La vittoria alle presidenziali di Ebrahim Raisi riapre le porte dell'Est per l'Iran

La vittoria alle presidenziali di Ebrahim Raisi riapre le porte dell'Est per l'Iran

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di Fosco Giannini*

Lo scorso 18 giugno si sono tenute le tredicesime elezioni presidenziali in Iran, assieme alla sesta elezione dei consigli islamici di villaggi e città e alle elezioni parlamentari di medio termine. Le elezioni sono state nettamente vinte dal capo del sistema giudiziario iraniano, Ebrahim Raisi, che con quasi 18 milioni di voti (il 62%) ha battuto Mohsen Rezai (3,4 milioni di voti), Abdolnasser Hemmati (2,4 milioni) e Amir-Hossein Ghazizadeh Hashemi (1 milione). L’affluenza è stata del 48,8%, con 28,9 milioni di voti su circa 59 milioni di elettori, la più bassa in un’elezione presidenziale dalla rivoluzione islamica, alle elezioni parlamentari del 2020 era stata del 42%. Ci sono stati inoltre 3,7 milioni di voti giudicati non validi. L'Occidente, i suoi potenti mass-media, hanno immediatamente interpretato la minore affluenza alle urne in Iran come un segno della "profonda crisi" del potere iraniano, dimenticando che nelle elezioni regionali francesi del precedente 6 giugno è andato a votare solo il 27% degli elettori e la stampa francese ha parlato di "disastro civico". Molto più probabilmente, sia in Francia che in Iran, è stata la paura interiorizzata del Covid-19 a scoraggiare l'uscita e gli assembramenti per il voto. Ma la demonizzazione della Rivoluzione iraniana, da parte del mainstream imperialista, sembra non cessare mai, dalla cacciata dello Scià di Persia Reza Pahlavi e dalla vittoria, nel febbraio del 1979, di Komheini.

Ciò che più ha caratterizzato ed omologato i media occidentali in relazione all'esito delle presidenziali iraniane è stato il giudizio sul vincitore, Raisi, liquidato in ogni pagina di giornale e in ogni servizio televisivo come "l'ultraconservatore". Senza che mai, tale giudizio tranchant, venisse seriamente motivato. Raisi sarebbe "ultraconservatore", agli occhi ancora inesauribilmente colonialisti dell'Occidente, poiché avrebbe una più forte tendenza, rispetto all'ex presidente, Hassan Rouhani, ad accentrare il potere generale nelle mani teocratiche? Per nulla: sia Raisi che Rouhani non intendono affatto indebolire la struttura di potere iraniana (che, peraltro, è ben più complessa e democratica di quanto l'Occidente racconti e mistifichi, con il Consiglio dei Guardiani, il massimo potere, composto da 12 membri, 6 dei quali eletti dal Parlamento e 6 dalla Guida Suprema). Che il vincitore Raisi sia propenso, rispetto all'ex Presidente Rouhani, ad un nuovo giro di vite contro la libertà delle donne? Per nulla, sia l'uno che l'altro mantengono la stessa linea ancora oscurantista e contraria all'emancipazione femminile.

Su quali basi, dunque, l'Occidente ha coniato e poi imposto, come una sorta di "sillogismo fallace" venato di leggera follia, il giudizio di "ultraconservatore" per Raisi? Coniando, peraltro, il giudizio di "moderato" e "riformista" per l'ex Presidente, Rouhani?
Per capire, si può partire dalla fine, dalle prime dichiarazioni di Raisi dopo la vittoria e dalle congratulazioni internazionali per il responso elettorale.
Immediatamente dopo la conclamazione della vittoria Raisi ha evitato accuratamente di evocare ogni relazione con gli Stati Uniti d'America e con il Presidente Biden, con un silenzio e una rimozione, su loro, dense di critica e distanziamento, politico e ideologico. Mentre i primi a congratularsi con il nuovo Presidente iraniano sono stati Putin e Xi Jinping. Mentre l'Occidente già rimpiangeva il "riformista" e "moderato" Rouhani.
Perché, agli occhi dell'Occidente, "riformista" e "moderato"? Perché negli otto anni della sua presidenza Rouhani ha tentato aperture e dialogo con gli USA, con Trump, con l'Occidente, e ciò proprio mentre dal fronte euroatlantico tornava prepotentemente una politica aggressiva contro l'Iran, tendente ad appoggiare Israele nella sua linea duramente e provocatoriamente anti iraniana e mentre, nel 2018, Trump decideva di ritirare gli USA dall'accordo che impegnava l'Iran all'uso esclusivamente civile dell'energia nucleare. Affossando l'accordo stesso. Senza che per tutto ciò Rouhani cambiasse la propria linea essenzialmente conciliante o di speranzosa attesa con gli USA.

