Coronavirus, il nostro sistema sanitario nazionale era pronto ad affrontare l'epidemia? Intervista al dottor Enrico Giani (prima parte)

Coronavirus, il nostro sistema sanitario nazionale era pronto ad affrontare l'epidemia? Intervista al dottor Enrico Giani (prima parte)

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di Fabrizio Verde
 

Continua il percorso di interviste intrapreso da l’AntiDiplomatico per permettere ai propri lettori di orientarsi adeguatamente in questa fase di grande confusione segnata dallo scoppio della pandemia del nuovo coronavirus Covid-19. A oltre un mese dall’istituzione delle prime zone rosse e con quasi tutta l’Italia confinata in casa per il cosiddetto lockdown, tante sono le domande che si affastellano nelle menti dei cittadini italiani. 

 

Abbiamo quindi deciso di porre alcune domande al dottor Enrico Giani. Specializzato in Igiene e Medicina Preventiva, nonché specialista in Medicina Tradizionale Cinese, Agopuntore e autore di un volume che ripercorre la storia del sistema sanitario nazionale (Breve storia del sistema sanitario nazionale). Un libro che racconta la storia di decenni di lotte, rivendicazioni e conquiste in tema di diritto alla salute, con particolare riferimento alla grande rivolta del 1968 ed alla legge istitutiva del Sistema Sanitario del 1978, dove viene denunciato il percorso contro riformatore che ha permesso ai governi ed alle mafie sanitarie, di depredare e demolire la sanità pubblica e gratuita, a favore di quella privata, a pagamento ed asservita alle logiche di profitto.  

Con il dottor Giani abbiamo realizzato una chiacchierata prolifica e ricca di spunti interessanti che proponiamo ai nostri lettori divisa in due parti. 

 

Intervista
 

Dottor Giani ci spiega qual é la sua idea su questa epidemia di coronavirus che ha colpito con particolare virulenza il nord Italia?


Lo studio di una epidemia è un fenomeno estremamente complesso con implicazioni non solo sulla salute ma in tutti i campi della vita umana. Per questo vorrei partire da quei pochi aspetti che allo stato attuale delle conoscenze possiamo considerare “certi” o meglio sufficientemente condivisi dalla “comunità scientifica”, prima di passare a quelli ancora ignoti e fonte di accese discussioni.


Un primo aspetto è che sulla base dei dati forniti dal governo cinese (dati peraltro molto probabilmente sottostimati) la prima grande ondata epidemica di coronavirus, iniziata con la segnalazione del primo caso il 31 dicembre del 2019 da parte di un medico cinese poi deceduto, sarebbe terminata lasciando dietro di se un bilancio ufficiale di 3.295 morti su poco più di 80 mila contagiati, quasi tutti concentrati nella regione dell'Hubei e nella sua capitale Wuhan, un importante snodo del sistema ferroviario del paese dove il tasso di letalità dell'epidemia è stato stimato dall'OMS tra il 2 ed il 3,4%. Per confronto in Italia, dove ancora non è stato raggiunto il cosiddetto “picco dei contagi” né tanto meno il cosiddetto “plateu” che precede la più o meno rapida decrescita, l'epidemia sembra ancora fuori controllo. Il totale dei contagiati è di quasi centomila, i morti totali dall'inizio dell'epidemia ad oggi sono oltre diecimila, la media dei nuovi contagi/die supera la soglia delle tremila unità, ed oltre 500 sono i nuovi decessi/die, per un tasso di letalità che si assesta intorno al 10%. Questi dati confermano l'Italia come di gran lunga il paese con il più alto numero di morti (più di un terzo del totale dei decessi a livello globale, la metà dei decessi europei).



