Israele al suo bivio storico

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Israele al suo bivio storico

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PICCOLE NOTE

Israele è di fronte a una scelta fatale: l’attacco a Rafah o gli Accordi di Abraham, cioè la normalizzazione dei rapporti con i Regni sunniti.  A tematizzare tale bivio è Alon Pinkas su Haaretz, che spiega come l’attacco a Rafah, propagandato da Netanyahu come punto di svolta per la guerra con Hamas, una sorta di Stalingrado o dell’offensiva delle Ardenne, non lo sarà affatto (ironico il riferimento di Pinkas a Stalingrado, perché potrebbe rivelarsi tale per Israele, ma con Tel Aviv nella parte, invero improbabile, dei nazisti, che a Stalingrado furono costretti a fermare la loro aggressività).

Rafah Is Not Gaza's Stalingrad. It's Another Manipulation by Netanyahu

Israele: il pantano di Gaza e quello libanese

Difficilmente Hamas subirà una “sconfitta totale” e anche la successiva campagna contro Hezbollah, che Netanyahu sta già pianificando, non sarà una passeggiata trionfale. Anzi, Israele sta volontariamente impantanandosi a Gaza e in Libano, scrive Pinkas. Non solo, la catastrofe di Rafah risulterà inaccettabile a un ambito internazionale sempre più ampio e sempre più ostile.

Israele deve dunque scegliere tra la pace o il destino del paria internazionale, come annotava Thomas Friedman sul New York Times.

Ma per portare a compimento gli Accordi di Abraham e raggiungere la pace, annota Pinkas, si deve rimuovere Netanyahu, perché questi non vuole porre fine alla guerra né lasciare il controllo della Striscia ai Paesi arabi, che nei piani americani dovrebbero ricostruirla e supervisionarne la gestione in vista della nascita dello Stato palestinese (ironia della sorte, il premier israeliano, che fu l’ideatore degli Accordi di Abraham, oggi ne è perseguitato… ma è un particolare secondario).

Di interesse notare che il piano di pace di Biden, in realtà promuove un’altra conflittualità, dal momento che i Paesi che si legheranno a Israele tramite gli accordi di Abraham saranno chiamati fare asse contro l’Iran e i suoi alleati.

Il piano Biden: tutti contro l’Iran

Va ricordato, in proposito, che prima del 7 ottobre, cioè dell’attacco di Hamas a Israele, il Medio oriente aveva visto una distensione regionale: l’Iran aveva riallacciato i rapporti con l’Arabia Saudita, la Siria era stata riaccolta nella Lega Araba e la guerra dello Yemen – un conflitto per procura tra Riad e Teheran – stava per essere chiusa. Un processo che marginalizzava gli States, che vi si sono opposti con ferocia.

Così, strumentalizzando il 7 ottobre, cioè la paura che il conflitto tra Israele e Hamas provocasse incendi in tutto il Medio oriente, gli Stati Uniti stanno tentando di tornare in auge, con un processo di pace che anzitutto tiene conto dei suoi interessi, ponendo i regni arabo-sunniti sotto il controllo di Washington tramite Israele e rimettendoli in riga contro l’Iran (e sabotando in tal modo altre possibili soluzioni al conflitto di Gaza, che poteva essere affrontato in un ambito più globale; ricomprendendo la Cina, ad esempio, che aveva acquisito influenza nella regione).

Per questo Israele resta centrale nella strategia Usa e per questo Washington l’ha aiutata con spedizioni massive di armamenti. Spedizioni che, al contrario di quelle per l’Ucraina, non sono state pubblicizzate, essendo stati resi pubblici solo due report sulle armi inviate a Tel Aviv, il 9 e 29 dicembre, come riferisce il New York Times. Il motivo di tanta segretezza è evidente: non vogliono essere coinvolti nelle critiche che sta suscitando l’azione devastante di Israele.

Why Does the U.S. Arm Ukraine With Fanfare and Israel in Secret?

Devastante, sì, tanto che a Gaza “non si possono più contare tutti i morti”, come riferisce il Wall Street Journal. Tanto che addirittura il Tribunale penale internazionale, finora vuoto involucro, si è deciso a spiccare mandati di cattura per Netanyahu e altre figure di spicco israeliane.

Ma Tel Aviv si è rivolta ancora una volta al Golem americano perché tenga a freno i magistrati del CPI. Se riuscisse, il Tribunale in questione ne uscirebbe ancora più devastato di quando già non sia, vacuo ciondolino che ondeggia al vento che soffia da Washington.

 

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