Focus 11 settembre, il golpe contro Allende 50 anni dopo
Si commemora oggi il cinquantesimo anniversario del golpe contro l'esperienza socialdemocratica di Allende in Cile. Golpe voluto dagli Stati Uniti per aprire le porte alla dittatura sanguinaria di Pinochet e soprattutto alla prima forma sperimentale di quel regime neo-liberista che oggi pervade tutte le vite dei popoli che ancora vivono in stati colonizzati da Washington.
Per ripercorrere quei tragici eventi, come l'AntiDiplomatico vi proponiamo due eccellenti approfondimenti. Il primo di Gianmarco Pisa su Cumpanis e il secondo di Geraldina Colotti su Pagine Esteri. Un consiglio: prima di tuffarvi in queste letture, è altamente raccomandata l'intervista di Rossellini ad Allende in un tempo in cui la Rai era ancora un servizio pubblico degno di questo nome.
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dI Gianmarco Pisa - “Cumpanis”
Cile 11 settembre, 50 anni dopo
L’11 settembre ricorre il cinquantesimo anniversario di una data epocale, tragica e indimenticabile, quella dell’11 settembre 1973, quando un violento colpo di stato militare in Cile, sconvolgente per la ferocia con cui fu realizzato e per la dittatura militare cui diede corso, portò alla fine dell’esperienza di governo di Unidad Popular, una coalizione di partiti e movimenti di sinistra, che era stata democraticamente eletta nel 1970, e che era guidata da uno dei grandi leader storici della sinistra latino-americana, Salvador Allende. Una data, come si è detto, tragica e indimenticabile: per la violenza del golpe, diretto dalla cricca militare facente capo al generale Augusto Pinochet e ispirato, promosso e sostenuto dagli Stati Uniti; per la ferocia di una delle più dure dittature militari, elemento del cosiddetto “plan Condor”, dell’America Latina della seconda metà del Novecento; e, non meno significativo, per il portato che ebbe modo di sedimentare, per l’emozione e l’impatto che suscitò, per le implicazioni e le conseguenze che i tragici eventi cileni ebbero sul movimento democratico e socialista in generale, non solo nello scenario latino-americano.
La forza d’urto degli eventi cileni può essere ricostruita sia sulla base del contesto storico all’interno del quale tali eventi maturarono, sia in relazione alla specificità cilena, alle motivazioni che portarono a un intervento così diretto e massiccio, funesto e violento, da parte degli Stati Uniti, per impedire lo sviluppo di un’esperienza storica e politica, quella del governo socialista e democratico di Salvador Allende, che poteva mettere seriamente in discussione l’egemonia statunitense nella regione e rinnovare la praticabilità di un’alternativa, avanzata e vitale, nel senso dei diritti e dell’emancipazione delle vaste masse popolari, sullo sfondo storico e politico dell’esperienza di Cuba socialista, nel subcontinente latino-americano. Quella che Salvador Allende, con la vittoria elettorale del 1970 e il governo di Unidad Popular tra il 1970 e il 1973, aveva intrapreso, rappresentava, infatti, un’originale esperienza di «via nazionale al socialismo», basata sulle caratteristiche e le specificità nazionali del Cile e alimentata dalle lotte e dalle istanze delle lavoratrici e dei lavoratori cileni: una via, al tempo stesso, democratica - in un Paese, il Cile, sino ad allora di riconosciute tradizioni costituzionali - e socialista, quindi orientata nel senso della programmazione democratica dell’economia; della nazionalizzazione dei comparti e delle risorse strategiche fondamentali, a partire dal rame; della riduzione della dipendenza dal capitale straniero e, segnatamente, statunitense; del miglioramento delle condizioni di vita delle masse popolari e di lavoratori e lavoratrici, in un contesto storicamente segnato da forti polarizzazioni e diseguaglianze sociali; e di rilancio di percorsi per la pace e la distensione internazionale.
