Economia del Genocidio: il Rapporto Albanese denuncia, ma non incrina il sistema

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Economia del Genocidio: il Rapporto Albanese denuncia, ma non incrina il sistema

 


di Pasquale Liguori

 

C'è chi lo ha già definito un documento storico. E forse, a ragione, lo è. Il rapporto presentato dalla Special Rapporteur Francesca Albanese al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, intitolato From economy of occupation to economy of genocide, è senza dubbio un atto di accusa: nomina, documenta, denuncia. Israele non è solo potenza occupante e Stato di apartheid: è agente di un genocidio in corso. E a rendere questo genocidio possibile non è solo il potere militare e politico, ma un sistema economico globale, che ha fatto della Palestina un laboratorio di profitto, tecnologia bellica e innovazione repressiva. Francesca Albanese osa nominare non solo i crimini, ma i complici.

Sono elencate banche, imprese tecnologiche, società estrattive, università, fondi pensione, grandi gruppi industriali, infrastrutture logistiche. Dalla filiera degli F-35 prodotti da Lockheed Martin con componenti provenienti da vari Stati, all'intelligenza artificiale applicata agli omicidi mirati, ai sistemi biometrici di sorveglianza, ai fondi che finanziano colonie e demolizioni, l'apparato genocida si regge su un'economia internazionalizzata che reca i nomi più familiari del capitalismo contemporaneo. Israele non agisce da solo. E l'Occidente ha le mani grondanti di sangue.

Questo rapporto ha il merito di rafforzare e rendere visibile, con voce istituzionale, ciò che le campagne palestinesi per il boicottaggio denunciano da oltre vent’anni: la complicità attiva di una moltitudine di imprese e colossi economici multinazionali nel progetto coloniale e nell’oppressione sistematica del popolo palestinese. Il valore dell’analisi risiede proprio nella sua capacità di innestarsi su un ampio corpo di studi e inchieste preesistenti che, soprattutto dopo la drammatica virata neoliberale seguita agli Accordi di Oslo, accademici e attivisti – sia palestinesi che non - hanno prodotto per smascherare l’intricata rete di interessi capitalistici alla base della colonizzazione in tutte le sue forme.

Non è un caso che la reazione più feroce sia venuta proprio dagli Stati Uniti. La lettera firmata dall'ambasciatrice all’Onu Dorothy C. Shea, che chiede la rimozione immediata di Albanese e l’accusa di antisemitismo, terrorismo e minacce verso aziende americane, è un atto di intimidazione diplomatica gravissimo, inaccettabile in una cornice multilaterale. La sua funzione non è solo colpire una voce ritenuta scomoda, ma dissuadere chiunque altro osi percorrere la stessa strada: quella della verità sui crimini sistematici d'Israele e sulle connivenze che lo rendono impunito. La chiamata alla censura è il riflesso pavloviano di un impero che non tollera scollamenti nella narrazione.

Tuttavia, proprio quando si osserva la forza di questo rapporto, è doveroso interrogarsi anche sui suoi limiti. Perché essi non sono occasionali, ma strutturali.

L'intero impianto del rapporto è costruito dentro l'architettura giuridica del diritto internazionale, dei meccanismi di accountability, delle raccomandazioni agli Stati. Questo lo espone a una contraddizione intrinseca difficilmente sanabile: legittimare proprio quell’ordine politico, giuridico e discorsivo che è espressione diretta del sistema capitalistico globale e delle sue dinamiche di mercato. Inserire la critica del profitto nel quadro regolatorio del diritto internazionale significa cadere in un paradosso: si finisce per preservare le stesse logiche strutturali che rendono possibile l’accumulazione, limitandosi a colpirne solo le forme più manifeste e immediate, ridotte a dimensione puramente economica e astratte dal contesto sistemico che le produce e le alimenta. La Palestina è il luogo per eccellenza dove il diritto è diventato il travestimento della sua sospensione. Dove ogni risoluzione è disattesa, ogni crimine impunito, ogni denuncia archiviata. L'illusione che basti la verità giuridica a fermare l'oppressione è parte della macchina di riproduzione dell'impotenza.

Vi è stato un tempo in cui si è creduto che i rapporti della Relatrice Speciale rappresentassero un varco nella coscienza giuridica e politica dell’Occidente. Sono stati letti, sostenuti, diffusi. Ma col tempo - e in modo più netto dopo il 7 ottobre - quella fiducia ha ceduto il passo a una revisione critica non per disillusione, ma per consapevolezza maturata. Il diritto internazionale non è solo impotente, ma è strutturalmente funzionale al mantenimento dell’ordine coloniale.

