Israele-Usa: il verdetto del Super Martedì



Piccole Note

Le elezioni politiche israeliane e le parallele primarie del partito democratico hanno dato il loro verdetto: il ritorno prepotente di Joe Biden e quello di Benjamin Netanyahu.


Ma se per Biden è una resurrezione, tale parola potrebbe non essere applicabile al premier israeliano, dato che anche se il suo partito ha stravinto, la sua coalizione non ha raggiunto i 61 seggi necessari per formare un governo.


Operazione Biden


Ma andiamo per ordine, partendo dagli Usa, dove tanti Stati sono stati coinvolti nelle primarie del partito democratico. L’establishement del partito aveva un imperativo, fermare la corsa di Bernie Sanders. Ed è riuscito nell’intento.


Tale imperativo ha portato il partito a chiedere a Pete Buttegieg e Amy Klobuchar, che avevano riscosso un certo successo nelle elezioni precedenti. di ritirarsi a favore di un candidato espressione dell’establishement. E così hanno fatto.


Un’operazione studiata fin dall’inizio delle primarie, quando l’establishement ha creato dal nulla le candidature di Buttegieg e Klobuchar, facendo convergere su queste figure, fino ad allora ignote, voti e consensi e portandoli all’attenzione dell’elettorato.


Il loro ritiro dalle primarie prima del Supermartedì era dunque questione scontata. Restava da decidere se far convergere quei voti sull’oligarca Michael Bloomberg o se sul claudicante Biden, l’ex vice-presidente di Obama, il cui astro, prima brillante si stava spegnendo.


Bloomberg fuori dai giochi


L’establishement del partito ha capito che l’oligarca era un’opzione errata. Nonostante abbia speso milioni su milioni, la sua campagna elettorale non dava risultati apprezzabili.


Da qui la scelta di far convergere i voti di Buttegieg e Klobuchar su Biden, opzione alla quale ha contribuito non poco la prossimità di questi a Obama, l’unico in grado di spostare in maniera significativa i voti degli afro-americani, elettorato importante per i democratici.


E così è stato. Vince Biden, dunque, anche se i contorni di questa vittoria sono incerti, dato che Sanders si è affermato in California, che ha un peso importante in queste competizioni.


Così le primarie democratiche si aggiustano secondo i desiderata dell’establishement, anche se ancora manca un pezzo di strada da percorrere. In questo tratto finale sarà importante la scelta di Elizabeth Warren, candidata che finora aveva goduto di un certo successo, ma che non è riuscita a vincere nel suo Stato.


Le affinità elettive che la legano a Sanders, essendo anche lei espressione della sinistra democratica, cozzano con certa antipatia personale, che recentemente ha diviso i due. Se anche lei dovesse salire sul carro di Biden, per Sanders sarebbe ancora più arduo recuperare.


Sanders silurato


Si è avverato quel che aveva pronosticato Trump, che alla vigilia del Super Martedì aveva messo in guardia Crazy Bernie, come lo chiama affettuosamente, dalle manovre del partito democratico per farlo “fuori dai giochi”, togliendogli nuovamente la nomination.


Detto questo, Sanders, come successe nel duello con la Clinton non molla di un millimetro. Sa che adesso che la corsa si è fatta a due, può far incanalare verso di sé i voti anti-establishement finora dispersi altrove. Si conferma politico di razza.


Resta la tristezza per le mosse di Barack Obama che, nonostante le ambiguità, pure aveva incarnato un ideale anti-establishement.


Il Nobel per la pace ad honorem, mai meritato sul campo, avrebbe potuto risultare decisivo nella trasformazione del partito democratico, mettendo la sua esperienza a favore di Sanders piuttosto che sperare in una reiterazione, peraltro ipotetica, della sua passata amministrazione tramite Biden.


Se la corsa per la nomination andrà come nel 2016, incerta fino alla fine, Obama potrebbe ancora fare una mossa a sorpresa, favorendo un avvicinamento Biden-Sanders, con Biden, se ancora favorito, a offrire al senatore del Vermont la vice-presidenza. Tale duo potrebbe peraltro risultare vincente su Trump, ma è un’opzione al momento quasi impossibile.


La vittoria, ad oggi vana, di Netanyahu


Alle primarie democratiche ha fatto eco l’elezione di Israele, che ha visto una massiccia affermazione di Netanyahu che un riflesso servile pavloliano dei media mainsetram ha salutato come grande vittoria.


Ad oggi, la grande vittoria appare solo l’ennesimo gioco di prestigio, o se si vuole, una vittoria di Pirro, stante che il blocco di destra che guida non ha i voti per formare un governo.


Così tutto resta ancora sospeso, anche se il buon risultato la prospettiva di evitare una quarta elezione dà a Netanyahu un certo spazio di manovra. Sta cercando di reclutare transfughi dal blocco antagonista e, allo stesso tempo, rilanciando l’idea di un governo di unità nazionale con lui come nocchiero. Ma è presto per capire eventuali sviluppi. Ad oggi la sua vittoria resta virtuale, mentre reale resta lo stallo.

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