In un Paese, come si diceva, diffusamente caratterizzato da una rilevante polarizzazione e da forti diseguaglianze sociali, la guerra mediatica (attraverso la disinformazione e la propaganda) e la guerra economica (attraverso il sabotaggio e il blocco dell’economia cilena) sarebbero stati i principali strumenti dell’imperialismo per stroncare l’esperienza di Unidad Popular. I provvedimenti in ambito economico-sociale del governo di Unidad Popular andavano infatti, sin dal 1970-1971, nel senso di una più solida giustizia e di una più avanzata eguaglianza sociale: in primo luogo, la programmazione democratica, l’ampliamento del ruolo dello Stato nella direzione economica, il piano di nazionalizzazioni (rame, ferro, salnitro), la riforma agraria e l’aumento dei salari. La reazione delle destre politiche ed economiche si saldò in un’opposizione che sempre più abbandonava la via parlamentare e costituzionale e sempre più perseguiva invece il disegno eversivo della reazione e del sabotaggio: sul versante delle élite economiche, dei latifondisti, delle multinazionali e delle oligarchie, storicamente legate al grande capitale statunitense e occidentale, il sabotaggio della produzione e della distribuzione, il blocco degli approvvigionamenti, la guerra economica; sul versante dei ceti benestanti, della grande borghesia e di segmenti reazionari della burocrazia e degli apparati dello Stato cileno, i ripetuti tentativi di messa in stato di accusa del presidente Allende e una vasta mobilitazione reazionaria extra-parlamentare, prefigurando con essa, di fatto, l’involuzione eversiva e golpista.
Lo scenario, cui si accennava all’inizio, all’interno del quale tale progetto eversivo, dopo il 1973, si sviluppa è quello passato alla storia con il nome di “plan Condor”: una rinnovata applicazione della “dottrina Monroe” (1823) attraverso la quale gli Stati Uniti affermavano la pretesa di imporre la propria egemonia, sia in termini di espansione imperialistica, sia in termini di comando politico, su quello che ritenevano il proprio “patio trasero”, il “cortile di casa”, l’America Latina; un’applicazione rinnovata attraverso una strategia di condizionamento, di sobillazione e di rovesciamento aggressivo, violento e sanguinoso, per il tramite di ingerenze e golpe, ai danni di governi eletti democraticamente, considerati ostili al dominio statunitense. Un piano messo in atto attraverso settori delle forze armate nazionali (la famigerata Escuela de Las Américas, a Panama, era la centrale di formazione degli apparati e delle élite antinsurrezionali ed eversive ridislocate nei Paesi latino-americani, e nella stessa Escuela de Las Américas circa il 18% degli ufficiali cileni aveva ricevuto un cosiddetto “addestramento antiguerriglia”) e giustificato dietro il paradigma ideologico della “sicurezza nazionale”, vale a dire della lotta contro l’avanzata del marxismo nel subcontinente, al prezzo di golpe, repressioni, violenze, torture, ed eccidi. Tra Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay, Perù e Uruguay, nella tragica scia eversiva degli anni Settanta e oltre, si contano infatti oltre 400.000 prigionieri, oltre 50.000 vittime e oltre 30.000 scomparsi (desaparecidos); nel solo Cile della dittatura militare, trascinatasi sino al 1990, si contano oltre 3.500 morti, 1.200 scomparsi (desaparecidos), ben 30.000 vittime di tortura.