Il secondo aspetto riguarda l'eziologia di questa patologia. Tutti concordano che si tratta di una pandemia virale causata da un nuovo virus ad RNA appartenente alla famiglia dei coronavirus, una famiglia di virus molto studiata che è stata divisa in quattro grandi generi (alpha, beta, gamma, delta) che riuniscono, accanto a questo nuovo ceppo virale, ben 23 sottofamiglie. Per quanto riguarda il meccanismo di trasmissione del contagio per tutti i coronavirus umani vengono chiamate in causa in primo luogo le cosiddette “microgoccioline di saliva” (flugge) che permettono al microrganismo di passare da un essere umano all'altro. Questo significa che il Covid 19 si diffonde facilmente nei luoghi chiusi ed affollati di persone, in particolar modo se frequentati da soggetti fragili e sintomatici. Quali sono questi luoghi? Per ragioni che non attengono agli aspetti sanitari del problema, nessuno nei salotti televisivi, lo ha spiegato chiaramente. Questi luoghi sono le “case di riposo”, i dormitori, le carceri, i campi nomadi e profughi, le fabbriche, i grandi centri commerciali, i grattaceli (in particolare gli ascensori), gli uffici in generale (compresi gli studi televisivi dove il contagio è possibile anche tramite lo scambio dei microfoni), ma anche le palestre e gli spogliatoi (dove il contagio è probabile a causa del respiro affannoso degli atleti) ed ancora le mense, i ristoranti, le pizzerie, i pub, le birrerie e tutti i negozi frequentati giornalmente da un certo numero di persone, senza contare i trasporti, in primo luogo treni e metropolitane, ma anche autobus, taxi, etc.


E' ovvio quindi che è da tutti questi luoghi che si sarebbe dovuto partire per limitare l'estendersi dell'epidemia, cosa che invece è avvenuta a singhiozzo, in ritardo ed ancora oggi in maniera colpevolmente parziale. Questo ha determinato in tre regioni del Nord non solo l'aumento esponenziale dei contagiati ma anche il progressivo allargamento dei focolai di infezione a “luoghi chiusi” ancora più importanti e nevralgici, ossia quelli deputati alle cure: agli ospedali pubblici e privati, alle case di cura, alle guardie mediche, alle farmacie, ai poliambulatori, agli studi dei professionisti, sopratutto dentisti, medici e pediatri di base. Questi ultimi in particolare sono coloro che avevano il delicato compito, insieme ai sanitari dei servizi territoriali (già ridotti al lumicino), di effettuare le corrette diagnosi differenziali e la scrematura dei casi al fine di evitare a monte il sovraffollamento e la contaminazione dei reparti ospedalieri. La medicina di base nel corso di una epidemia costituisce infatti il vero pilastro portante della sanità pubblica perché funge da interfaccia tra le strutture ospedaliere e la massa dei pazienti. Per questo avrebbe dovuto essere il settore vitale da proteggere, e non solo per ridurre il rischio di malattia e di morte dei professionisti ma anche e sopratutto per evitare il collasso, insieme a quello ospedaliero, dell'intero sistema sanitario che è quello che purtroppo sta avvenendo in ogni Regione dove il numero dei pazienti in gravi condizioni sta superando la soglia del turnover dei posti letto disponibili nei reparti di terapia intensiva e sub intensiva. Il numero degli operatori sanitari contagiati, che ad oggi ha superato quota 6 mila (cifra anche questa ampiamente sottostimata) ci dice che un filtro fondamentale sta saltando, mentre la saturazione dei pochissimi posti di terapia intensiva sopravvissuti ai tagli governativi anche nel Mezzogiorno d'Italia ci dice che siamo vicini ad un punto di non ritorno.


Il terzo aspetto condiviso riguarda le modalità con la quale la malattia si presenta nei pazienti sintomatici. Una revisione dell'OMS su oltre 55mila casi confermati in laboratorio in Cina ha indicato i seguenti segni e sintomi come “tipici” dell'infezione da Covit 19: febbre (87,9% dei casi), tosse secca (67,7%), affaticamento (38,1%), produzione di espettorato (33,4%), mancanza di respiro (18,6%), mal di gola (13,9%), mal di testa (13,6%), mialgia o artralgia (14,8%), brividi (11,4%), nausea o vomito (5,0%), congestione nasale (4,8%), diarrea (3,7 %), emottisi (0,9%) e congestione congiuntivale (0,8%). Studi successivi hanno riportato una prevalenza decisamente più alta di disturbi gastrointestinali, in particolare la diarrea. Guardando a questi sintomi e segni è plausibile dedurre che molti casi sporadici di Covit 19 siano rimasti nascosti sotto il picco dell'influenza stagionale che si è verificato alla metà del mese di febbraio causando un numero complessivo di contagiati sintomatici pari a circa 5 milioni di persone.