Il rapporto Albanese da poco pubblicato denuncia l'economia del genocidio, ma continua a credere in un'infrastruttura legale che è costitutiva e al tempo stesso dipendente dal progetto coloniale. Questo riferimento costante al diritto internazionale, se non accompagnato da una critica sulla sua genesi e funzione, conferisce legittimità a un ordine normativo che è stato storicamente concepito per sostenere e razionalizzare il colonialismo1, 2. Il diritto internazionale moderno, nato nel contesto dell’espansione imperiale europea, non è un campo neutro ma un quadro ideologico e giuridico di governo globale, preposto alla preservazione di rapporti di forza ineguali. La sua pretesa universalità maschera una funzione specifica: proteggere lo status quo e garantire le condizioni per l’espansione dei mercati, anche attraverso la legalizzazione della violenza coloniale.

Il mandato stesso della Special Rapporteur si limita ai territori occupati dopo il 1967. Questo significa, in pratica, che il diritto palestinese alla propria terra è oggetto della sua iniziativa entro i confini pre-guerra dei Sei Giorni, ruolo dunque che si definisce in un’accettazione implicita della legittimità dello Stato di Israele. La questione del 1948 viene giocoforza confinata a una dimensione meramente storica. Sicché si parla di genocidio oggi, ma il trauma originario palestinese resta fuori dalla cornice di competenza. 

In definitiva, il rapporto - pur nella sua espressione radicale - non scardina le fondamenta ideologiche del sistema che intende denunciare. Il colonialismo israeliano viene presentato come una degenerazione eccezionale, piuttosto che come manifestazione coerente di un modello globale in cui l'accumulazione capitalistica necessita di frontiere coloniali da mantenere, popoli da espropriare e territori da sfruttare. L’economia del genocidio è parte integrante del funzionamento stesso del capitalismo globale, non una sua deviazione patologica.

Così, questo rapporto finisce per essere utile e, di fatto, strumentale al sistema internazionale stesso: una sorta di autoassoluzione dell’Onu che offre spazio ad analisi dissidenti. Si tratta però di un ordigno di verità disinnescato dall’architettura dell’impunità occidentale. Autorevole, documentato. Ma, con non poche probabilità, destinato a rimanere inascoltato. Perché non c'è un'istituzione, oggi, in grado o disposta ad agire contro Israele: l'Occidente ha scelto il genocidio come linea di continuità storica. E perché la legge internazionale è ormai nuda. Questo non toglie nulla all’iniziativa di chi ha scritto quelle pagine. Ma impone a noi che le leggiamo di condividerne il senso e di andare oltre. Di non fermarci all'indignazione legalista. Di rompere non solo l'impunità, ma l'illusione.

Andare oltre significa anche riconoscere che la liberazione palestinese non potrà avvenire all’interno dei quadri interpretativi della legalità internazionale, né attraverso una moralizzazione dell’economia globale. È necessario riconoscere che capitalismo, colonialismo e diritto non sono realtà separate, ma pilastri interdipendenti di un unico ordine mondiale. Un ordine che non genera morte, espropriazione e impunità per errore o inefficienza, ma per precisa volontà politica, in base a una logica deliberata e organica. La lotta per la Palestina è dunque anche lotta contro l’ideologia del mercato, contro la naturalizzazione della proprietà privata coloniale, contro la subordinazione delle vite ai profitti.

La Palestina non verrà liberata dai rapporti Onu. Ma perseguendo un altro orizzonte, strategico: quello che non mendica riconoscimento, che non accetta che quella terra e quel popolo siano visti attraverso la lente dell'empatia pietosa o del trauma umanitario, bensì rivendicando centralità politica. Un orizzonte che non chiede di tornare al tavolo negoziale, ma che smaschera il tavolo stesso come spazio coloniale. Che parla con le parole della restituzione e non della coesistenza, dell'autodeterminazione e non della mediazione. Un orizzonte che rifiuta l'idea che la liberazione debba passare per il permesso dell'Occidente. Una Palestina pensata non come oggetto da salvare, ma come soggetto capace di riscrivere la propria storia. E, forse, anche la nostra.

 

1 Mjriam Abu Samra, Sara Troian Palestine beyond the colonial logic of international law https://mondoweiss.net/2025/04/palestine-beyond-the-colonial-logic-of-international-law/

2 Pasquale Liguori. Decostruire il diritto, liberare la Palestina https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-decostruire_il_diritto_liberare_la_palestina/39602_60311/


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