Come la ricerca storica ha messo in luce (e conta sottolinearlo non solo ai fini della genealogia del progetto eversivo dell’imperialismo occidentale, ma anche in relazione alla morfologia del disegno autoritario intrinseco alla formazione economico-sociale del capitalismo del nostro tempo), il golpe cileno non è stato solo il segnale della torsione eversiva e violenta assunta dal disegno anticomunista perseguito dalle classi dominanti, ma è stato anche l’incubatore di qualcosa che potrebbe suonare alle nostre orecchie più familiare e (solo apparentemente) “inoffensivo”: il capitalismo neoliberista, o, più semplicemente, il “neoliberismo”. È nel Cile della dittatura militare, non a caso a partire proprio dal 1973, l’anno della crisi energetica, del varo dell’austerity e della definitiva liquidazione degli accordi di Bretton Woods e della definitiva cessazione del golden standard, è proprio nel Cile della dittatura militare, si diceva, che politici, analisti ed economisti della cosiddetta “scuola di Chicago”, ispirata dalle teorie monetariste di Milton Friedman, trovano il primo banco di prova in cui mettere in pratica le proprie teorie: riduzione, se non annullamento, della proprietà pubblica in ambito economico; ribaltamento del sistema fiscale per avvantaggiare, con una tassazione estremamente favorevole, grandi monopoli e investimenti esteri; privatizzazioni su amplissima scala; smantellamento dei diritti sindacali, delle protezioni sociali e della previdenza sociale, con incrementi della intensità di lavoro, riduzioni di salari e pensioni, abbattimento del welfare e dei servizi sociali; estesa privatizzazione della sanità e dell’istruzione; modifica, in senso fortemente autoritario e pesantemente regressivo, del diritto del lavoro. In cifre, un taglio della spesa pubblica del 50%, una crescita del tasso di disoccupazione al 22%, una caduta dei salari del 40%, un aumento al 40% della popolazione sotto la soglia di povertà. Liberismo, dunque, nella sua forma canonica, senza contrappesi, senza democrazia, e senza libertà, se non la libertà di proprietà e di sfruttamento, pagata al prezzo di un radicale, violentissimo, peggioramento delle condizioni di esistenza delle masse popolari.
Al di là, dunque, dell’emozione e dell’impatto, ai quali si accennava all’inizio, che la vicenda cilena e gli eventi successivi hanno portato con sé, almeno due grandi questioni restano, in prospettiva storica e politica, di grande attualità, degli eventi cileni, per le forze democratiche. La prima è il nesso intrinseco tra quelle che potremmo definire “democrazia economica” e “democrazia politica”. Il caso cileno e l’intera vicenda latino-americana, sullo sfondo del “plan Condor”, tra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, indica infatti che la torsione autoritaria e la limitazione, se non la cancellazione, degli spazi della democrazia politica (a tutti i livelli, in termini di partecipazione politica delle forze popolari e di massa e di rappresentanza politica delle forze sociali e del lavoro) sono il presupposto dell’imposizione di vere e proprie forme di comando economico e di disciplinamento sociale: l’imposizione del liberismo, l’esasperazione dello sfruttamento del lavoro, la privatizzazione di comparti fondamentali della produzione economica e dei servizi sociali, l’abbattimento del sistema di protezione sociale, la cancellazione dei diritti sociali e economici. Allo stesso modo, il liberismo e, in generale, il capitalismo nella sua modalità essenziale di funzionamento e di svolgimento stagliano un’ombra minacciosa sulla stessa democrazia politica: tanto il cosiddetto “involucro democratico” può costituire, in determinati momenti dello sviluppo storico e sociale, il contenitore adeguato, la forma politica privilegiata di realizzazione e di funzionamento del capitalismo, quanto la medesima democrazia, in altri momenti dello sviluppo sociale e storico, può costituire un ostacolo per la piena espressione delle forze e dei rapporti del mercato capitalistico, un ostacolo di cui fare, senza troppe perifrasi, senz’altro a meno.
È una potente conferma, nel suo sviluppo propriamente dialettico, di ciò che scrissero Marx ed Engels, e cioè non solo, come è noto, che «la storia di ogni società esistita fino a questo momento è storia di lotte di classi», ma, in particolare, che «sotto i nostri occhi, si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna, che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni, ormai, che la storia dell’industria e del commercio è soltanto la storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio» (Karl Marx, Friedrich Engels, Il Manifesto del Partito comunista, 1848). Nella precisa e rigorosa individuazione della tendenza storica e politica, la tesi segnala la centralità della lotta di classe e del conflitto sociale nella definizione della traiettoria e della prospettiva politica e riporta l’attenzione sul protagonismo della soggettività sociale e di classe nel processo di trasformazione e, prima ancora, nella difesa degli spazi e delle condizioni di agibilità democratica, e nell’avanzamento della democrazia.
