Alberto Bradanini: "Sono 40 anni che i China bashers accumulano sconfitte"
Riceviamo e rilanciamo con grande piacere questa pregevole intervista della redazione de la Fionda ad Alberto Bradanini, ex ambasciatore italiano a Pechino e direttore del Centro Studi sulla Cina contemporanea.
L'INTERVISTA
Come interpretare e quali conseguenze può avere il crollo di Evergrande? Si preannuncia qualcosa di simile a quanto è accaduto in Occidente con la crisi economico-finanziaria, mai completamente risolta, del 2008?
Siamo alle solite. Le crisi in Occidente sono considerate fisiologiche, anche quando incidono pesantemente sui mercati (che poi non crollano certo, ma le iperboli giornalistiche sono la norma) e si ripercuotono sulla crescita economica. Tali crisi poi, ricorrenti come già a suo tempo rilevava K. Marx, sono consustanziali al capitalismo. In Cina invece, secondo la Macchina della disinformazione, le crisi costituirebbero il preludio al crollo del sistema, prima economico, poi beninteso istituzionale. Tale modello ermeneutico degli eventi nasconde, tra le altre cose, un pregiudizio e un auspicio. Il primo riguarda il convincimento inconscio o prefabbricato sul sistema politico/economico cinese, considerato in perenne procinto di implodere, a dispetto della sua tangibile stabilità e dei grandi successi mietuti negli ultimi 45 anni. Il secondo sentimento riflette la speranza anch’essa alimentata dalle oligarchie occidentali a guida Usa che la Repubblica Popolare possa presto implodere, per poterne saccheggiare le ricchezze e portarla all’asservimento neocoloniale, pratica come noto applicata con successo in tante parti del globo. Per fortuna di tutti, sono però quarant’anni che i cosiddetti China bashers – i bastonatori della Cina in servizio permanente effettivo – continuano ad accumulare sconfitte nella loro quotidiana attività di demonizzazione anticinese.
Che tipo di strategia, nel breve-medio periodo, intende adottare il governo cinese sul piano degli interventi economici?
Da quanto si vede, il governo cinese fa quel che può per contenere gli spiacevoli (certo) effetti di una deflazione, che trae origine dalla pesante riduzione dei consumi seguita alle politiche restrittive dello scorso anno (queste decisamente eccessive) che hanno ridotto l’attività economica e i redditi delle famiglie. Ci vorrà del tempo, ma nessun panico, la Cina – parte della catena di valore economico e finanziario su scala mondiale – tornerà a crescere a tassi sostenuti, tenendo conto delle compatibilità globali.
Cosa c’è dunque di vero negli scenari di flessione economica e occupazionale (soprattutto giovanile) in Cina, di cui hanno scritto tanti commentatori italiani?
In Occidente, i gatti (gli strumenti di politica economica) suscettibili di catturare il topo (la crescita economica) sono essenzialmente due, la politica monetaria e quella fiscale. Il resto è lasciato al cosiddetto mercato, e dunque al profitto privato, quanto mai disinteressato al potere d’acquisto e al benessere delle famiglie, se non nella misura in cui ciò porta ulteriori benefici. In Cina invece i gatti in grado di catturare il topo sono tre, la politica fiscale, quella monetaria e lo Stato, un gatto potentissimo e costantemente attivo nell’economia, direttamente o indirettamente, a seconda dei casi, e grande investitore in beni e servizi pubblici. E i risultati sono tangibili: nel 1978 il Pil pro-capite cinese era di 165 dollari, oggi di 13.721 (stime FMI), una crescita da nessun paese mai eguagliata in nessun tempo. A coloro che parlano di crollo della Repubblica Popolare è consigliabile un corso accelerato di semantica applicata. Certo, nemmeno il governo cinese è esente da errori od omissioni anche in economia, e da qualche ritardo storico, quale, affinché non vi siano equivoci, il tema ideologico/valoriale del rapporto Stato-cittadini e della libertà di espressione (ma quella dal bisogno è applicata meglio che in Occidente, se in alcuni decenni almeno 800 milioni di persone sono uscite dalla povertà). Il processo di emancipazione dei popoli, del resto, è lungo e tortuoso, mentre un efficiente sistema di welfare per 1,5 miliardi di persone richiede capitali enormi. Ma anche su questo fronte pian piano la Cina progredisce, e l’angoscia del capitalismo corporativo americano-centrico è forse quella di essere un giorno costretta, dati alla mano, a riconoscere che quel sistema consente una più efficiente allocazione delle risorse rispetto al neoliberismo capitalista, e che i paesi poveri se ne rendano conto, mettendo a repentaglio i privilegi di chi siede in cima alla piramide, poiché il paradiso dei ricchi è fatto dell’inferno dei poveri (V. Hugo).
