Robotizzazione generale del lavoro, espansione delle merci immateriali, caduta tendenziale del saggio di profitto e rivoluzione

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Robotizzazione generale del lavoro, espansione delle merci immateriali, caduta tendenziale del saggio di profitto e rivoluzione

di Fosco Giannini

Per ora, gettiamo solo un sasso nello stagno. La parabola delineata dal sasso lanciato non pretende di farsi curva politico-teorica compiuta, né scia strategica illuminante. Il suo obiettivo sta nel rapporto dialettico che, forse, potrà costituirsi tra la “curvatura” del tragitto del sasso e l’impatto di esso nello stagno stesso, e questo, eventuale, obiettivo vogliamo perseguirlo attraverso il minor “gravame” semantico possibile (recuperando il senso greco anti enfatico di semantikos, segnalare) e la maggior semplicità linguistica possibile. Due accorgimenti che potrebbero sfociare in alcune “ruvidezze” espositive. Ma come asseriva San Paolo di Tarso, su tutt’altro fronte, nelle sue “Lettere” (sintetizzando): tutto non è possibile, o sentiamo il sublime non senso ieratico nel ricercarlo, o rinunciamo a priori a parlare di Dio.

Cosa ci accingiamo a compiere? Due tentativi di “nuovo attraversamento” di due concezioni cardinali marxiane: il primo, relativo alla determinazione del valore delle merci; il secondo, relativo alla caduta tendenziale del saggio di profitto (lungo la strada alcune, volutamente incompiute per ragioni di “sostenibilità” di questo contributo, digressioni). Perché questi due “nuovi attraversamenti”? Per mettere a fuoco (solo per approssimazione, solo in relazione ai moti carsici “avvertiti” e certamente ancora - a nostro parere- non collettivamente portati alla luce, con un tasso, dunque, di errore alto) i compiti, di media-lunga durata, delle forze comuniste e rivoluzionarie.

In relazione a quali fatti concreti (di già potente impatto sulla fase ma, ancor più, densi di futuro) tentiamo di attraversare nuovamente le due concezioni cardinali marxiane citate? 
Primo, la robotizzazione del lavoro in corso, ancora ai primordi, sul piano mondiale, ma già evocante un proprio sviluppo di carattere irreversibile ed esponenziale, non lineare. Un passaggio storico dallo stesso carattere “destinale”, ma con ben più imponenti potenzialità trasformatrici del lavoro e della lotta di classe, di quello del passaggio - seconda metà del 1.700 – dalla tessitura col telaio a mano a quella col telaio di Arkwright.

Secondo, la crescita del peso della produzione delle merci immateriali da parte del IV e V (confine ancora incerto) capitalismo. Con la conseguente globalizzazione e conquista già significativa, da parte di queste merci, dei mercati mondiali, per ora quelli dei Paesi a più alto sviluppo capitalista, ma con loro penetrazioni già rilevanti anche nelle sconfinate aree proletarie e sottoproletarie dei Paesi capitalisti a più basso e bassissimo sviluppo.

Robotizzazione del lavoro, dunque. Proprio in relazione alla natura del tutto contemporanea, ed in progress, del fenomeno, ancora non si hanno a disposizione, di esso, rilevamenti, ricognizioni di carattere esaustivo. Tuttavia, secondo il Rapporto “Word Robotics 2024”, della International Federation of Robotics (IFR), la corsa alla robotizzazione industriale su scala planetaria continua inarrestabile e nel 2024 si è giunti, con un aumento del 10% rispetto al 2023, all’installazione, solo nei processi produttivi industriali, di circa 4milioni e 300mila robot e, specifica il “Word Robotics 2024”: “Per quanto riguarda l’evoluzione delle applicazioni e dei mercati di riferimento, l’automotive è giunto ad essere il principale settore di applicazione e a crescere maggiormente (+16%) è il settore Metal e Machinery”. Settori delle nuove auto, del metallo e delle stesse macchine per la lavorazione del metallo, che indicano chiaramente come i processi di robotizzazione si presentino, soprattutto, nelle linee di maggior apporto redditizio, in attesa di quelle dell’Elettronica, della produzione industriale.