La seconda grande questione si staglia sul presente e veicola i contenuti, di grande attualità, della “lezione cilena”, che ha dato corso, dalla fine degli anni Settanta, a riflessioni, in prospettiva, divergenti tra l’Europa occidentale e l’America latina. In Italia, ad esempio, la riflessione sui tragici eventi cileni è stata la base degli orientamenti strategici, assunti dalla segreteria di Enrico Berlinguer del Partito Comunista Italiano, condensati nella formula del «compromesso storico» e volti a riorientare la prospettiva non nel senso dell’accumulo di forze, della crescita del radicamento e dell’estensione dell’organizzazione politica del proletariato, dell’avanzata, su base di massa e in forza di un’efficace e matura egemonia, del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici, per costruire, intorno al PCI, le condizioni per giungere, nel quadro costituzionale, al governo del Paese, bensì nel senso della mediazione e del compromesso tra gli attori politici principalmente rappresentativi delle masse popolari del Paese, cioè del «compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano».
Una prospettiva che si sarebbe rivelata, per il movimento comunista nel nostro Paese, sterile; lontana, in ogni caso, dalla risposta agli eventi degli anni Settanta e Ottanta che è stata invece elaborata e sviluppata in America latina. Qui, la ripresa della lezione di Lenin e di Gramsci; della centralità dell’egemonia; del ruolo della soggettività rivoluzionaria; di una nuova centralità del soggetto sociale, dei lavoratori e del movimento di massa in generale; ma anche l’innesco di una dinamica di lotta e di partecipazione, di conflitto e consenso, e la costruzione di nuovi organismi di lotta politica, oltre che il recupero e la riscoperta degli antecedenti storico-politici (da Simón Bolívar, a José Martí, a José Carlos Mariátegui), passando per l’incontro tra le tendenze politiche e le costruzioni ideali più avanzate presenti nella società (dal patriottismo progressista alla teologia della liberazione, dalle culture originarie all’ecologismo radicale), hanno concorso a gettare nuove basi per l’avanzamento delle forze democratiche e socialiste, progressiste e rivoluzionarie, inaugurando un nuovo laboratorio «socialista e bolivariano», i cui sviluppi sono, tuttora, ampiamente in cammino.
Riferimenti:
Fondazione Feltrinelli, “Cile 1973: Da Allende alla dittatura nei documenti di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli”: https://fondazionefeltrinelli.it/le-mostre-digitali/mostra-cile
Maria Rosaria Stabili, Cile 1970?1973. Allende, la Unidad Popular, il golpe, RiMe - Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, numero 14, giugno 2015, DOI:10.7410/1165.
Ilaria Romeo, “L’Unidad Popular di Salvador Allende: il popolo unito non sarà mai vinto”, Collettiva, 4 settembre 2021: www.collettiva.it/copertine/internazionale/2021/09/04/news/salvador_allende-1419638
Ilaria Romeo, “Pinochet e i suoi aguzzini: basta impunità”, Collettiva, 9 luglio 2021: www.collettiva.it/rubriche/buona-memoria/2021/07/09/news/pinochet_e_i_suoi_aguzzini_basta_impunita_-1294841
Enrico Berlinguer, Riflessioni dopo i fatti del Cile - Alleanze sociali e schieramenti politici, «Rinascita», numero 40, 12 ottobre 1973: web.archive.org/web/20190805083153/http://astratto.info/imperialismo-e-coesistenza-alla-luce-dei-fatti-cileni.html
Marco Bersani, “Cile. Quasi 50 anni di liberismo”, Comune-Info, 1 novembre 2019: https://comune-info.net/cile-quasi-50-anni-di-liberismo.
