L'orrore di Gaza, l'attentato a Washington e alcune domande sui nostri media
di Paolo Desogus
Occorrerà prima o poi interrogarsi sulle gravi responsabilità della stampa nell'orientamento dell'opinione pubblica in favore dello scellerato sterminio israeliano. È vero, molto è cambiato da un anno e mezzo. Dopo mesi e mesi di tifo scatenato per i macellai dell'IDF e dopo pagine su pagine di disinformazione e di mistificazione sul conflitto Israelo-palestinese, ora qualcosa sembra che stia cambiando. Vige sempre una fortissima censura. La ferocia disumana israeliana continua ad essere mascherata, ma le notizie dei bombardamenti e della riduzione dei palestinesi a bestie non può essere più nascosta.
Da parte di qualche intellettuale o giornalista, è probabile che sia in atto un principio di resipiscenza verso Israele e Netanyahu. Restano però le solite storture, il solito miserabile doppio standard. Prendete l'attentato di Washington di ieri. Due diplomatici sono stati uccisi. È un fatto terribile che giustamente merita attenzione, ma che risulta decisamente squalificato di fronte alle centinaia di morti quotidiane a Gaza.
Fate poi attenzione al modo in cui viene data l'informazione. Dei due diplomatici sappiamo già tutto. Abbiamo i loro volti, i loro sorrisi. L'idea che la morte sia caduta sui loro corpi ben presentati da occidentali, cioè da gente che ci somiglia, inevitabilmente colpisce. La notizia deve infatti creare empatia.
Sul loro attentato abbiamo inoltre subito una chiave di lettura: antisemitismo. C'è un conflitto unilaterale da decenni, ma quando dalla parte palestinese qualcuno reagisce il giudizio è subito quello di antisemitismo. Viene allora da chiedersi, ma se la morte di due israeliani è antisemitismo, cos'è la morte di 60mila palestinesi? Perché questo sterminio continuo non ha una sua specifica parola? O una sua categoria?
Del resto anche sul piano della rappresaglia sui civili - considerato dal diritto internazionale un crimine gravissimo - non esistono paragoni in epoca moderna. Ai 1200 morti del 7 ottobre sono seguiti 60 mila morti, città distrutte, esodi continui, feriti, malattie, carestie e decessi per fame, sete e freddo. Da questo punto di vista l'IDF supera di gran lunga le SS durante l'occupazione italiana che almeno si fermava su un rapporto di 10 a 1.
A tutto questo poi si aggiunge la spersonalizzazione. Di questi morti non sappiamo nulla. I loro volti si confondono nella massa. Le singole vite hanno un significato vago, lontano. Diverso è stato il caso delle vittime e dei rapiti del 7 ottobre: le loro vite hanno avuto la dignità della notizia giornalistica. Sono subito diventate esemplari. Delle vittime palestinesi niente, non conosciamo nemmeno qualcuno dei loro nomi. Non sappiamo nulla delle loro esistenze in tempo di pace o comunque di tregua. Le loro abitudini, i loro costumi e i loro sentimenti ci sono ignoti. La stampa insiste sempre sui cenci che portano addosso. Amplifica lo stigma della povertà, la colpa di essere popolo, la responsabilità di non poter nascondere nel contegno borghese la loro precarietà esistenziale, la loro rabbia e il loro dolore. Il male che subiscono deve trovare una prima giustificazione nella loro rappresentazione.
I palestinesi sono come zombie: ombre di esistenze sconosciute, corpi predestinati alle raffiche e ai bombardamenti. Le immagini che la stampa ci concede non devono trasmettere empatia, compartecipazione, ma diffidenza. Non ci devono somigliare: "non sono come noi: sono arabi", anzi "palestinesi". Non sono occidentali e dunque "che vuoi che pensino!", "che sentimenti vuoi che abbia questa gente semiprimitiva!".
Del resto fateci caso: la voce e le opinioni dei palestinesi ci sono ignote. Il loro punto di vista sulla guerra ci è nascosto. Sappiamo tanto del parere degli israeliani e anche delle loro voci critiche, ma poco o nulla di quello che pensano i palestinesi. Ogni tanto viene fuori che dalle loro parti si è alzato qualcuno che ha imprecato contro gli ebrei e che ha desiderato la distruzione di Israele: "antisemitismo!". Ma in quelle condizioni cosa ci si può aspettare che dicano? Cosa diavolo deve desiderare chi è nato e cresciuto in un campo di concentramento diventato negli ultimi mesi un campo di sterminio?