Anche nell’area dell’Ue la robotizzazione, trainata dall’industria automobilistica, ha raggiunto circa le 45mila unità (ma i dati non sono così certi). Le installazioni degli “androidi” sono state in buona parte effettuate dalle industrie europee tradizionalmente forti nel settore automobilistico come la Germania (circa 15mila unità) e la Spagna (circa 13mila), ma anche dalle industrie emergenti in questo settore come quelle della Slovacchia (circa 4mila unità). Resta il fatto che il trend verso la robotizzazione va a pieno ritmo e presenta onde di crescita dal carattere storico. 

Dati più certi, e di grande interesse strategico, sono quelli relativi ai ruoli sino ad ora prevalentemente affidati ai robot nei processi produttivi nell’area Ue. Rispetto ai dati forniti sopra (relativi alle unità robotiche), la prima area d’impiego degli “androidi”, dal 2021 ad oggi, è quella della movimentazione (con un 5% di crescita); la seconda area è quella della saldatura (anch’essa in crescita del 5%) e la terza è quella dell’assemblaggio e della “costruzione”, che vede una decrescita del 22%. 

Come dire (seppur ancora, davvero, a spanne): la robotizzazione, sinora, sostituisce l’operaio meno qualificato, non arrivando a rimuovere/sostituire le punte di eccellenza della forza-lavoro. Con un’anticipazione/evocazione così, seppur azzardatamente, formulabile: la possibile espulsione della forza-lavoro dalla produzione (Marx: trasformazione degli strumenti in macchine e progressiva incorporazione della scienza nel processo produttivo come concausa della crisi occupazionale sistemica e caduta tendenziale del saggio di profitto) potrebbe innanzitutto riguardare, strategicamente e anche con caratteri di massa, la classe operaia  numericamente più vasta e tecnologicamente più debole, con una “difesa”, invece, dell’“aristocrazia operaia”, parte della “classe”, per citare Lenin, da un lato più facilmente subordinabile e sussumibile al capitale, ma d’altra parte candidabile ad essere classe operaia politicamente d’avanguardia perché collocata nei punti della produzione d’avanguardia: dialettica della lotta di classe e “lezioni” per le forze rivoluzionarie del presente e per un futuro già in divenire.

 Inoltre:  poiché la robotizzazione contiene già in sé un carattere strategico, essa può evocare nuovi e non inverosimili assetti sociali generali, nei quali il capitale, di fronte ad una sua crisi profonda di sovraproduzione, potrebbe tollerare, transitoriamente – we’ll see how it ends-  anche una consistente parte sociale privata del lavoro e “mantenuta” con assegni sociali sostenibili grazie al rialzo del profitto da estrarre sul piano nazionale attraverso il lavoro collocato nei punti alti della produzione e del plusvalore e dalla vastità e ricettività subordinata dei mercati internazionali. 

In fondo, non sarebbe che la vecchia storia del saccheggio imperialista nel grande mondo colonizzato, un saccheggio volto non solo al profitto ma anche ad una minima redistribuzione interna al Paese padrone al fine di ingannare la classe operaia, che si fa, per questo, “aristocratica” (Lenin, “Imperialismo fase suprema del capitalismo”, 1915). Ma un disegno che l’imperialismo, oggi, vorrebbe/potrebbe (poiché una sua nuova, lunga, permanenza storica è una scommessa) sperimentare su ben più vasta scala, al fine, poi, a robotizzazione “completata”, di praticare strategicamente la gestione degli inevitabili fenomeni di espulsione di massa dei lavoratori all’interno di una forma capitalistica vastamente informatizzata e largamente “disumanizzata”.