Per quanto riguarda invece i meccanismi di infezione in generale possiamo dire che sono ben conosciuti in quanto comuni a tutti i virus ad RNA. Possiamo quindi distinguerli schematicamente nelle tappe dell'adsorbimento (adesione mediata dai recettori del virione alla superficie della cellula ospite), della penetrazione, della denudazione, delle strategie di moltiplicazione, della maturazione, della liberazione, infine del trasferimento della carica virale sulle mucose di un altra persona per contagio diretto, o meno frequentemente, attraverso oggetti contaminati e, superate le prime difese dell'ospite, dell'inizio di un nuovo ciclo di infezione. Quello che invece non è ancora chiaro è il perché una percentuale così alta di soggetti asintomatici riesce a “tenere a bada” perfettamente il virus pur rimanendo altamente contagiosi, mentre il 10% circa della popolazione reagisce con una patologia decisamente grave a livello sopratutto respiratorio. Non è chiaro se ciò sia dovuto ad una particolare capacità di invasione e replicazione del virus nelle cellule dei bronchioli e degli alveoli polmonari oppure a “cofattori esterni”. Quello che sappiamo è che la stragrande maggioranza dei pazienti che finiscono in terapia intensiva sono anziani che hanno oltre i 65 anni. Sappiamo anche che il tempo di incubazione della malattia è decisamente lungo (tra i 2 ed i 14 giorni, con una media di 5-6 giorni) e che la contagiosità degli soggetti asintomatici è davvero notevole. Queste sono fino ad ora le principali differenze tra la presente pandemia e le consuete pandemie influenzali. Queste ultime ricordiamo rappresentano le dirette discendenti di quelle causate dal micidiale virus H1-N1 (la cosiddetta “spagnola”) a cui la specie umana per adattamenti successivi si è in qualche modo adattata, come è avvenuto per altro più o meno efficacemente per buona parte degli agenti microbici implicati nelle malattie infettive altamente contagiose (yersinia pestis, salmonella tiphy, mycobatterium tubercolosis, treponema pallidum, hiv, etc). Se ne può dedurre che anche nel caso del nuovo coronavirus probabilmente stiamo assistendo al primo tentativo della nostra specie di “prendere le misure” nei confronti di questo virus sconosciuto al fine di selezionare una memoria specifica dei meccanismi di reazione immunologica per arrivare ad una migliore coabitazione futura.


Per quanto riguarda l'origine dell'epidemia in Italia un'ipotesi che sta prendendo consistenza è che a differenza della Cina, dove il primo focolaio sembra si sia verificato in coincidenza con il carnevale cinese in un mercato ittico incredibilmente sovraffollato e promiscuo dal punto di vista igienico-sanitario, i primi contagiati potrebbero essere stati importati da qualche caso sporadico di provenienza estera (forse tedesca). L'endemia, come si dice in gergo, sarebbe quindi rimasta per qualche tempo confinata in piccoli focolai in quelle che sarebbero diventate troppo tardi le cosiddette “zone rosse”. Secondo questa ipotesi una parte della popolazione del Nord, sarebbe venuta in contatto con il virus molto tempo prima della scoperta del cosiddetto “paziente 0” della zona del lodigiano, ossia già nel mese di gennaio, quindi avrebbe già sviluppato quei tassi anticorpali che si auspica siano sufficienti quanto meno ad impedire una reinfezione a breve termine, comunque a garantire un minimo di quella “immunità di gregge” che pure è necessaria a ridurre in maniera “naturale” la contagiosità del virus. Lo confermerebbe il caso di alcuni paesini della Lombardia e del Veneto che risultano del tutto risparmiati dal contagio. Per quanto riguarda l'origine dell'epidemia in Cina, quello che sappiamo è che il virus presenta, rispetto ai ceppi con il quale è stato paragonato, delle mutazioni specifiche in siti “strategici” nel gene che codifica per una proteina dell'envelope (rivestimento esterno) addetta ad agganciare i recettori (ACE) della mucosa dell'apparato respiratorio. Studiando la filogenesi di queste mutazioni è stato possibile identificare alcune specie animali come il pangolino, il serpente, il pipistrello sospettate di essere “il serbatoio” dal quale è avvenuto il “salto di specie” all'uomo, anche se le specie che avrebbero avuto la funzione di “ospite intermedio” non sono ancora note. E' stato però accertato che le mutazioni sembrano il frutto di ricombinazioni tra ceppi virali adattatisi a convivere con specie diverse. Si sono venute delineando quindi due ipotesi: il nuovo coronavirus ha “attecchito” per il contatto dell'uomo con allevamenti promiscui di “animali serbatoio” (selezione naturale) oppure lo ha fatto dopo ripetuti passaggi colturali nel corso di sperimentazioni alla ricerca di un carattere desiderato (selezione artificiale).


