Nella Guantanamo inglese. Le ore decisive di Assange

Nella Guantanamo inglese. Le ore decisive di Assange

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di Geraldina Colotti

 

Il 20 e il 21 febbraio, la Corte Suprema del Regno Unito deciderà sulla vita del giornalista australiano Julian Assange. Il fondatore del sito Wikileaks è detenuto dal 2019 nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, la Guantanamo inglese, per aver pubblicato file riservati del governo Usa. Ha 52 anni, ma sembra un anziano, malato e provato da anni di privazioni e sofferenze. Se verrà respinto il suo appello e sarà estradato negli Stati Uniti – ha denunciato la moglie Stella Morris, che è anche sua avvocata – morirà: perché “la sua salute sta peggiorando sia dal punto di vista fisico, sia psicologico, e la sua vita è a rischio ogni giorno che resta in carcere”. In questi anni, non si contano le perizie presentate che lo provano.

Negli Usa, lo aspetta una condanna pari a 175 anni di carcere per aver rivelato gli interessi reali che muovono le aggressioni imperialiste e per aver smascherato al contempo i limiti della tanto sbandierata libertà di stampa degli Stati uniti. Deve rispondere di 18 capi di accusa, compreso quello di spionaggio, per aver pubblicato a partire dal 2010 oltre 700.000 documenti confidenziali sulle attività militari e diplomatiche degli Usa, allora impegnati in Iraq e in Afghanistan, e i crimini di guerra commessi dall’esercito nordamericano.

Washington sostiene che Assange ha agito di concerto con l’ex soldato Bradley Manning, che lavorava come analista di intelligence per il Dipartimento di difesa statunitense.  Inizialmente, Assange era stato accusato di aver solo ricevuto e pubblicato le migliaia di documenti procurati da Manning, ma in seguito si era aggiunto un diciottesimo capo d’accusa perché lo si era ritenuto co-responsabile nel lavoro di ricerca, decodificazione e filtrazione dei dati. Come giornalista, Assange aveva rispettato il precetto principale della professione: dire la verità; ma per l’imperialismo proprio quello era il delitto: dire la verità sui misfatti del “genocida più stimato del pianeta – come diceva Che Guevara: il capitalismo”. E l’accusa di spionaggio, negli Usa, può portare all’ergastolo o alla pena di morte. Quanto all’ex soldato Manning, ora si chiama Chelsea, dopo aver cambiato sesso nelle carceri Usa dove ha trascorso 7 anni, prima di essere graziata da Obama, senza mai aver tradito Assange. Attualmente, Chelsea continua il suo impegno civile come attivista LGTBI.

La vicenda di Assange ha incrociato anche quelle dell’America latina all’epoca del suo “secondo rinascimento”, messo in moto con la vittoria di Hugo Chávez in Venezuela e continuato poi con l’arrivo di altri governi socialisti o progressisti al timone di importanti paesi, come l’Argentina e il Brasile, ma anche di Bolivia, Uruguay e Ecuador. A giugno del 2012, quando la Corte Suprema britannica rigettò il ricorso presentato contro il via libera alla sua estradizione, Assange si rifugiò nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dover rimase fino al 2019, ottenendo anche la cittadinanza ecuadoriana.

Il tradimento di Lenin Moreno, succeduto a Rafael Correa alla presidenza dell’Ecuador nel 2017, si manifestò anche nei confronti del giornalista australiano. Dopo avergli revocato lo statuto di rifugiato politico, infatti, questi venne praticamente consegnato agli agenti della polizia metropolitana di Londra che, una volta entrati nell’ambasciata, lo trascinarono a forza fuori: per condurlo dapprima davanti al giudice Michael Snow, e successivamente in carcere.

Da allora, l’impegno del movimento per la sua liberazione ha raccolto importanti pronunciamenti sia a livello istituzionale che da parte di organizzazioni in difesa dei diritti umani, ma la macchina giudiziaria britannica, notoriamente consonante con quella nordamericana, ha continuato a procedere implacabile, rigettando tutti i ricorsi.

L’ultimo rigetto data del 6 giugno scorso, quando l’Alta Corte di giustizia di Londra ha detto che la difesa di Assange non poteva ricorrere in appello dopo l’estradizione decisa dal governo britannico a giugno del 2022. Ora, due giudici dovranno riesaminare il caso e decidere se il caso del fondatore di Wikileaks necessita di una valutazione approfondita. Altrimenti, al giornalista non resterà che rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, con il rischio che la Gran Bretagna, non facendo più parte dell’Unione europea in seguito alla Brexit, non ne riconosca la titolarità.

Intanto, il parlamento australiano ha chiesto agli Stati uniti e alla Gran Bretagna di ritirare le accuse contro Assange. In Italia, diverse città in cui governa il centro-sinistra hanno concesso la cittadinanza onoraria al giornalista. L’ultima in ordine di tempo è stata Roma. Tuttavia, molta acqua è passata sotto i ponti, sia in America latina che in un’Europa sempre più piegata ai voleri della Nato. Più che alla vita di Assange, più che al genocidio dei palestinesi, il Parlamento europeo si dimostra interessato alle ingerenze negli affari interni del Venezuela, dichiarando che “non riconoscerà le elezioni presidenziali” se non si consente alla golpista Maria Machado di presentarsi come candidata, nonostante sia stata inabilitata.  Più che a difendere il collega australiano, i giornalisti “embedded” sono impegnati a coprire i massacri di “Israele”, ad autocensurarsi o a censurare vergognosamente chi cerca di far filtrare la verità, o a indignarsi per la morte di Navalny in Siberia, così dimostrando quanto si faccia sentire l’assenza di Assange.

Geraldina Colotti

Geraldina Colotti

Giornalista e scrittrice, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali. È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.

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