Un quadro, questo, non inverosimile, che richiederebbe ai comunisti e ai rivoluzionari nuovi parametri per la lotta di classe e nuovi orizzonti strategici da ridefinire.
Seconda questione: le merci immateriali. Per fare luce sul ruolo di queste merci partiamo da una costatazione: dalla disanima della bilancia delle partite correnti  tra Ue e Usa (scambi di beni, servizi, transazioni finanziarie e redditi) che è stata redatta sia dalla Banca d’Italia che dalla Banca centrale europea, risulta - confermando ciò che va asserendo, con pochi “sussurri” e molte “grida” e anche ai fini della messa in campo, sul piano mondiale, del duro neo-protezionismo nordamericano - che, in effetti, l'Ue ha avuto, nel 2023,  un surplus commerciale con gli Stati Uniti di 157 miliardi di euro e che le esportazioni europee verso gli USA sono ammontate a 519 miliardi di euro in termini di cumulata annua nel 2024. Tuttavia, nell’ultima fase, le distanze tra Usa e Ue in rapporto alla loro bilancia commerciale sono state ridotte dall’entrata in campo della rivoluzione digitale condotta, in Occidente, dalle multinazionali Usa e dalle merci immateriali yankees. 

In relazione alla nuova e massiccia esportazione delle merci immateriali statunitensi nell’area Ue, ha scritto l’economista Federico Fubini: “Il pagamento da parte degli europei alle big tech californiane di ‘diritti per l’uso di proprietà intellettuale’ esplode da 25 miliardi di euro nel 2018 a 155 miliardi nel 2023. Quei flussi di denaro attraversano l’Atlantico verso ovest ogni volta che un residente di Milano, Roma, Parigi o Berlino registra un abbonamento a Netflix per vedere una serie, a Chat Gpt 4.0 per un processo di lavoro, a Microsoft per fare videoconferenze o a Meta per diffondere un post su Facebook”. 

L’economia immateriale - questo è il senso ultimo - ha contribuito notevolmente a modificare, pur senza ancora rovesciarli, i rapporti commerciali tra Usa e Ue. In seguito a questo nuovo, e colmo di futuro, evento, l’area euro è giunta a registrare un “rosso”, in alcune partite correnti con gli Stati Uniti, di diversi miliardi di euro, malgrado il surplus negli scambi di beni materiali favorevole all’Ue sia stato mantenuto e permanga. Anche i pagamenti dell’Italia agli Stati Uniti per “diritti di proprietà intellettuale” sono deflagrati, passando da 605 milioni nel 2018 a 1,9 miliardi nel 2023.

Si pone cioè, con forza, la questione delle merci immateriali, del loro peso e del loro ruolo nel definire i nuovi rapporti internazionali economici e commerciali, a definire lo stesso quadro mondiale e, in virtù della loro potenza oggettiva, a ridefinire parti della stessa natura del capitalismo, sia del capitalismo dello “sfruttamento assoluto” e da un’alienazione che sempre più (Marx che vede il nostro tempo dal suo tempo) “allontana l’uomo dal proprio lavoro e dalla propria essenza umana”, che dello stesso “capitalismo della sorveglianza” (Shoshana Zuboff docet). 

Peraltro, rispetto a tutto ciò, rispetto alla nuova centralità della merce  proveniente dal “capitale intellettuale” e delle merci immateriali destinate a segnare di sé un vasto futuro, non è certo casuale, né privo di significato, il fatto che lo scorso 20 gennaio 2025, giorno dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, sullo stesso palco l’intera Silicon Valley, l’intero V capitalismo nordamericano – da Musk sino a Bezos, passando attraverso tutta l’Intelligenza Artificiale imperialista Usa- si sia plasticamente stretto attorno al Presidente, apparente “capo” del V capitalismo stesso, ma già palesemente strumento politico transeunte del suo potere e della sua espansione planetaria.