Quel che è “certo” è che le modificazioni nelle proteine dell'envelope hanno trasformato il Covit 19 in un virus particolarmente temibile ed in qualche modo paragonabile ai primi ortomixovirus (poi ribattezzato H1-N1) che causarono l'epidemia di “spagnola” che sconvolse il mondo in due ondate successive subito dopo l'ecatombe della prima guerra mondiale.


Per quanto riguarda il capitolo delle terapie proposte è in corso un tentativo da parte delle più importanti case farmaceutiche di abbreviare drasticamente i tempi delle sperimentazioni per la realizzazione di un vaccino. Va però tenuto presente che secondo numerosi studi clinici sui coronavirus ad ogni colpo di tosse il contagiato può espellere virus leggermente modificatisi proprio a seguito dell'interazione con l'ospite. Questa variabilità costituisce quindi da un lato l'arma più grande di cui dispone questa tipologia di virus per adattarsi all'ospite umano, dall'altra il motivo per il quale gli studi sui vaccini si sono rivelati del tutto inutili. Il motivo risiede nell'impossibilità di provocare una stimolazione antigenica che garantisca a priori una risposta anticorpale protettiva che tenga conto dell'estrema variabilità dei domini codificanti per le proteine dell'envelope, un problema per altro ben noto anche ai produttori di vaccini anti-influenzali che non sempre riescono ad indovinare i ceppi che poi si presenteranno in forma epidemica nella popolazione. Il rischio è quindi che i cospicui fondi pubblici e privati, e quelli delle generose donazioni che si stanno susseguendo in tutto il mondo in questi giorni, siano dirottati verso ricerche ad alto impatto mediatico a scapito della ricerca di base che è quella che invece ci può permettere di comprendere meglio le interazioni virus/ospite e quindi combattere l'epidemia nel caso dovesse ripresentarsi. Mi riferisco ad esempio agli approcci integrati con la Medicina tradizionale cinese, che già si è dimostrata efficace sia nel mitigare certi sintomi sia nel migliorare il decorso clinico ai vari stadi di evoluzione della malattia (vedere il sito del dott. Lucio Sotte). Mi riferisco agli studi citologici sulle strategie (anche differite) di replicazione del nuovo coronavirus nelle cellule umane infettate che potrebbero spiegare il tempo di incubazione insolitamente lungo di questa patologia, che abbiamo visto è il fattore che più degli altri sta mettendo a dura prova i servizi di prevenzione collettiva. Mi riferisco agli studi sulle “catene di contagio” nelle “specie serbatoio”, che abbiamo visto sono fondamentali per la messa a punto di adeguate strategie di prevenzione primaria (quanto più articolata e complessa è la catena di trasmissione, maggiore è la possibilità di interromperla prima che raggiunga l'uomo). Mi riferisco agli studi fino ad ora controversi sui tempi medi di persistenza del virus su superfici, oggetti inanimati ed aeraosol, nonché nelle feci (contagio oro-fecale) che potrebbero indurre l'OMS a ridefinire i decaloghi preventivi. Mi riferisco ancora ai meccanismi patogenetici con i quali il virus riesce, in un numero così consistente di casi, a mettere fuori gioco l'apparato respiratorio dell'ospite. La temuta la febbre alta, la tosse e la grave dispnea (affanno) abbinata alla cianosi (colorazione bluastro-violaceo della pelle e delle mucose) causate dalla polmonite interstiziale sono il trinomio clinico-anamnestico che deve destare maggiore allarme, perché richiede un trattamento precoce con ossigeno terapia/respirazione assistita/intubazione, anche in pazienti privi di patologie pregresse. La maggior parte di queste polmoniti non sembrano essere causate infatti da sovra infezioni batteriche, come spesso accade nel caso delle epidemie influenzali che colpiscono pazienti a rischio, ma sembrano legate piuttosto ad una eccessiva risposta dell'organismo (una specie di tempesta infiammatoria) alla replicazione massiva del virus nei polmoni. Questa risposta rappresenta probabilmente un primo, grossolano tentativo di adattamento del sistema immunitario dell'apparato respiratorio al nuovo agente infettivo. Un “adattamento” inefficace che può portare alla compromissione degli scambi gassosi ed alla fibrosi del tessuto polmonare e che spiega l'impiego dell'interferone nei pazienti molto gravi (questo trattamento è stato sperimentato da equipe mediche sia cubane che cinesi).