“Berlinguer sottovalutò tre nemici: borghesia reazionaria, Usa e Urss”, Intervista di Piero Sansonetti a Pietro Ingrao, «Il Riformista», 12 Giugno 2022: www.ilriformista.it/berlinguer-sottovaluto-tre-nemici-borghesia-reazionaria-usa-e-urss-lintervista-a-pietro-ingrao-sul-segretario-del-pci-304818.
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di Geraldina Colotti
50 anni fa il golpe di Pinochet, quando la ferocia si abbatté sul Cile e sul mondo
Pagine Esteri, 11 settembre 2023. Il 4 settembre del 1970, in piena “guerra fredda”, si tengono le elezioni presidenziali in Cile. Nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta e perciò, in base alla Costituzione del 1925, il Congresso sceglie fra i due più votati. Un accordo fra i cristiano-democratici del presidente uscente, Eduardo Frei e le sinistre – che, dal 1969, hanno dato origine alla coalizione di Unità popolare (Up), per impulso del Partito socialista e del Partito comunista – porta alla vittoria Salvador Allende, chirurgo e uomo politico socialista: con una maggioranza relativa di solo il 36,6% dei voti sui candidati di destra e democristiani.
Allende non è uno sconosciuto, ha già corso per la presidenza in altre tre occasioni. Nella temperie del secolo scorso – il secolo delle rivoluzioni -, il suo programma non contempla una rivoluzione sul modello cubano, ma una transizione verso il socialismo per la via istituzionale: con il coinvolgimento attivo delle classi popolari e del movimento operaio attorno a un piano di riforme strutturali.
Il suo pacchetto di quaranta misure, approvate subito dopo il 3 novembre, quando si insedia il nuovo governo, prevede la riforma agraria, le nazionalizzazioni di aziende, miniere (soprattutto quelle del rame, di cui il Cile possiede le prime riserve al mondo) e di banche; la ridistribuzione del reddito e la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’economia.
Tre giorni dopo l’assunzione d’incarico di Allende, il suo omologo statunitense, Richard Nixon, dichiara che il Cile è la sua principale preoccupazione, giacché gli Usa non possono permettere che l’esempio si diffonda nel loro “cortile di casa” senza conseguenze. Henry Kissinger, Consigliere per la sicurezza nazionale Usa, ha già reso esplicito l’orientamento del governo e della Cia, qualche mese prima dell’elezione di Allende: “Non vedo perché dobbiamo aspettare e permettere che un paese diventi comunista solo per l’irresponsabilità del suo popolo”, ha dichiarato.
Comincia, allora, con più forza, il processo di disarticolazione istituzionale del Cile, organizzato dalla Casa bianca. Attraverso giganteschi finanziamenti, Washington si serve della borghesia e dei latifondisti, di alcune grandi multinazionali, e delle Forze armate, addestrate nelle scuole di tortura nordamericane. A differenza di quanto sostengono la sinistra extraparlamentare e specialmente il Movimento della sinistra rivoluzionaria (Mir), diretto allora da Miguel Enríquez, Up pensa che i militari rispetteranno la volontà popolare. Si sbaglia.
Contro il “pericolo rosso” e un presidente che ha preso spazio sulla scena internazionale con un preciso ruolo anticolonialista, la guerra sporca darà i suoi frutti a colpi di sabotaggi, inflazione indotta e propaganda mediatica diretta ai ceti medi e al cattolicesimo nazional-conservatore. E di attentati, compiuti da Patria e Libertà. Nel ’72, gli aiuti militari rimangono l’unica forma di assistenza fornita da Washington, che si oppone anche alla possibilità che il Cile rinegozi il debito estero. Gli Usa hanno deciso di “far urlare l’economia cilena”.
