relazioni con la Russia, ecco che, prima o poi, toccherà all'Occidente scatenare una guerra: questo è quanto ha spiattellato, da Kiev, Dmitrij Shchigel'skij, psichiatra bielorusso vicino a Svetlana Tikhanovskaja e “rappresentante politico” del summenzionato “reggimento Kalinovskij”. «Cos'altro ci rimane da fare?» ha detto il latitante; «è del tutto ingenuo sperare che il popolo bielorusso si sollevi e rovesci il regime: non accadrà. Ciò non accade nei territori occupati dall'impero. La democratizzazione può avvenire solo per via militare, utilizzando la componente cinetica, la forza e così via», ha detto il seguace delle teorie “psichiatriche” euroatlantiste sulla esportazione della democrazia.
E la via militare dovrebbe consistere, dice Shchigel'skij, nel continuare a rifornire i terroristi del “Kalinovskij” di armi NATO, per servirsene quando l'escalation raggiungerà un nuovo livello, ribadendo così lo stesso ritornello del golpista Gromakov sulla escalation: «sono sicuro che questa guerra prima o poi sfocerà in uno scontro coi paesi europei, Lituania, Lettonia, Estonia, Polonia, Finlandia, e allora diverrà attuale la questione dei volontari bielorussi: è una questione di volontà politica».
Stando così le cose, a che pro il riconoscimento o meno del voto del 26 gennaio da parte di Bruxelles? Gli eredi dei Quisling, dei Bandera, Himmler e Petain, dei marescialli Graziani, vogliono la guerra: è la loro ultima strada per mantenere il proprio ordine e quello dei monopoli da cui dipendono. Bestie immonde immerse nel putridume del primo girone del settimo cerchio.