Una linea di non rottura con gli USA e con l'Occidente, di nuovo aggressivi con Teheran, che i media euroatlantici definivano - con un assurdo utilizzo di termini politici appartenenti alla  rivoluzione francese, ormai svuotati di senso anche in Europa e addirittura ridicoli da usare in un Paese come l'Iran - di "sinistra" e, appunto, "moderata" e "riformista". Mentre, per contrapposizione scolastica, di "destra" e "ultraconservatrice" sarebbe ora la linea del nuovo Presidente Raisi.

Scrive, infatti, "la Repubblica", il 21 giugno: "Dopo otto anni di presidenza Rouhani, l’amministrazione iraniana si sposterà quindi quasi certamente verso destra, rendendo assai più complicata la già fragile relazione con i paesi occidentali, e soprattutto con gli Stati Uniti".
Destra e sinistra, in quest'ottica risibile, sono date, dunque, dalla vicinanza (sinistra) o dalla presa di distanza (destra) dal fronte euroatlantico.
Dirà un imprenditore iraniano intervistato da "Le Figaro", tale Masoud: "Ho fatto business con la Cina per 17 anni, import-export di fiori, prima di Rouhani. Con lui le tariffe sono poi diventate altissime, il rial troppo instabile; per mantenere un minimo rapporto con l'Occidente, vissuto come un - vano - tentativo di far decadere le sanzioni, non si apriva il mercato con la Cina e questa politica, assieme alle dure sanzioni di Trump che continuavano contro il nostro Paese, ha messo a terra l'economia iraniana. Con Rouhani non c'era verso di migliorare i nostri affari, mentre Raisi è  "open minded", metterà le cose a posto, risanerà l'economia. Per questo l'ho votato".

Dunque, è molto più probabile che il consenso elettorale verso Raisi non sia tanto venuto dalle sue supposte (dall'Occidente) posizioni "ultraconservatrici", ma piuttosto dalla crisi economica proveniente, per tanta parte, dalle sanzioni occidentali e dalla mezza chiusura con i mercati cinesi e del'Est.
Già nella fase precedente il verdetto elettorale, che dava Raisi nettamente vincente su Rouhani, le acque verso la Cina hanno cominciato significativamente a muoversi, mentre cresceva specularmente anche un forte desiderio di riscatto, sia dei ceti più alti che popolari, dall'umiliazione cocente subita dall'uscita degli USA dall'accordo nucleare, che rigettava l'Iran, difronte ad una comunità internazionale fondamentalmente prona ai comandi di Washington, nell'impossibilità di sostenere il proprio processo di industrializzazione anche con il nucleare. E ciò di fronte ad un Israele che, urbis et orbi, utilizza impunemente l'energia atomica per un terrorizzante apparato militare.

Una linea, questa del riscatto dagli USA e del rilancio totale del  rapporto economico con la Cina e la Russia, appoggiata anche dalla Guida Suprema Ali Kamenei e dai Pasdaran, anch'essi, naturalmente, giudicati dall'Occidente "ultraconservatori".
Non è stato senza significato, infatti, che nella sua prima conferenza stampa da Presidente, Raisi abbia affermato: "Abbiamo già ottime relazioni con la Cina, le svilupperemo per il bene del nostro Paese e del nostro popolo e ci sono grandi potenzialità che sicuramente cercheremo di sfruttare". Parlando poi dell'intesa strategica per i prossimi 25 anni che nel marzo 2021, sotto la spinta di Ali Kamenei, l'Iran ha firmato con Pechino sulla base di un principio guida: grandi investimenti produttivi cinesi in Iran in cambio di petrolio a buon prezzo, in un rapporto win-win da Nuova Via della Seta, che prevede un primo interscambio "non-oil" di 18 miliardi di dollari. Tacendo sugli USA, annunciando solamente il rifiuto di incontrare Biden e denunciando con forza l'uso delle sanzioni americane contro l'Iran.