Il 29 giugno del 1973, i militari fedeli al governo socialista sventano un tentativo di golpe a Santiago (“el Tanquetazo”). L’11 settembre 1973, il governo Usa, sostenuto anche dalla dittatura militare brasiliana, raggiunge però l’obiettivo: diversi settori delle forze armate effettuano un colpo di stato. Allende, con un gruppo di compagni, si rifugia nel palazzo della Moneda e combatte fino all’ultimo. La fine, è nota, almeno per la verità di Stato: il presidente socialista si sarebbe sparato prima di essere catturato. Secondo varie inchieste, invece, sarebbe stato ucciso durante i combattimenti, lasciando nei suoi ultimi discorsi pubblici, un messaggio di resistenza.
La fine è nota, almeno per la scia di sangue che la dittatura militare guidata da Pinochet ha lasciato nei 16 anni in cui ha imperversato, sostanziata a livello economico dalle politiche dei “Chicago Boys”: l’assassinio di almeno 3200 persone, fra cui oltre un migliaio di desaparecidos, e altre migliaia di esuli.
La “primavera allendista” è durata solo tre anni, ma è rimasta uno spartiacque e anche un monito per quanti, nel continente, hanno provato a ricostruire un blocco sociale alternativo al neoliberismo dilagato dopo la caduta dell’Unione sovietica. La destra latinoamericana non ha mai dismesso la vocazione golpista, poi evoluta nelle forme del “golpe istituzionale” e nell’uso della magistratura a fini politici (il lawfare). E i governi che hanno inaugurato il “ciclo progressista” dopo la vittoria di Hugo Chávez in Venezuela (nel 1998), hanno dovuto prendere sul serio la “lezione” di Allende.
In forme più spinte o modulate, hanno messo in primo piano la necessità di democratizzare le forze armate, istituendo, a livello regionale, scuole di formazioni militari, alternative a quella nordamericana che ha addestrato i dittatori del Cono Sur. L’esempio più avanzato è il Venezuela, dove “l’unione civico-militare” ha trasformato i militari in un “esercito di tutto il popolo” al servizio della “pace con giustizia sociale”; ma il risultato più importante è quello del Brasile, dove si è cercato di invertire di segno alla dottrina militare di matrice Usa, imponendone un’altra a livello regionale. Infatti, nonostante le pressioni di Trump, e malgrado la persistente eredità della dittatura, le forze armate brasiliane non hanno accettato di invadere il Venezuela nel 2009, né hanno effettuato un altro golpe in Brasile agli ordini di Bolsonaro.
A cinquant’anni dall’uccisione di Allende, e dopo il dilagare dello slogan thatcheriano “there is no alternative”, la sinistra latinoamericana ha verificato che le alternative al neoliberismo esistono, ma si devono difendere con le unghie e con i denti. E che, soprattutto, il modello imposto da Washington, a 200 anni dalla Dottrina Monroe, serve solo al beneficio di pochi. Certo, nell’interludio tra la notte e l’alba, avvertiva Gramsci, sorgono mostri. L’eredità delle dittature è ancora ben presente, e la difesa del presidente cileno Gabriel Boric poggia su basi ben più friabili di quella di Up.
E lo scoglio insormontabile per qualsivoglia vero cambio di indirizzo, in Cile, resta sempre la costituzione imposta da Pinochet. Nel 2020, il 78% degli elettori aveva chiesto con un referendum che venisse cambiata. A settembre del 2022, però, il testo proposto da Boric, frutto di avanzate proposte della base, relative alla parità di genere, alla difesa dell’ambiente e al riconoscimento dell’identità dei popoli originari, è stato bocciato dalle urne con il 62% dei voti, dopo una feroce campagna mediatica.
E una preponderanza schiacciante della destra e dell’estrema destra pinochettista ha visto anche l’elezione dei 50 membri del Consiglio costituzionale, che porteranno un testo a misura di sistema al referendum del 17 dicembre, inizialmente previsto per novembre. Privo di maggioranza parlamentare, il governo Boric, sotto ricatto dei sempiterni poteri forti che comprimono il Cile, cerca di rosicchiare a colpi di compromessi qualche brandello di riforma. Non è, però, riuscito a incarnare le speranze suscitate dalla sua elezione, a dicembre del 2021, quando fu il presidente più votato nella storia del paese.
