Trattato di Maastricht, 28 anni dopo la firma fatale



di Gianpasquale Santomassimo

Nell'anniversario della firma del Trattato di Maastricht sarebbe opportuno evitare due forme di semplificazione che rischiano di diventare caricaturali.

Da un lato non si possono raffigurare oggi i socialisti del tempo come antesignani di un sovranismo nei connotati che attualmente vengono (confusamente) attribuiti al termine - e la firma di De Michelis sta lì a testimoniarlo – ma dall'altro non ha senso immaginare la politica di allora come una notte buia dove tutte le vacche sono allo stesso modo "liberiste".

Tutto lo spirito del tempo soffia in direzione di quell'accordo, ma tra i firmatari solo Guido Carli mostra nel suo Diario di avere piena consapevolezza, e fino in fondo, delle implicazioni che la lettera del Trattato sottintende. Da parte di Andreotti e di Craxi c'è la fiducia, sorretta dalla consuetudine, di poter modificare, attenuare ed emendare portata e sostanza degli impegni sottoscritti. Come è nelle prerogative di uno Stato sovrano e che intende restare tale pur rinunciando ad alcuni dei suoi poteri, in forme ancora da definire e contrattare. Uno Stato che si basa ancora su una economia mista e su quote non trascurabili di industrie statali. Uno Stato che è tra i fondatori dell’Europa e che è indispensabile per l’esistenza stessa di un’Europa comunitaria.

Retrospettivamente ci rendiamo conto che con quella firma la Prima Repubblica firma la sua condanna. Parte immediatamente una spinta potentissima, che diventerà travolgente, alla distruzione di un quadro politico che è visto ormai dalle oligarchie italiane ed europee come ostacolo alla piena attuazione di un disegno di controllo totale della politica, che deve essere priva di autonomia e soggetta a quel "vincolo esterno" che deve imporre quel che i rapporti di forza e le fortune elettorali hanno fino ad allora impedito.

E’ il trionfo delle mosche cocchiere, dei circoli del bridge di “terza forza”, che trovano finalmente un supporto di massa nella confluenza di un apparato postcomunista disposto a tutto pur di farsi “legittimare” dai potenti.
La Seconda Repubblica nasce anche sotto il segno della sudditanza servile a un potere esterno, antidemocratico e totalitario, cui ci si rivolge da ora in poi con afflato religioso e col senso di colpa di reprobi che devono emendarsi, che devono flagellarsi per avere vissuto al di sopra delle proprie possibilità, che devono distaccarsi dalle comodità di una “Italietta” meschina che non ha saputo insegnare ai suoi giovani “la durezza del vivere”.

Quest’ultima è l’unica parte di quel vasto programma che verrà effettivamente realizzata.

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