Inoltre, senza voler entrare nel merito della nota controversia sulle campagne vaccinali obbligatorie, vanno allestiti sicuramente degli studi che stabiliscano se vi sia stato un eccesso di mortalità nei pazienti anziani sottoposti a vaccinazione anti-influenzale.


Non vanno trascurati come ho già detto gli studi statistici che potrebbero mettere fine alla discussione che si è accesa tra coloro (che potremmo definire “allarmisti”) che avvertono che ci potrebbero essere altre ondate epidemiche che andranno a colpire (semmai nel prossimo autunno) quei soggetti non ancora o non sufficientemente immunizzati (cosiddetta immunità di gregge incompleta) e coloro (che potremmo definire “gli ottimisti”) che invece non credono a questa ipotesi e pensano che ci si debba concentrare piuttosto sulla ricerca di farmaci e vaccini efficaci. Questa seconda categoria di scienziati in generale è più in sintonia con la classe politica che non vede l'ora che termini l'emergenza per concentrarsi sulla priorità di “risollevare le sorti dell'economia nazionale in ginocchio”. Io credo che bisogna attenersi al “principio di precauzione” che impone di tenere presente lo scenario peggiore affinché la comunità sia pronta ad affrontarlo, ma allo stesso tempo ritengo che bisogna isolare coloro che non si fanno scrupolo dal trarre vantaggio dalla paura e dal terrore, coloro cioè che sono pronti ad utilizzare questa pandemia allo stesso modo di come è stato utilizzato un terremoto, un incendio, un attentato terroristico. Mi riferisco ai sovranisti che con la chiusura delle frontiere sono andati in visibilio. Mi riferisco ai razzisti pronti a brindare in caso di estensione del contagio all'Africa. Mi riferisco ai camerati, che si trovano a loro agio con le strade presidiate dall'esercito chiamato a fare rispettare “ordine e disciplina” ed i “sacri confini”. Mi riferisco a certi governanti come Macron, che con l'epidemia ha preso i classici “due piccioni con una fava”, ossia fare terminare le mobilitazioni di piazza ed approvare la controriforma pensionistica, oppure al premier turco ed al premier israeliano che, con l'opinione pubblica “distratta”, stanno provando a completare il genocidio del popolo curdo e del popolo palestinese. Mi riferisco infine alle case farmaceutiche che certamente qualche conto in tasca se lo stanno facendo.


A questo proposito c'è anche chi sostiene, i cosiddetti complottisti, che il virus sia stato creato in laboratori segreti per i fini più disparati e fantasiosi: per indurre una epidemia che si riteneva, come nel caso della SARS, limitata alla Cina e che invece “è sfuggita di mano”, per ridurre la popolazione mondiale e frenare l'incremento demografico, o ancora per ridurre la fascia di popolazione improduttiva e diminuire “il peso” dell'assistenza agli anziani sui bilanci pubblici, c'è addirittura chi ha parlato di una correlazione di cui onestamente non riesco ad intravedere la logica con l'introduzione della tecnologia 5G. In mancanza assolute di prove dovremmo secondo me limitarci ad osservare la coincidenza tra l'inizio dell'epidemia e l'escalation di minacce e di ritorsioni tra la Cina e gli Stati Uniti e tra la Cina e l'ex-colonia britannica di Hong Kong, nonché a prendere atto che l'epidemia ha gettato in soffitta insieme al patto di stabilità la solidarietà tra gli stati europei annunciando la rinascita del protezionismo e del nazionalismo e la radicalizzazione delle “guerre commerciali”.

 

Quanto può avere contato per la diffusione del virus il forte inquinamento dell'aria che caratterizza la pianura padana?