Più in generale, in che direzione sta andando l’economia cinese?
Nonostante dunque una rappresentazione catastrofica, i dati suggeriscono che il Pil cinese continua a crescere, talvolta velocemente, altre volte lentamente. Per il 2023 le previsioni del FMI (e di altre istituzioni internazionali) situano esso tra il 4,5% e il 7% (a metà degli anni ‘90 essa cresceva, è vero, tra il 10 e 13% l’anno, ma partiva da livelli più bassi). Si tenga presente in proposito, per fare un raffronto, che Europa e Stati Uniti, se si salveranno dalla recessione, cresceranno la metà (gli Usa) e un terzo (l’UE) della Cina. Ciascuno può giudicare chi è davvero in crisi.
Questi rumors sullo stato di salute del sistema cinese preannunciano nuove tensioni sul fronte geopolitico, a partire dalla strumentalizzazione yankee della questione Taiwan?
I commenti mediatici sulla Cina (ma non solo) andrebbero giudicati con la lente epistemologica: perché pensiamo quel che pensiamo, perché diciamo quel che diciamo? La macchina della disinformazione, controllata dai capitali di Wall Street (tre agenzie di stampa, AP-Reuters-AFP, distribuiscono il 90% di ogni notizia politica ed economia internazionali) genera da anni un’immagine demonizzata della Cina, che è come noto lo sfidante più insidioso per l’egemonia Usa. È verosimile dunque che, dopo l’Ucraina contro la Russia, Taiwan sarà un altro campo di contrapposizione tra l’impero in relativa decadenza (ma pur sempre in declino), quello Usa, e questa volta la Cina. A tal fine Washington sta lavorando da anni all’allestimento di un’apposita impalcatura di containment (da leggersi in realtà come aggressione). L’Aukus (Australia, Regno Unito e Usa), il Quad (Usa, Australia, Giappone e India), l’Asean, l’IPEF (Indo-Pacific Economic Framework) e la recente alleanza Usa-Corea del Sud-Giappone (esistente nei fatti da tempo al di là dei malumori ormai sbiaditi sudcoreani contro il Giappone ereditati dalla guerra) costituiscono l’assetto con il quale gli Stati Uniti puntano ad accerchiare la Cina politicamente, economicamente e tecnologicamente, in aggiunta al cordone militare delle note basi militari Usa che minacciano la stabilità e la pace nella regione. La regione estremorientale diventerà la vera priorità degli Stati Uniti, che cercano persino di coinvolgervi la Nato (v. i comunicati finali degli ultimi tre vertici di Bruxelles 2021, Madrid 2022 e Vilnius 2023), sfidando la natura istitutiva di un’alleanza nata difensiva e centrata sul teatro atlantico, come dice il suo nome; tutto questo senza il consenso democraticamente espresso dei popoli e dei parlamenti dei paesi membri. La Cina, in definitiva, troverà la strada per uscire dalla palude della deflazione, nel rispetto del cruciale e prioritario criterio di sovranità nazionale, diversamente da quanto accade alle nazioni europee, fiere invece di essere asservite al sovrano americano, divenuto oggi persino più esoso e minaccioso.