Con la vittoria di Raisi la svolta iraniana verso Est può prendere più vigore. E, a questo proposito, ha affermato in questi giorni post elettorali Vahid Ghorbani, responsabile della politica estera dell'Istituto di ricerca per gli studi strategici dell'Iran: "L'equilibrio internazionale sta cambiando, la Cina ne è protagonista, vediamo la sua influenza in tutti i settori, dalla tecnologia allo spazio, e vogliamo essere pronti a relazionarci con questo nuovo fenomeno. E non vogliamo essere solo venditori di petrolio, ma concatenare i nostri interessi, in un rapporto alla pari e non imperialistico, con gli altrui interessi".
Ed ha aggiunto Ghorbani: "Ali Kamenei ha significativamente affidato la gestione dei rapporti con Pechino all'ex speaker del Parlamento, Ali Larijani, che ha sempre sofferto la linea dell'ex Presidente Rouhani volta a tenere solamente socchiusa la via dell'Est, per non aggravare il rapporto con gli USA".
Se l'Occidente dichiara oggi che chi, in Iran non sta dalla sua parte e vira verso Est è un "ultraconservatore" è perchè tale accusa è parte essenziale dell'armamentario ideologico imperialista.
Già negli anni '76 - '79 l'ayatollah Khomeini, che avrebbe guidato la Rivoluzione antimperialista iraniana e cacciato dall'Iran il Pascià Reza Pahlavi, il Quisling americano a Teheran, era descritto da tutti i media occidentali come "ultraconservatore". Come "oscurantista" era definito l'intero e variegato movimento rivoluzionario khomeinista.

In verità dobbiamo ricordare, per riaffermare la verità storica, che tale movimento era stato profondamente influenzato dal pensiero radicale di  Ali Shariati (uno studioso di scienze sociali dal grande seguito nelle università) e dal suo movimento, di popolo, "shariaita". 
A Shariati  va con molta probabilità considerato il vero ideologo della Rivoluzione iraniana, rivoluzione troppo spesso e superficialmente liquidata come "fondamentalista" ma che, in verità, non aveva in sè solamente l'aspetto del radicalismo religioso, ma anche i segni forti del populismo politico e della difesa della Patria e della Nazione in senso anticolonialista e anti imperialista.

Shariati aveva e propagava un pensiero forte, che segnò di sé la Rivoluzione e il movimento komheinista, un pensiero così sintetizzabile: la vera essenza dello sciismo (gli iraniani sono sciiti) risiede nella volontà di rivoluzione contro tutte le forme di oppressione, contro il feudalesimo, il capitalismo e l'imperialismo. Il pensiero professato da Shariati, che molto si infuse in Komeini, era che la profezia di  Maometto evocava non solo una nuova religione, ma una società attraversata da un lungo processo rivoluzionario, che doveva concludersi  affermando una società di uguali e senza classi. E il nazionalismo di Shariati non era poi così tanto diverso da quello di Fidel e di "Che" Guevara, nella misura in cui asseriva  che i popoli del terzo mondo non possano combattere l’imperialismo senza rivalutare la propria identità culturale, identità che in molti contesti, come quello iraniano, non riesce, non può prescindere, dalla religione. In una sorta di mediazione, di compromesso, tra marxismo e Islam sciita. 

Certo, Komheini, pur segnato dalle tesi di Shariati, racchiude la spinta rivoluzionaria di quelle tesi in un involucro ben più religioso, dal quale esce l'idea-forza komeinista sintetizzata nella concezione, divenuta famosa, della "velayat-e faqih - Hokumat-e Islami", e cioè il governo rivoluzionario, islamico e antimperialista dei mujtahid anziani che reggono lo Stato. Concezione religiosa dai caratterri oscurantisti, che tuttavia sospinge quel processo nazionalista - rivoluzionario che libera l'Iran dal tallone di ferro americano e dalla degenerata monarchia iraniana che sottometteva e impoveriva il popolo, consegnando le ricchezze del Paese, il petrolio di cui l'Iran è terzo produttore al mondo, alle compagnie petrolifere americane e occidentali.
Naturalmente, da quell'involucro religioso komeinista di cui il pensiero di Shariati faceva parte, ma non ne era egemone, partono gli attacchi contro le donne e contro il Tudeh, il partito comunista iraniano, perseguitato.

Resta il fatto che nel periodo della Rivoluzione komeinista il Tudeh era già nella sua fase discendente (dopo aver toccato il proprio apogeo tra gli anni '40 e i '50) e non poté svolgere quel ruolo che svolse pienamente il movimento di massa e di popolo komheinista.
E resta il fatto che con la vittoria di Komheini e della Rivoluzione, finalmente la grandissima risorsa-petrolio viene nazionalizzata, così come ogni altra ricchezza nazionale.