 Un potere dal carattere per molti verso inedito segna questa forma del capitale: basti pensare al nuovo tipo di accumulazione che questa forma  capitalista ha già messo in moto ed ora sta espandendo: il “nutrimento” dell’Intelligenza Artificiale (con Meta e Meta Al all’avanguardia di questo processo) attraverso la raccolta, su scala planetaria, di “conversazioni” e “contenuti social” in Rete (la stessa Rete gettata negli oceani virtuali dai colossi big tech), un processo di valorizzazione del capitale iniziale investito di immane potenza ed impressionante  capacità di produzione di plus-profitto, a partire dal fatto che il lavoro che sta alla base di tale plus-profitto (“operai e operaie”, lumpenproletariat digitale disperso nel pianeta a raccogliere dati, come una sorta di sterminato esercito di lavoratori stagionali per la raccolta di pomodori, con salari di un euro l’ora, privi di diritti minimi e brutalizzato dal comando dei “caporali” al soldo, tra gli altri, di Mark Zuckerberg,  di Facebook e Meta Al, e di Brad Smith, della Microsoft Corporation/Open-AI,) rievoca e rimette in campo, ma su scala intercontinentale, quelle feroci modalità di estrazione di plus-valore che Engels per primo aveva visto con i propri occhi, e raccontato, a Manchester nel 1845.

A quali “nuovi attraversamenti” politico-teorici ci inducono la spinta alla robotizzazione planetaria del lavoro (per ora in gran parte industriale ma che, inevitabilmente, diverrà totale) e il già pesante ruolo, nello sviluppo capitalista e nel suo tentativo egemonico universale, delle merci immateriali, definizione probabilmente “di comodo” e destinata, per così dire, “ontologicamente”, e ciò in relazione alla propria stessa “essenza”, a mutare, per essere definite, infine, “materiali”, vista l’oggettiva materialità di queste stesse “merci immateriali”, sia in relazione al loro valore d’uso  che in relazione al loro valore di scambio?

A nostro parere la questione della robotizzazione e quella delle merci immateriali ci devono costringere ad “attraversare ancora” sia la concezione marxiana relativa alla determinazione del valore delle merci, che quella, sempre marxiana, della caduta tendenziale del saggio di profitto (naturalmente con ogni altra concezione marxiana, dal plusvalore all’alienazione, dialetticamente coinvolte con le due prime citate. Allargamento delle questioni che certo non affronteremo qui).

Marx espone per la prima volta la sua teoria del valore delle merci nella sua opera “La Miseria della filosofia”, del 1847, per poi svilupparla nel I libro de “Il Capitale”.  Tutti i militanti comunisti conoscono (o dovrebbero conoscere, e usiamo il condizionale in relazione alla drammatica rimozione, nel movimento comunista italiano degli ultimi 40/50 anni, della pratica, rivoluzionaria, della Scuola Quadri) la definizione di Marx del valore della merce. Valore che è dato, per Marx, dal lavoro sociale “immanente” alla merce, cioè dal lavoro sociale necessario alla produzione della merce stessa (anche se, qualora restringessimo solo a questo assunto la definizione di Marx, essa risulterebbe rozza ed incompleta, non dialetticamente marxiana, poiché Marx rafforza il proprio pensiero, in relazione alla definizione del valore della merce, attraverso l’immissione, per tale valutazione, sia del ruolo della merce stessa come depositaria del valore di scambio, con altre merci, sia le dinamiche del mercato, tendenti a variare il valore della merce, che il feticcio stesso, la proiezione della merce: il denaro).

Tuttavia, al di là dell’importanza estrema, nella valutazione del valore della merce, del valore di scambio, del mercato e del denaro, ciò che rimane centrale, per la sua valutazione, rimane la quantità di lavoro sociale “incorporato”. 

E veniamo al punto: se, strategicamente, nell’orizzonte storico, il lavoro “incorporato” nella merce sarà quello prodotto, per le merci materiali, da eserciti di “androidi” e, per le merci immateriali, sia dal nuovo general intellect (pensiamo alla marea di ingegneri indiani negli Usa) che dall’  oscuro e atomizzato  lumpenproletariat planetario, si potrà stabilire una nuova equazione: più alto sarà il tasso di lavoro “androide”, del nuovo general intellect e del sottoproletariato digitale, meno alto sarà il valore delle merci, con la conseguente accelerazione della “caduta tendenziale del saggio di profitto”, una crisi strutturale dei rapporti di produzione capitalistici generali e l’impossibilità, da parte del capitale, di stemperare/controllare il conflitto sociale derivante dall’espulsione (o “evaporazione”, per ciò che riguarda il lumpenproletariat digitale) di massa dei lavoratori dalla produzione attraverso misure di pseudo welfare o “assegni sociali” volti al mantenimento dell’ordine sociale capitalista.

