Il ruolo dell'oligarchia nella vittoria della destra

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di Federico Fioranelli
 

I risultati delle recenti elezioni europee e le questioni internazionali come la crisi venezuelana possono essere interpretati soltanto analizzando la fase del capitalismo che stiamo vivendo e la composizione attuale dell’oligarchia finanziaria, cioè l’élite che ha realmente in mano il potere nel mondo.


La fase del capitalismo che caratterizza gli ultimi decenni è quella che Minsky definisce money manager capitalism, cioè il capitalismo dei manager finanziari. Essa ha avuto inizio quando le banche centrali hanno cominciato a ridurre i tassi di interesse e, di conseguenza, i lavoratori con bassi salari hanno incrementato i consumi attraverso l’indebitamento privato.


Questa fase del capitalismo ha messo in moto un processo di finanziarizzazione dell’economia e ha portato ad una crescita incredibile del potere economico dei manager delle banche e delle società finanziarie, i quali sono così entrati a far parte dell’oligarchia finanziaria, aggiungendosi ai capitalisti dei grandi gruppi industriali.


A questo va aggiunto che il capitalismo, non soltanto quello attuale, è un sistema caratterizzato da crisi e con la tendenza a cadere in una stagnazione permanente. Paul Sweezy dimostra infatti che esso tende a creare quantità sempre maggiori di surplus economico (cioè la differenza tra ciò che la società produce e i costi necessari per produrlo) ma presenta delle difficoltà a generare una domanda effettiva sufficiente per assorbirlo. Questa cronica incapacità di assorbire il surplus economico non si traduce poi in profitto ma in eccedenze di merci, disoccupazione e capacità produttiva inutilizzata.


È evidente che, per uscire da una crisi o da una fase di ristagno, l’oligarchia preferisca delle soluzioni che non implicano un intervento pubblico. Utilizzando le parole di Kalecki, gli uomini d’affari e gli esperti di economia strettamente legati ai settori bancario ed industriale sostengono un’economia di laissez-faire, perché, in un sistema di questo tipo, in cui il livello dell’occupazione dipende esclusivamente dallo stato di fiducia degli imprenditori, essi possono ricattare lo Stato imponendo ad esso soltanto le politiche pubbliche che non minino la loro fiducia.


Non sempre però la crisi e la stagnazione possono essere superate incentivando i consumi attraverso la pubblicità, la moda, la creazione di nuovi bisogni, l’introduzione di nuovi mezzi di distinzione sociale o il credito al consumo.


Così alcune volte, ad esempio nelle fasi più acute di una crisi, l’oligarchia finanziaria è costretta ad accettare l’intervento dello Stato. Ci sarebbero varie modalità di intervento pubblico finalizzato ad incrementare la domanda effettiva: l’aumento della spesa pubblica (anche senza deficit, come dimostra Haavelmo), gli incentivi agli investimenti privati o la redistribuzione del reddito (a causa del fatto che le classi più povere hanno una propensione al consumo più alta di quelle abbienti). Tuttavia, gli uomini d’affari, detenendo i mezzi finanziari e gestendo le risorse finanziarie dei risparmiatori, hanno la forza di imporre agli Stati i criteri da adottare nelle politiche di sostegno alla domanda effettiva. Di conseguenza, la direzione e l’entità dell’intervento pubblico devono essere compatibili con gli interessi, i privilegi e l’ideologia di questa élite (in caso contrario, potrebbe salire lo spread!): ad esempio, nel caso della spesa pubblica, vengono favoriti i capitoli di spesa (in primo luogo la spesa militare) che non determinano situazioni di concorrenza nei confronti dell’iniziativa privata e non attaccano i privilegi dell’oligarchia stessa.


Il capitalismo, oltre ad avere la tendenza alla crisi e alla stagnazione, si presenta anche come un sistema che genera ricchezza per pochi e miseria per molti. Per questo motivo, l’oligarchia finanziaria teme la capacità di attrazione nella società, e nelle classi subalterne in particolare, di ideali come quelli socialisti che possono mettere in discussione il sistema capitalista.


La ragione dell’ostilità dell’élite mondiale nei confronti del socialismo è economica, politica e ideologica perché esso non è compatibile con i suoi interessi, i suoi privilegi e la sua ideologia. È sufficiente pensare che il socialismo è un sistema che combatte le disuguaglianze presenti nella società anche attraverso le imposte patrimoniali o che va ad attaccare il principio capitalistico secondo il quale le differenze tra i redditi sono il risultato delle diverse capacità di cui ognuno è dotato.


Di conseguenza, l’oligarchia, disponendo del potere economico e avendo il controllo dell’apparato politico, culturale e mediatico della società (basta leggere i nomi di chi fa parte del Gruppo Bilderberg e della Commissione Trilaterale), mette in campo una strategia finalizzata, in primo luogo, ad indebolire i ceti subalterni, dividendoli e trasformandoli in consumatori; in secondo luogo, a oscurare e delegittimare le forze politiche e sociali che possono minare il sistema capitalistico dall’interno; infine, ad attuare delle misure volte a paralizzare l’economia dei Paesi socialisti (pensiamo al blocco economico contro Cuba e il Venezuela) per insegnare a tutti che il socialismo è, nella migliore delle ipotesi, un sistema utopistico che non funziona.


L’oligarchia finanziaria, nel tentativo di non alterare la struttura dell’economia e non intaccare i rapporti di potere, finisce per creare le condizioni all’affermazione delle destre. Infatti, in periodi come quello attuale, in cui l’impoverimento delle classi subalterne è maggiore, le forze politiche che sono espressione diretta degli interessi dell’oligarchia perdono l’egemonia nella società perché ritenute (giustamente) responsabili della misera situazione attuale mentre la destra, seppur in modo vigliacco e infimo, conquista l’egemonia perché riesce a creare dei nemici facili (come gli immigrati) da dare in pasto al popolo arrabbiato per spiegarne l’impoverimento ed incanalarne il malcontento.

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