In una sorta di classica antropologia occidentale neocolonialista della mistificazione, le grandi manifestazioni di massa che attraversarono l'Iran nella fase della Rivoluzione e che tuttora, come nel caso della vittoria di Ebrahim Raisi l'attraversano, sono sottilmente ed obliquamente "presentate", dai media euroatlantici, come manifestazioni del fondamentalismo religioso islamista oscurantista, e mai come manifestazioni di un popolo consapevole del pericolo tirannico dell'imperialismo e orientato a liberarsene. Una considerazione, quella dei media occidentali sul popolo iraniano in mobilitazione, dai segni fortemente razziali e conseguente all' "esprit impérial", all'inestirpabile concezione della "missione civilizzatrice" consustanziali alla stessa natura imperialista.

Dal punto di vista strettamente storico-teologico, l'accusa di "ultraconservatorismo" che oggi, come ieri, viene mossa a chi guida l'Iran, sa tanto anche di condanna dell'Islam come religione, sa tanto di nuova crociata cristiana. Una condanna, peraltro, che parte da crociati di una religione, quella cattolica apostolica romana e occidentale, non esattamente immacolata in relazione all'esigenza di un nuovo umanesimo teologico e religioso. 
Senza rievocare le fasi storiche orrorifiche delle Inquisizioni ed il rogo inestinguibile di Giordano Bruno, possiamo dire, nell'essenza, che i papati di Wojtyla (fortemente impegnato, questo, anche e soprattutto nella distruzione del socialismo realizzato a favore del dominus totale degli USA e della NATO) e di Ratzinger, vicinissimi nel tempo, sono stati anch'essi ed entrambi segnati da una totale e ferrea volontà di sottomettere la ragione alla fede; da un utilizzo oltremodo "sofistico" della lotta ideologica contro il relativismo come Cavallo di Troia per combattere ogni libertà illuminista, colpendo, attraverso la demonizzazione del divorzio e dell'aborto, soprattutto le donne. Colpevolizzando sino alla promessa dell'inferno l'omosessualità e ogni diversità. Come ancora oggi si può constatare dall'iniziativa senza precedenti assunta dal governo centrale della Chiesa di Roma, che ha consegnato, lo scorso 17 giugno, una potente e risentita nota all'Ambasciata d'Italia presso la Santa Sede in relazione alla Legge Zan, giudicata dal governo di Papa Francesco "di flagrante violazione con il Concordato".

E lo stesso Papa Francesco, oggi quasi santificato, condusse una  lotta severa contro la Teologia della Liberazione in America Latina, esprimendo forti parole di condanna verso quei gesuiti, preti del suo stesso Ordine, e non gesuiti, che si accostavano al pensiero di Gustavo Gutiérrez, di Hèlder Camara, di Leonardo Boff, di Camilo Torres Restrepo che, esattamente come i teologi della Rivoluzione iraniana, sceglievano il terreno della lotta antimperialista conseguente.

E nel noto "Documento di Aparecida", del 2007, l'allora cardinale Bergoglio asserì che "non si può accedere alla Santa Comunione e allo stesso tempo agire con fatti o parole contro i comandamenti, soprattutto quando favoriscono l'aborto, il divorzio, l'eutanasia e altri gravi delitti contro la vita e la famiglia". Una linea che, inevitabilmente, per un'imprescindibile weltanschauung cattolica, anche adesso che è Papa, Bergoglio continua a perseguire.
E dobbiamo pensare che queste posizioni della Chiesa Cattolica contro le donne e contro i diritti, permangono in un contesto storico, quello occidentale, totalmente secolarizzato dalle rivoluzioni industriali, cosa non avvenuta in Iran e nella religione islamica.
Aggiungendo, anche, che la Chiesa Cattolica non si riscatta dalle proprie colpe contro i movimenti di liberazione anticolonialisti, contro le libertà collettive e individuali, contro i diritti sociali e civili mettendosi alla testa di una grande rivoluzione antimperialista. 
Come ha invece fatto, riscattando il popolo iraniano dal giogo imperialista ed edificando uno Stato iraniano non  solo come punto di riferimento delle lotte del popolo palestinese e delle lotte anti imperialiste nella regione asiatica contigua, ma in tutto il  Medio Oriente.

*direttore di "Cumpanis"

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