EMP_T_Y”: arte tra vuoto ed empatia. Roma, 31 maggio alla Città dell'Altra Economia

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EMP_T_Y”: arte tra vuoto ed empatia. Roma, 31 maggio alla Città dell'Altra Economia

 

Contributo al dibattito di Angelica Alemanno*
 
"Bastano una A e una H per passare dal vuoto all’empatia? Questo sembra suggerirci lo scultore artista visivo Davide Dormino, che immagina uno spazio di confronto dove per una volta non siano i politici a parlare, ma gli artisti, gli intellettuali, rimettendo al centro l’emozione e uno degli strumenti più antichi per suscitarla: l’Arte. “EMP_T_Y”, performance pubblica a Roma nei pressi dell’Ex Mattatoio di Testaccio, alla Città dell’altra economia, 31 maggio 2025 ore 17.00, per interrogarci proprio su questo. Per iniziare un dibattito pubblico critico e autocritico.
 
 

Tra i partecipanti alla performance EMP_T_Y, figurano Salvatore Barbera, da tempo partner di Dormino nei progetti artistici e sociali, il collettivo Your Voice, diversi attivisti e giornalisti indipendenti. Interverranno inoltre Gabriele Germani per Ottolina TV, Elena Catozzi per Multipopolare Roma, Agata Iacono, sociologa, per l’AntiDiplomatico, la giornalista Giulia Bertotto (Byoblu ), Maya Issa, in rappresentanza del Movimento degli studenti palestinesi. A concludere l’evento sarà l’artista Alessandro Bergonzoni, che presenterà la performance Esercitazioni di immedesimazioni, non si sa ancora se in presenza o a distanza…
Accolgo l’invito ad una riflessione che mi appassiona moltissimo.
 

La pornografia della violenza

Siamo costretti ad osservare lo schermo come Alex di Arancia Meccanica, con gli occhi spalancati sulla brutalità, assuefacendoci progressivamente a ciò che qualche anno fa avremmo ritenuto inimmaginabile, feticcio della memoria da rinnovare “affinché non accada mai più”: lo sterminio di esseri umani. E basta litigare sul nome che debba avere il genocidio, ciò che sta accadendo è qualcosa di abominevole. E adesso? Adesso che sta accadendo, cosa facciamo? Adesso sembra cambiata la prospettiva, l’unità di misura dell’eticamente accettabile.

Una delle cause principali di questo mutamento è la crisi dell’empatia? Come può un artista alzare la voce e contro chi deve levare il proprio grido di denuncia, e soprattutto, che relazione ha l’arte con l’opinione pubblica? La saturazione dell’immaginario produce un effetto di desensibilizzazione, una vera e propria "pornografia della violenza": una ripetizione di immagini estreme che finiscono per non scalfirci più. Lo scroll continuo diventa il gesto ordinario dell’indifferenza. Il nostro sguardo è pieno di informazioni, ma vuoto di rivelazioni. E senza rivelazione, l’empatia non attecchisce.
Inoltre, aggiungiamo, la mancanza di impatto politico del sentire collettivo, l’apparente inutilità del dissenso, mina alla base la credibilità della protesta, alimentando un senso di impotenza profondo dal quale inconsapevolmente fuggiamo, voltando lo sguardo.

Dissenso impotente

“A che serve schierarsi, quando il dissenso pubblico non ha alcun potere?” Questa domanda, tanto bruciante quanto attuale, accompagna l’osservazione di una sproporzione sempre più evidente: da una parte, la violenza sistematica e documentata nei confronti della popolazione palestinese; dall’altra, l’apparente impotenza del dissenso culturale, artistico, pubblico. Oggi, nonostante la diffusione capillare di informazioni, il dissenso sembra non sortire più alcun effetto concreto. Anzi, assistiamo a un progressivo ed inesorabile appiattimento scientifico dello spirito critico, proprio laddove la cultura nasce, si moltiplica, e genera progresso. Anche la conoscenza è sotto attacco. L’amministrazione Trump ha revocato la certificazione di Harvard per il programma dei visti per studio, impedendo così all'ateneo di accogliere studenti internazionali.
 
Questa decisione ha messo a rischio il visto di circa 6.800 studenti stranieri, che rappresentano oltre il 25% del corpo studentesco dell'università. Non è un fatto isolato. È un segnale. Persino il luogo della ricerca, culla dello scambio, della collaborazione, della condivisione dei saperi, subisce la mutazione genetica dettata dall’odio.
Queste misure vanno lette come parte di una strategia più ampia di “chiusura identitaria”, in cui l’università, invece di essere uno spazio di dialogo e circolazione del sapere, diventa un luogo condizionato dalla geopolitica e dal sospetto.
 
Il cortocircuito dell’empatia
 
Una causa profonda di questa mutazione genetica dell’umano, suggerisce Dormino, è l’erosione dell’empatia, intesa come capacità di sentire l’altro come prossimo, vulnerabile, reale. Eppure, mai come oggi siamo esposti all’immagine reale della violenza. Il presente tragico irrompe nel nostro quotidiano a qualunque ora del giorno e della notte, senza sigla né titoli di testa. Instagram, TikTok, X (ex Twitter) hanno trasformato i social in media dominanti, più incisivi dei canali tradizionali, ostaggio della censura, capaci di veicolare in tempo reale scene di devastazione, testimonianze dirette, corpi dilaniati.
 