La caduta tendenziale del saggio di profitto è una concezione marxiana che segna di sé il III Libro de “Il Capitale”. Nel “Moro di Treviri” la caduta tendenziale del saggio di profitto è provocata dall’aumento del capitale costante (C, macchine, mezzi di produzione) in relazione al capitale variabile (V, forza lavoro). Nell’essenza: attraverso la spinta oggettiva (parzialmente “governabile”, come ora accade a parti importanti del capitalismo mondiale, che potrebbero allargare a dismisura l’area della “robotizzazione” e dell’entrata massiccia dell’Intelligenza Artificiale nei processi produttivi, ma ne sono frenati dal timore delle conseguenti contraddizioni) ma oggettivamente irrefrenabile dello sviluppo tecnologico (che potrà oggettivamente giungere ad una larghissima “robotizzazione” e informatizzazione del capitale variabile), il capitale investe sempre più nel capitale costante, riducendo, in maniera sempre più crescente e specularmente, sia il costo che il peso della manodopera. Tutto ciò rimarcato da Marx già nella seconda metà dell’800.

Cosa accade, oggi?

Accade che l’attuale capitale costante d’avanguardia (i mezzi di produzione del big tech che producono merci immateriali, quelle merci che già cambiano i mercati mondiali e che tanto hanno contribuito, negli ultimi tre anni, a modificare, a favore degli Usa, i rapporti commerciali tra Usa e Ue, pur non togliendo ancora all’Ue il primato in tali scambi), costa molto e molto meno di quanto sia costato e tuttora costi il capitale costante rappresentato dai sistemi macchinici potenti e ponderosi dell’industria pesante tradizionale e, ancora, in campo. Ora, per il capitale, è possibile investire nel capitale costante ad alta densità tecnologica molto meno denaro, ma ciò, se in prima battuta favorisce il capitale, sul piano generale accelera ancor più la crisi tendenziale del saggio di profitto.

Le relazioni e le contraddizioni date dal rapporto tra capitale e tecnologia non sono certo state messe in luce ora, tantomeno in questo scritto: già Marx, ne “I Grundrisse” (1857/1858) poneva, in sintesi, la seguente questione: la distinzione tra valore d’uso delle macchine e loro valore di scambio nel processo di valorizzazione, costituisce il punto di partenza dell’analisi del rapporto tra capitale costante e capitale circolante. Nel processo di produzione del capitale lo strumento di lavoro viene trasformato in macchina, “in un’esistenza adeguata al capitale fisso e al capitale in generale”. È la macchina “che possiede abilità e forza al posto dell’operaio, è essa stessa il virtuoso che possiede una propria anima nelle leggi meccaniche che in essa operano” (di nuovo, “I Grundrisse”).

E immaginiamo quali forze e abilità oggi possiedano le “macchine” del big tech, il Gafam delle 5 maggiori multinazionali dell’IT occidentale, nell’acronimo dato dall’unità del gruppo Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsofot.

Se in questo contesto generale le contraddizioni del sistema capitalistico tenderanno a divenire irresolubili (come già, in gran parte lo sono, nel momento stesso in cui il capitale è il massimo produttore di caos, di diseguaglianze sanguinose e spinte alle guerre “regionali” e alla Terza guerra mondiale) dovrà essere l’azione soggettiva delle forze rivoluzionarie (e quando evochiamo “l’azione soggettiva” non dobbiamo farlo con la liturgia che incorporano in sé gli arredi “sacri” delle chiese, ma riassumendo la rottura epistemologia leninista e gramsciana insita nella loro stessa concezione di “azione soggettiva”) a cercare, con sempre più legittimità e credibilità storica,  le soluzioni. A partire da, quella, imprescindibile, della presa del potere per un nuovo potere. 

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