Durante una cerimonia in vista del cinquantennale del golpe, alcuni degli invitati internazionali hanno paragonato il governo Allende con quello di Boric. Un accostamento inopinato, non solo per la provenienza del giovane presidente dalle componenti più moderate della lotta degli studenti, nel 2011, ma soprattutto per le sue posizioni in politica estera, più attente a cercare intese con l’occidente e l’Europa che con la parte più avanzata del continente latinoamericano.
La scrittrice nicaraguense Gioconda Belli, ex guerrigliera che preferisce vivere negli Stati uniti da oppositrice del governo sandinista, ha lodato Boric: “un gran democratico e un gran socialista” – ha detto – per aver dichiarato che “il regime di Daniel Ortega viola i diritti umani e non è democratico”. Un giudizio che il presidente cileno ha riservato anche ad altri governi lontani dagli Usa, come Cuba e Venezuela, soprassedendo sulle denunce inascoltate alla violenza dei carabineros. Difficile che Allende, socialista e antimperialista, apprezzerebbe.
Intanto, in Cile come in altre parti dell’America latina, il fascismo non ha complessi di colpa. Pinochet morì nel suo letto nel 2006, ma a rimpiangerlo e ad ammirare la dittatura è il capofila dell’estrema destra cilena, José Antonio Kast. Come lui la pensa, secondo una recente inchiesta, il 36% della popolazione, convinta che il golpe contro Allende fosse motivato, a fronte del 16% per cento che lo pensava nel 2013. E alle ultime primarie in Argentina ha stravinto un ultra-trumpista che rivendica senza vergogna la dittatura militare, Javier Milei.
Mediante l’imposizione di misure coercitive unilaterali illegali, gli Stati uniti e i loro alleati continuano a “far urlare” le economie recalcitranti dell’America latina, pensando, in fondo come Kissinger allora: occorre evitare che l’esempio si estenda. Nei momenti più duri dell’assedio nordamericano, il Venezuela di oggi assomigliava in modo impressionante al Cile dell’Unidad Popular, così descritto da Isabel Allende nel romanzo La casa degli Spiriti:
“L’organizzazione era una necessità, perché la strada verso il Socialismo molto presto si trasformò in un campo di battaglia (…) la destra metteva in campo una serie di azioni strategiche volte a fare a pezzi l’economia e seminare il discredito contro il Governo.
La destra aveva nelle sue mani i mezzi di diffusione più potenti, contava con risorse economiche quasi illimitate e con l’aiuto dei ‘gringos’, che mettevano a disposizione fondi segreti per il piano di sabotaggio. A distanza di pochi mesi sarebbe stato possibile osservarne i risultati.
Il popolo si trovò per la prima volta con sufficiente denaro per soddisfare le proprie fondamentali necessità e per comprare alcune cose che sempre aveva desiderato, ma non poteva farlo, perché gli scaffali erano quasi vuoti.
La distribuzione dei prodotti cominciò a venire meno, fino a quando non divenne un incubo collettivo…”.
I meccanismi della guerra economico-finanziaria, oggi egemoni rispetto alle aggressioni militari della “guerra fredda”, sono però già parte integrante delle analisi e delle strategie politiche delle nuove esperienze latinoamericane: che, nelle loro parti più avanzate, mirano a costruire una nuova articolazione di lotta, “dal basso e dall’alto”, ispirandosi al Lenin di Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica.
A differenza di quanto avviene da noi, dove non siamo riusciti a vincere né con le armi, né con le urne, e dove la lezione di Allende si è ridotta a difesa acritica di alleanze e compatibilità nella democrazia borghese, la guerra per la memoria è ancora un terreno di lotta politica per nuove prospettive. Pagine Esteri