 

In prima battuta possiamo ipotizzare che il luogo di maggiore diffusione dell'epidemia non sia stato casuale. Il Lombardo-Veneto e l'Emilia sono tra la regioni più densamente popolate d'Europa e sono anche la parte più industrializzata del nostro paese. Esse inoltre, per ragioni climatiche (prevalenza di clima freddo-umido) ancor prima che sociali, culturali ed economiche, sono regioni nelle quali specie in inverno la vita comunitaria si svolge quasi esclusivamente al chiuso. Infine sono zone nelle quali, a causa della perniciosa associazione tra l'inquinamento da particolato fine e l'umidità dell'area, è molto alta l'incidenza di bronchiti subacute e croniche. Queste patologie in medicina cinese sono attribuite in genere ad un “eccesso di umidità interna” non ben metabolizzata e trasformatasi in “flegma (tan) che ostruisce la discesa del qi dei polmoni” ed hanno come sintomo principale la tosse (che è interpretato come un “qi del polmone in controcorrente”. E' plausibile dunque che i pazienti bronchitici, nei quali le goccioline di flugge viaggiano ben oltre il metro di distanza, abbiano costituito la platea ideale per un rapido contagio a tappeto ed è plausibile altresì che insieme all'uso scorretto delle poche mascherine disponibili rivelato anche dai medici cinesi inviati in Italia, abbia contribuito a determinare quei discostamenti significativi dalla media, in termini di tassi di morbidità e di mortalità, che stiamo riscontrando con particolare riferimento a certe zone superinquinate della Lombardia come la città Brescia. Quest'ultima non dimentichiamo è anche gravata da un mega-inceneritore gestito dalla multinazionale A2A altamente impattante sull'intero comprensorio (vedere il sito del dott. Montanari). Sarebbe utile a questo proposito allestire degli studi epidemiologici che paragonino i dati raccolti nelle regioni maggiormente colpite con quelli dei territori meno inquinati come la Valle d'Aosta, certe zone della Liguria e del Friuli, nonché del Trentino Alto Adige. Altrettanto utile sarebbe poter paragonare la prevalenza e l' incidenza di malattia nelle regioni più colpite dell'Italia, della Germania, della Francia e della Spagna, con le rispettive zone dei paesi scandinavi. Quel che è certo è che le immagini satellitari ci hanno mostrato come il blocco totale delle fabbriche nell'Hubei ha determinato un effetto immediato sull'atmosfera, dando ragione a quegli ambientalisti che sostengono che una riconversione ecologica è necessaria ed urgente se vogliamo invertire l'impatto dell'inquinamento sulla salute degli esseri viventi e del pianeta. Non possiamo dimenticare a questo proposito che Greta Thumberg, la giovane e coraggiosa leader del movimento Fryday for Future, si sta letteralmente sgolando per denunciare un concetto sacrosanto che è sotto gli occhi di tutti, ossia che l'attuale sistema di produzione capitalistico, sconvolgendo i delicatissimi equilibri ecologici che garantiscono la vita su questa terra, è destinato a distruggere rapidamente il nostro pianeta. Da questo punto di vista è emblematico che sia stata attaccata, ridicolizzata e messo alla berlina proprio da parte di quei fascio-leghisti che hanno governato le Regioni più colpite e che adesso piangono le loro lacrime di coccodrillo.


Riassumendo ritengo che il contributo dell'inquinamento non vada sottovalutato, a patto di non riesumare vecchie teorie non del tutto scomparse nel senso comune che chiamano in causa come causa delle epidemie “i miasmi dell'aria”. Mi sembra infatti che il fattore principale che rende così temibile l'attuale epidemia da coronavirus vada identificato nell'intrinseca virulenza di questo nuovo virus ricombinante sconosciuto al sistema immunitario della specie umana e di cui molti erano a conoscenza fin dalla pubblicazione degli studi sull'isolamento e sequenziamento del genoma (dicembre 2019). Secondo alcuni è addirittura dall'epoca dell'epidemia di SARS del 2004 (causata da un virus difettivo che non ha attecchito stabilmente nelle specie umana) che virologi e genetisti, in laboratori ufficiali e non, stanno studiando il famoso “salto di specie dei ceppi mutanti” in attesa di una pandemia (vedere le dichiarazioni rilasciate dal prof. Ernesto Burgio. E' altresì evidente che solo “a bocce ferme” potremo fare un bilancio complessivo che smentisca o confermi l'ipotesi dell'influenza dei fattori geografici e climatici sulle modalità di esordio e sulla diffusione dell'epidemia in Italia e nel mondo.

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