La conoscenza non è più un argine al male
 
La mia generazione è cresciuta con l’idea che conoscere fosse l’antidoto al male. Che se solo il mondo avesse saputo, nulla sarebbe accaduto. Abbiamo creduto che il genocidio nazista fosse stato possibile perché nascosto. E abbiamo interiorizzato la convinzione che bastasse mostrare, informare, per risvegliare le coscienze.
 
Hannah Arendt ci aveva avvertiti: il male non si manifesta solo nella ferocia o nel fanatismo, ma nella ripetizione burocratica dell’obbedienza. Nella sua forma più insidiosa. Oggi Gaza è sotto gli occhi del mondo. Tutto è visibile. Eppure, non riusciamo ad opporci. Non ci sono armi pacifiche sufficienti. Sembra che nemmeno l’arte sia più in grado di farlo. Dopo l’11 settembre, sembra che i sogni di un altro mondo possibile siano svaniti del tutto, frantumati dalla corsa straziante verso l’autodifesa. Ma difesa da chi? Forse proprio da noi stessi. Da questo modello tossico di sviluppo cieco, garantito solo dalla sopravvivenza del dolore e della disparità, siamo in grado di difenderci? L’Occidente ha accelerato nella direzione peggiore: sorveglianza, dominio, reazione militare.
 
Il legame tra coscienza e azione si è spezzato
 
Una proposta come quella di EMP_T_Y sembra evocare esattamente questo: punta il dito verso la responsabilità individuale. Molte persone sono coscienti delle ingiustizie (climatiche, sociali, geopolitiche), ma non agiscono. L’informazione è accessibile, le prove sono visibili, eppure prevale l’inazione. La coscienza è diventata spettatrice.
 
Un vuoto da colmare
 
Per invertire questa tendenza mi piace immaginare tre condizioni:
Ricostruire responsabilità collettive. L’empatia senza azione si spegne. Servono reti, associazioni, luoghi di confronto reale. L’indignazione va trasformata in impegno organizzato.
Fare dell’arte un atto politico. Non serve lo slogan, ma nemmeno la neutralità. L’arte può ancora (e lo fa da sempre) generare empatia, raccontare ciò che la cronaca disintegra, rimarginare le ferite della nostra empatia collettiva trafitta.
Restituire profondità alle immagini. Contestualizzare, raccontare, incarnare. Nutrire uno sguardo critico che distingua tra rappresentazione e realtà.
 
Tre derive pericolose
 
Oggi, di fronte alla tragedia palestinese, emergono molte posizioni ambigue, tre di queste mi sembrano le più frequenti ma ugualmente pericolose:
L’accusa di antisemitismo a chi difende i palestinesi, come se criticare uno Stato significasse negare la storia di un popolo. Come se essere dalla parte degli ebrei significasse giustificare ogni atto del governo israeliano.
La normalizzazione silenziosa, come se ciò che accade fosse un epilogo inevitabile. Il mantra dei "due popoli, due Stati" è diventato una formula vuota. L’occupazione israeliana non è mai stata realmente condannata dai suoi alleati.
L’indignazione assoluta, che sfocia nel desiderio di tribunali simbolici e vendetta. Una giustizia evocata come condanna morale destinata inevitabilmente ad alimentare una ulteriore polarizzazione ed un infinito campo di battaglia.
 
Abbiamo completamente dimenticato la quarta via: quella della Pace. Negoziare. Accettare il conflitto come atto creativo di crescita e scambio, non necessariamente come sentenza disruttiva che annienti l’altro. Credo sia necessario depotenziare la violenza e ridurla a quella che è: un atto infantile, di basso livello, arcaico. È necessario ri-scoprire la dignità di scelte opposte: capaci di includere, aggregare, mediare. Scelte evolute che proiettino la civiltà verso la consapevolezza che l’unica ricchezza possibile, in questa fase planetaria, sia la ricchezza collettiva. C’è ancora spazio per immaginare questo? Schierarsi per continuare a sentire.
 
Ci chiediamo allora se oggi serva ancora schierarsi, avere una posizione divergente, se la democrazia esista davvero, o ne sia rimasto solo il pallido feticcio. Schierarsi, in uno spazio sempre meno democratico, serve a qualcosa?
Mi piace pensare di sì. Prima di tutto, serve per non smettere di sentire. Per non accettare che la guerra resti l’unico metro. Serve per non cedere alla deriva dello sguardo inespressivo del drone.
 
Ed ecco che in questo contesto l’artista non può che schierarsi. Schierarsi serve per proteggere l’empatia. Per continuare a vedere. Per restare umani. Arte come testimonianza (Goya, Rivera), come denuncia (Picasso, Banksy, Ai Weiwei), come pedagogia (Pasolini, Beuys). E se da un lato i murales, le performances, la street art, ci mostrano l’arte come azione collettiva, dall’altra artisti come Pawe? Kuczy?ski la usano per affrontare temi sociali, politici ed economici contemporanei. Opere che utilizzano spesso composizioni surreali per evidenziare i paradossi e le contraddizioni della società moderna, uno sforzo che va riconosciuto allo stesso artista Davide Dormino che ci accompagna a riflettere."
 
 
*Angelica Alemanno è RUFA School Program Coordinator |specialista di linguaggio audiovisivo| Autrice | giornalista indipendente| Specializzata sui disturbi di apprendimento all' Università di Roma Tre.

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